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recensione di Antonio Pettierre
7.0/10

In un paesaggio immerso nella bufera di neve si scorge una mandria di cavalli che nitriscono spaventati. La macchina da presa si muove in avanti sempre in campo lungo. Si nota la luce di una fattoria a cui il personaggio senza volto si avvicina fino alla soglia di una stalla dove le pecore, prima belanti, si zittiscono improvvisamente e girano le teste all’unisono. L’essere si apparta in una zona della stalla e dopo poco se ne va. Una pecora esce dalla gabbia e stramazza al suolo.

Inizia così, “Lamb”, opera prima di Valdimar Jóhannsson, con una lunga soggettiva dove la presenza di un essere misterioso è evidenziata dal respiro affannoso, dal passo pesante nella neve, dallo sguardo enigmatico e spaventato delle pecore nella stalla. La macchina da presa stacca sugli infissi esterni della casa padronale inquadrando una donna che guarda fuori nel buio. Stacco e la macchina da presa con un controcampo entra all’interno della cucina dove una coppia si sta apprestando alla cena di Natale.

In questo incipit si racchiude tutto il tono della pellicola del regista islandese: creazione di suspense attraverso l’utilizzo accorto degli elementi sonori, dialoghi ridottissimi, una colonna sonora ansiogena, sguardi animali (le pecore nella stalla) e umani (la donna nella cucina) simili nella loro espressività ma diversi nella loro profondità scopica. Infatti, se i primi sono ravvicinati verso il soggetto fuori quadro, agendo come riflesso in assenza del personaggio, il secondo è perso nella lontananza della notte invernale verso memorie emotive del passato.

Nelle successive sequenze ci viene presentata la quotidianità della coppia, Maria (Noomi Rapace) e Ingvar (Hilmir Snær Guðnason) sono allevatori di pecore e agricoltori di un pezzo di terra in una zona remota dell’Islanda, la cui fattoria è circondata da una catena di montagne e da un fiume. I loro giorni passano tranquilli nelle attività fatte di lavoro, riposo e svago come leggere un libro o sentire la radio. Fino a quando, nell’assistere alla nascita degli agnelli, uno di questi si rivela particolare ed entra a far parte della famiglia. In questo caso, il regista prepara l’apparizione dell’essere per gradi e inquadra solo la testa fin dall’inizio nelle braccia di Maria. In seguito, sarà evidente che si tratta una femmina con la testa e un braccio di pecora e il resto del corpo di una bambina. Sarà l’arrivo di Pétur, fratello di Ingvar, maturo musicista rock squattrinato, a interrompere l’idillio della coppia con la nuova arrivata.

I temi che sono affrontati in “Lamb” sono molteplici. Il primo, il più evidente a una prima lettura, è quello della maternità rappresentata dalla protagonista che vede nella creatura il surrogato della figlia perduta – di cui si ha conferma in un’unica inquadratura quando Maria visita un piccolo cimitero di famiglia e leggiamo il nome di Ada, il medesimo con cui i neogenitori chiamano l’essere. Del resto, non è elemento secondario il nome Maria, come richiamo alla madre del Cristo: la religiosità è un elemento ben presente e ripetuto. Abbiamo il concepimento di Ada la notte di Natale; l’agnello pasquale che si sacrifica; la figlia di divinità, ponte tra il mondo degli uomini e quello della Natura; la coppia di agricoltori che vivono dei frutti della loro terra. Viene messo in scena un sincretismo tra cristianità e paganesimo che affonda le radici nella storia del paese nordico.

La maternità è vissuta anche come confronto tra Maria e la pecora che ha partorito Ada: in sequenze surreali - che amplificano l’elemento fantastico rispetto a uno orrorifico (a dire la verità assente) – c’è una continua rivendicazione dell’animale della propria figlia con il costante belare disperato di fronte alla finestra della stanza da letto dove si scorge la culla di Ada e il montante dell’odio di Maria nel ribadire l’essere come “suo”, come simulacro di una maternità strappata a sua volta e di cui si è riappropriata per volere divino. Il troppo amore (o la sua caducità) porta Maria a un gesto estremo che diventa il nesso causale dell’effetto nel finale in cui subisce una tragica vendetta in un “occhio per occhio” biblico da parte della divinità (di cui non vogliamo rivelarne del tutto il senso per lasciare allo spettatore la sua completa comprensione alla personale visione della pellicola).

Un altro tema importante è la presenza dell’umano come elemento della Natura. Jóhannsson ha scritto la sceneggiatura insieme a Sjón, pseudonimo del poeta e scrittore islandese Sigurjón Birgir Sigurðsson, paroliere anche di molte delle canzoni della concittadina Björk. Si deve a quest’ultimo l’innesto dei tanti elementi tematici surreali e legati alle leggende islandesi. Il regista traduce questi elementi con la scelta di inquadrare spesso, in campi lunghi e lunghissimi, il paesaggio estremo, composto dalle montagne, il fiume, i campi, le strade sterrate che non hanno fine, trasformandolo in un genius loci in cui la presenza umana diventa sottile, si allinea con lo sguardo delle pecore, del cane, della Natura stessa. E il gesto di Maria per il possesso di Ada è una rottura di un equilibrio dello spazio e del tempo. Sjón, e Jóhannsson, portano all’interno di “Lamb” un elemento radicato nella cultura islandese per le credenze popolari e autoctone come le leggende sui troll e le divinità legate ai luoghi o agli elementi naturali, siano essi massi, scogliere o montagne, che diventano la testimonianza della presenza o del passaggio di esseri ancestrali. Del resto, il “capro” è uno delle immagini utilizzate nella rappresentazione dei troll – che se nella cristianità raffigura il diavolo, nelle culture nordiche diventa molto più ambiguo tra rappresentazione di malvagità o difesa dello stato di natura. E Ada, che fino a un certo momento dipende esclusivamente da Maria e Ingvar, dopo un secondo incontro con la creatura invisibile, fugge e si specchia in casa: in quel preciso momento, nella sua immagine riflessa, prende coscienza di chi è veramente figlia e di chi essa sia.

Jóhannsson ha una lunga esperienza come operatore di macchina e addetto agli effetti speciale e tutto ciò è evidente nella capacità di messa in quadro, con i continui ed efficaci campi e controcampi tra i paesaggi (in campo lungo e lunghissimo) e i personaggi (in totali o primi piani), così come il risultato fluido della presenza di Ada all’interno della scena. Riesce anche bene nella messa in scena costruita in sottrazione del profilmico, in elementi essenziali dei movimenti di macchina e degli attori all’interno della scenografia, in cui le linee geometriche delle strutture artificiali sono in contraltare con quelle sinuose e curve degli elementi naturali. Il regista sceglie di costruire la suspense attraverso elementi, come abbiamo detto, non visuali, in una continua alternanza di climax e anticlimax, fino alla surprise del finale. Ma se questo è un pregio, è, forse, allo stesso tempo il limite ultimo di “Lamb”: dopo il disvelamento della creatura divina, se alla prima visione si resta colpiti, a una seconda ne viene depotenziato l’effetto, abdicando alla dittatura del visibile rispetto al mistero dell’invisibile.

In tutto ciò, l’aspetto meno evidente, ma più interessante di “Lamb” è la questione del tempo. È significativa la scena in cui Ingvar racconta a Maria di aver letto che degli scienziati potrebbero teoricamente costruire una macchina del tempo. E se Maria la utilizzerebbe per andare nel passato (per recuperare la figlia si può supporre), Ingvar dice che non gli interessa e che è meglio vivere hic et nunc. Da un lato, abbiamo Maria che durante la crescita di Ada legge un libro sulla macchina del tempo; dall’altro, la maggioranza della storia si svolge durante l’estate artica in cui si ha luce sia di giorno che di notte, in un presente meteorologico e temporale senza soluzione di continuità. Così, i protagonisti vivono in uno spazio-tempo bloccato e immanente: Maria nel passato, Ingvar nel presente ed entrambi in uno spazio alterato e leggendario. In un certo senso, si assiste a un viaggio in un altro tempo, quello della leggenda, dove è il cinema la macchina che lo permette.


09/04/2022

Cast e credits

cast:
Noomi Rapace, Hilmir Snær Guðnason, Björn Hlynur Haraldsson


regia:
Valdimar Jóhannsson


titolo originale:
Dýrið


distribuzione:
Wanted Cinema


durata:
106'


produzione:
Go to Sheep, Boom Films, Black Spark Productions


sceneggiatura:
Sjón, Valdimar Jóhannsson


fotografia:
Eli Arenson


scenografie:
Snorri Freyr Hilmarsson


montaggio:
Agnieszka Glińska


costumi:
Margrét Einarsdóttir


musiche:
Þórarinn Guðnason


Trama
Maria e Ingvar sono degli allevatori che vivono in Islanda. Nella loro remota fattoria allevano pecore e coltivano la dura terra vivendo la loro tranquilla quotidianità. Fino al giorno in cui una loro pecora dà alla luce una strana creatura che la coppia prende con sé. Se in un primo momento appare come una ventata di felicità, l’arrivo dello strano essere sarà foriero di future tragedie.
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