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recensione di Vincenzo Chieppa
7.0/10

Qualche giorno fa, alla partita d’addio al tennis di Roger Federer, John McEnroe era seduto sulla panchina rivale in qualità di coach del team world, la rappresentativa dei giocatori non europei della Laver Cup. Federer, con l’amico-rivale di sempre Rafa Nadal, sfidava in doppio la coppia di americani composta da Jack Sock e Frances Tiafoe. Inutile dire che la partita aveva tutti i connotati del one man show, nonostante i tennisti che scendevano in campo fossero in quattro. Un’esibizione nell’esibizione, considerato che la Laver Cup è un torneo-vetrina, valido quasi esclusivamente come macchina da soldi.
Durante una delle pause, McEnroe si rivolge a Sock e Tiafoe dicendogli qualcosa come: "è un momento bellissimo, ma se vinciamo sarà ancora più bello". La partita la vinceranno effettivamente i due americani, dopo che Federer e Nadal erano stati a un passo dalla vittoria con un match point non sfruttato, l’ultimo della carriera dello svizzero. Sock e Tiafoe verranno definiti da Panatta "trogloditi del tennis" per la foga agonistica messa in campo in un match di esibizione pressoché inutile, nel giorno dell’addio di colui che per molti è stato il più grande di sempre di quello sport.

Ebbene, per comprendere il personaggio John McEnroe bisogna partire da quella frase carpita dai microfoni a bordo campo della O2 di Londra. Quella Londra che, a lungo ossessione del McEnroe giocatore, torna ad ospitare il McEnroe maturo, ormai sessantatreenne, a quarant’anni di distanza dai tornei che lo hanno consegnato alla storia come campione di tennis, ma anche – e per certi versi soprattutto – come personaggio decisamente sui generis. Un personaggio che il documentario di Barney Douglas racconta a tutto tondo, partendo ovviamente dai trionfi sportivi per arrivare alla vita post tennistica, alla storia di un personaggio, appunto, che abbandona ciò che lo ha reso celebre per diventare padre, marito e soprattutto uomo.
La prima parte del film si concentra dunque sul McEnroe sportivo, con un ritmo veloce come una prima di servizio e una verve sferzante come un rovescio in slice. I duelli con Jimmy Connors, quelli con Vitas Gerulaitis, ma soprattutto le battaglie con Björn Borg. Wimbledon 1980 è la prima finale slam che vede contrapposti i due rivali, partita epica che il cinema ha già raccontato diffusamente in "Borg McEnroe". Quella però era un’opera di finzione, con attori di richiamo (McEnroe era interpretato da Shia LaBeouf) e un budget importante. Qui ci troviamo di fronte a un documentario, che quello stesso evento lo ricorda, ovviamente, con immagini di repertorio, selezionate attentamente e mai troppo ridondanti. Dopo Wimbledon ‘80 (vittoria di Borg, per la cronaca, per il suo quinto titolo consecutivo sul prato londinese), la sfida si ripete, quello stesso anno, agli US Open, dove McEnroe si prende la rivincita. E poi Wimbledon ‘81, con McEnroe che questa volta spodesta il re, aggiudicandosi il torneo più prestigioso del tennis moderno. E per finire gli US Open ‘81, altra vittoria di McEnroe su Borg che poco tempo dopo si ritirerà dall’agonismo, ancora giovanissimo (26 anni), con una decisione che sconvolse il mondo del tennis (e non solo).

Ma "McEnroe" non è ovviamente – e banalmente – soltanto una carrellata dei principali successi e insuccessi del tennista americano. È innanzitutto un viaggio nella psiche di uno degli sportivi più controversi del Novecento, famoso per le sue scenate e le sue invettive contro arbitri e giudici di linea, per le sue racchette spaccate, per i suoi insulti (e talvolta anche gli sputi) ai giornalisti. Per la sua vita sopra le righe, in campo e fuori. Perché McEnroe faceva parlare di sé anche e soprattutto nei tabloid. Eccome se lo faceva. Iniziato alla movida dall’amico Gerulaitis, l’allievo supererà ben presto il maestro e nella seconda metà degli anni Ottanta diventerà decisamente più celebre per la sua attività off court che per quella dentro il campo da gioco. L’uso di droghe, i matrimoni con grandi personalità del cinema e della musica. Prima con Tatum O’Neal, con cui c’è una buona intesa, visto che li accomuna la condizione di talenti precoci (la O’Neal, figlia di Ryan, vinse un Oscar a dieci anni per "Paper Moon – Luna di carta", di Peter Bogdanovich). Poi con la rocker Patty Smyth (quella meno famosa, con le y al posto delle i).
La marijuana non ha aiutato. La cocaina non ha aiutato. I tradimenti non hanno aiutato, dice McEnroe nelle svariate sessioni in cui si racconta in prima persona, con onestà e schiettezza. In quei monologhi, l’uomo esce allo scoperto pur se inscatolato in un ambiente minimalista, una sorta di palco teatrale, che sembra richiamare, da un lato, l’atmosfera di uno showdown esistenziale, e dall’altro la possibilità di un’evocazione allegorica volta a suggerire l’idea di un personaggio che recita una parte. Eppure, non c’è nulla di più spontaneo di McEnroe e delle sue follie, fuori e dentro al campo da tennis. "Chi non vorrebbe gridare e insultare un arbitro?" dice a un certo punto Keith Richards, intervistato dal regista. La spontaneità irruenta e veemente di McEnroe si scontra con la glaciale impassibilità di Borg, divorato da demoni che eppure non lasciava mai trasparire durante le partite. "Come si fa a non dire una parola in campo?" si chiede McEnroe incredulo.

Barney Douglas ci racconta questo e altro ancora in un’opera che, visto anche l’oggetto, non poteva permettersi particolari guizzi stilistici. Eppure, la convenzionalità di un documentario sostanzialmente biografico e descrittivo è rotta in quegli svariati punti in cui il regista, tramite la fotografia, il montaggio, i movimenti di macchina o l’uso della colonna sonora, riesce a regalare scene e sequenze visivamente molto interessanti. La carrellata aerea iniziale, tra i grattacieli di New York, evoca atmosfere a cavallo tra il noir, la fantascienza alla "Blade Runner" e le riprese in notturna di un "Miami Vice". Il modo in cui vengono introdotti i principali rivali dell’epoca - Nastase, Gerulaitis, Connors, Borg - strizza invece l’occhio al mondo dei backstage pop-rock, introducendo il tema del tennis come sport (già) elitario e sofisticato pronto a diventare un fenomeno di massa e di culto. Ma soprattutto, a colpire è la sequenza dedicata alla finale del Roland Garros 1984. McEnroe è all’apice della sua forma. Quell’anno è ancora imbattuto quando arriva ad affrontare Ivan Lendl all’ultimo atto dello slam parigino. Lo psicodramma vissuto da McEnroe in quella finale è reso dal regista con un efficacissimo ricorso al montaggio, al sound mixing e, infine, alla colonna sonora, che irrompe stridente a completare il climax di suspense, angoscia e oppressione.
Quella stagione fu la migliore in assoluto di McEnroe, ma fu anche l’inizio della sua parabola discendente. You could not be serious, John.


03/10/2022

Cast e credits

cast:
John McEnroe


regia:
Barney Douglas


titolo originale:
McEnroe


distribuzione:
Showtime


durata:
104'


produzione:
Sylver Entertainment


sceneggiatura:
Barney Douglas


fotografia:
Lucas Tucknott


montaggio:
Steve Williams


musiche:
Felix White


Trama
Vita e gesta del leggendario tennista John McEnroe, il "bad boy del tennis".