Ondacinema

recensione di Matteo De Simei
8.0/10

Il 23 maggio a Palermo non è un giorno come tutti gli altri. O forse si? Il dubbio tormenta da un po' di tempo Franco Maresco che nel 2017 ha chiesto l'intercessione della tenace amica e fotografa di mafia Letizia Battaglia al fine di appurare lo stato di salute della loro Palermo dopo venticinque anni dalla scomparsa dei due più emblematici rappresentanti della lotta al potere della mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Maresco, bastardo d’altri tempi, sguinzaglia la Battaglia in mezzo agli edulcorati cortei aperti in tutta la città. Il pop latino alimenta lo sfrenato ritmo dei giovani delle scuole, intenti a ballare febbrilmente mentre impugnano un cartello con su scritto "la cultura uccide la mafia". Prima si va ad ammirare la "nave della legalità" pronta a salpare, poi tutti sotto l'imperioso Albero Falcone in via Notarbartolo. Forse un po' troppo imperioso visto che a qualcuno di questa prosperosa e rigogliosa vitalità floristica, sinceramente, ne farebbe anche a meno. La donna, con un passato da attivista politica tra le fila dei Verdi e cofondatrice del Centro di Documentazione "Giuseppe Impastato", non riesce a reggere l'urto. il disorientamento della Battaglia è totale, a tratti si tramuta nella rabbia di una sbracciata o di un gestaccio tra la folla ma ben presto è destinata a placarsi in un pianto sconsolato da sola, all’interno di un auto.

La frase che dà il titolo al film è una citazione dell'impresario e talent scout Ciccio Mira contenuta nel precedente "Belluscone – Una storia siciliana". Non a caso quest'ultima opera del cineasta palermitano è il prosieguo naturale di quella (triste) storia siciliana. Un racconto che sposa i canoni cinematografici del precedente lungometraggio (ovvero la totale assenza degli stessi, mediante una libera e personale miscellanea di interviste, immagini di repertorio, telecamere nascoste, intermezzi animati…) dove a essere stigmatizzati sono i freak figli di una Palermo fuori dal mondo, dove la satira politica è un elemento imprescindibile della disamina sociale e antropologica, dove l'inclinazione documentaristica e il raffinato, scintillante bianco e nero suggellano lo stile di una carriera cinematografica, dove la voice off di Maresco è insieme il marchio di fabbrica e la ciliegina sulla torta.
A pensarci verrebbe da chiedersi: ma se i punti di contatto sono gli stessi di "Belluscone", allora cosa aggiunge "La mafia non è più quella di una volta"? Tanto. A cominciare dall'epifania del trailer ufficiale. Quel Ciccio Mira che in mezzo al marasma dei suoi discepoli/artisti catturati in frenetici e molteplici split screen si addormenta, sprofondando in una  fragorosa russata. Mai lo spettatore si troverà così in difficoltà in un film di Maresco nel discernere il sogno dal reale, il naturale dall'artificio. Un'evoluzione, probabilmente definitiva, dell'alienazione (la sequenza del trans, quella del produttore Mannino impazzito).

La mafia dunque si è addormentata insieme a Ciccio Mira. Non ha bisogno di risvegliarsi perché dorme sonni tranquilli, dopo aver radicato le coscienze coi suoi tentacoli e aver rincoglionito le masse col berlusconismo. Hanno ragione Mira e Maresco, la mafia non è più quella di una volta. E non tanto perché non ammazza più o perché ha perduto dei valori (come vorrebbe intendere Mira, un Buscetta dei giorni nostri ma più ignorante e pavido), bensì perché la sua metamorfosi è una malinconica propagazione a macchia d'olio di un tessuto sociale abbandonato e destinato a un sostentamento civile, etico e culturale in via di estinzione. Neanche il vitalismo attempato di Silvio oramai rassomigliante (in un confronto a dir poco sacrilego) al martire Don Pino Puglisi è in grado di destare il sonno (meglio, il coma) della ragione dei palermitani. Il vigore e la virilità canora di Vittorio Ricciardi lasciano il posto al lamento lobotomizzato del presunto miracolato Cristian Miscel e il fervore politico di Maresco di appena cinque anni fa si affievolisce in una spoglia ballata sulla solitudine, sul silenzio e soprattutto sul tradimento delle istituzioni (il cazziatone spetta anche al Presidente della Repubblica Mattarella, reo di aver commesso omertà nei riguardi della storica sentenza sulla trattativa Stato-mafia).

È questa la chiave di volta di questo secondo dittico: una esilarante, terrificante metastasi descritta sempre più a livello macroscopico (la storia siciliana diventa sempre più una storia italiana, sino al meraviglioso, desolante finale), dove i freak di ieri come Paviglianiti e Giordano lasciano spazio ai nuovi Ciccio Mira, Matteo Salvini, Luigi Di Maio (profeticamente evocati, non che fosse difficile preannunciarne la sciagura). E allora essere accompagnati durante il viaggio del grottesco da una inviperita Letizia Battaglia è anche il segno che, per quanto il ridicolo e il terrore possano prendere il sopravvento, non è ancora il momento di gettare la spugna. 
Premio Speciale della Giuria alla 76a Mostra di Venezia, per quello che può interessare uno dei più grandi autori in grado di irradiare luce sulle inquietanti ombre della nostra epoca.


14/09/2019

Cast e credits

cast:
Letizia Battaglia, Ciccio Mira


regia:
Franco Maresco


distribuzione:
Istituto Luce Cinecittà


durata:
105'


produzione:
Ila Palma, Dreamfilm, Tramp Limited


sceneggiatura:
Franco Maresco, Claudia Uzzo, Francesco Guttuso, Giuliano La Franca, Uliano Greca


fotografia:
Tommaso Lusena de Sarmiento


scenografie:
Nicola Sferruzza


montaggio:
Edoardo Morabito, Francesco Guttuso


costumi:
Nicola Sferruzza


musiche:
Salvatore Bonafede


Trama
Nel 2017, in occasione del venticinquesimo anniversario della strage di Capaci e di via D'Amelio, Franco Maresco si interroga su quanto degli ideali di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sia rimasto nell'Italia odierna, specie in Sicilia, e sul rapporto della sua popolazione con la mafia. A tal proposito, discute con la fotografa di mafia Letizia Battaglia, amareggiata dalle manipolazioni delle commemorazioni di Falcone e Borsellino da parte della classe politica italiana.