Ondacinema

recensione di Matteo Pernini
8.0/10

marx può aspettare

Il 1968 è anno di una certa rilevanza per svariate e note ragioni, ma per la famiglia Bellocchio esso reca anzitutto le stimmate del gesto di Camillo, fratello gemello del regista, che appena dopo il Natale di quell’anno si tolse la vita, ventinovenne, impiccandosi a una trave. Già disseminata, ripensata, inscenata in molti luoghi del suo cinema – e in qualche modo presenza tutt’altro che sotterranea, al pari della soffocante religiosità materna ("L’ora di religione") e delle grida e le bestemmie del fratello Paolo ("I pugni in tasca") – la morte di Camillo assurge, nella ricostruzione fattuale operata per il tramite di ricordi familiari, brevi filmati casalinghi, stralci di cinema e fotografie, a strumento col quale l’irriducibile iconoclasta Bellocchio tenta di violare la sacralità (l’ennesima) di un rimosso, che ha informato, da quella tragica giornata invernale, la vita dei cinque fratelli, ne abbiano o meno essi dato segno esteriore.

Nell’incipit de "Gli occhi, la bocca" Lou Castel scende da un treno e vaga per le vie della città illuminate a festa, come inebetito. Giunge a casa e prima di entrare osserva dalla finestra i suoi familiari. Una volta dentro si dirige verso una stanza ove giace distesa la salma del fratello suicidatosi e solo allora i parenti gli si fanno incontro. Di sfuggita il personaggio di Michel Piccoli gli sibila "È una disgrazia, intesi?". Di questa e molte altre scene che popolano la cinematografia e l’inconscio bellocchiani "Marx può aspettare" fornisce una sorta di tormentato e decisivo making of.

Si è parlato, poco sopra, di "ricostruzione fattuale" e già urge emendarsi, poiché se pure il frequente ricorso a materiali d’archivio e la cura per uno svolgimento delle vicende familiari che vada di pari passo con quelle storiche testimoniano di un certo rigore nell’esposizione, il cinema di Bellocchio, che non è mai stato meno che opera lirica, trova nel carisma dei familiari, in quella pulsione da primattori che è in parte ragione del loro successo nelle cose della vita e qui li impone alla macchina da presa come sotto un occhio di bue, lo stimolo per imbastire l’ennesima cerimonia dell’inconscio in forma di cinema.
Dinanzi alle domande di Bellocchio, voce fuori campo o corpo in scena, i fratelli si sforzano di dire l’indicibile, ossia i motivi di un gesto per cui ogni spiegazione appare manchevole. Ci si assesta, al termine di una sequela quasi automatica di tormentose omertà – cosa vi era scritto nella lettera scritta da Camillo prima di togliersi la vita? –, su una versione che chiama in causa le distorsioni di un capitalismo pronto a straziare chi, inadatto a una comune vita borghese, vede misurato il proprio grado di autodeterminazione col metro del benessere sociale, della rispettabilità economica, del riconoscimento altrui.

Non deve essere stato semplice essere un Bellocchio, dividere stanze e cognome con fratelli risoluti, ricchi di ingegno, prestigio e talenti, assistere in disparte, con la leggerezza quieta e garbata di un vitellone di provincia, ai successi cinematografici di Marco, alle ferme rivendicazioni sindacali di Alberto, ai rispetti tributati a Piergiorgio, fondatore dei "Quaderni piacentini". Scoprirsi sprovvisto di quelle doti, assegnate in quantità ai consanguinei, non poteva non essere fonte di desolazione, in specie per un animo malinconico, ma peggio fu l’indifferenza reciproca di quei fratelli votati all’egotismo e al successo e la percezione netta, nel più fragile tra loro, di una radicale inadeguatezza cresciuta col tempo in testa come lo scavo di un insetto. Alla domanda della figlia, un po’ accigliata, se egli avesse risposto alla lettera, l’ultima, con cui Camillo gli chiedeva se ci fosse per lui un posto nel mondo del cinema, Bellocchio incespica in un silenzio assai eloquente, per poi ammettere che forse non lo fece mai ("Me ne sono sempre fregato" confessa Bellocchio-Castel ne "Gli occhi, la bocca").

Su quella che a parole si direbbe la laica messa in scena di un mea culpa collettivo il talento visivo di Bellocchio costruisce con crudele gentilezza un esercizio di ricognizione di sé, in cui per l’ennesima volta si svelano le asperità dell’umano. Non ci ispirano troppa simpatia questi fratelli, senili censori di se stessi, che dettagliano innanzi alla macchina da presa le loro ragioni e i loro torti in eguale misura e per gli uni si premurano di certificare i corrispettivi altri così da dar mostra, al tribunale degli spettatori, di buon senso e ragionevolezza. Oltre l’esercizio di retorica, però, si avverte – ed ecco la maestria di Bellocchio nell’indugiare appena sui volti per scoprirvi quanto di nascosto o, viceversa, staccare un istante prima che la scena gonfi in eccessi di lirismo – l’intensità del loro dolore e l’incredulità per non aver saputo presagire il gesto e la fatica di convivervi a posteriori. Dei familiari qui intervistati quella che più ha catturato il nostro affetto è senza dubbio Letizia, la sorella sordomuta già intravista in "Sorelle Mai", ed è a lei e alla gentilezza dei suoi auspici che Bellocchio giustamente assegna il prefinale.

"Marx può aspettare" – vale a dire la frase che Lou Castel ripete ne "Gli occhi, la bocca" e che Camillo rivolse a Marco mentre questi, sedotto dalla rivoluzione, lo incitava all’impegno verso il popolo – è, dunque, l’ennesimo esorcismo in chiave filmica dei fantasmi della propria immaginazione. Vi ritornano i deliri di una madre preda dell’incubo degli Inferi, la schizofrenia di uno dei fratelli, gli impeti antiborghesi, le nevrosi in famiglia, la musica classica, l’istituzione religiosa, la psicoanalisi. Sul finale padre Virgilio Fantuzzi riunisce in scena gli ultimi due termini del discorso e racconta a uno stupito Bellocchio, con fervore gesuitico, dello slancio religioso nascosto nella sua opera. La tesi non è nuova – che la distanza tra il bestemmiatore e il prete sia al postutto inferiore a quella tra questi e un laico – ed è certo che Bellocchio col suo cinema si sia inoltrato, per via di autoanalisi, lungo una tortuosa e personalissima via crucis, ma quel che più ci piace qui è la costruzione del momento, le scelte di campo, il fatto che Bellocchio sia lì, a dialogare a vista con padre Fantuzzi in un corpo a corpo serrato con la sua coscienza. All’osservazione del parroco il regista ride di quel tipico riso tra l’autentico e il costruito che tante volte nelle interviste abbiamo conosciuto e che adombra qui un sovraccarico di tensione interamente riverberato sull’inquadratura. Da Maestro qual è Bellocchio si espone e ci espone senza infingimenti – o appunto per tramite d’essi – i peccati originali da cui ha preso avvio la sua formidabile esperienza cinematografica.


27/07/2021

Cast e credits

cast:
Piergiorgio Bellocchio, Alberto Bellocchio, Letizia Bellocchio, Maria Luisa, Virgilio Fantuzzi, Luigi Cancrini, Gianni Schicchi


regia:
Marco Bellocchio


distribuzione:
01 Distribution


durata:
100'


produzione:
Kavac Film, Rai Cinema, Tenderstories, Simone Gattoni


fotografia:
Michele Cherchi Palmieri, Paolo Ferrari


montaggio:
Francesca Calvelli


musiche:
Ezio Bosso


Trama
Natale 1928. Camillo Bellocchio, gemello del regista, si impicca, ventinovenne, a una trave nella sua palestra. Cinquant'anni dopo i fratelli si riuniscono per cercare un senso in quel gesto disperato che lasciò in loro tracce ineludibili.