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recensione di Matteo Pernini
7.5/10
Dopo l'epos magniloquente, le architetture sontuose e gli sconsiderati virtuosismi del contestato "Baarìa", non era facile prevedere l'indirizzo che avrebbe seguito il cinema di Tornatore. Da sempre disgiunta tra l'anima regionalista di progetti dal sapore profondamente autobiografico ("Nuovo Cinema Paradiso") e il ripiegamento intimista nelle regioni oscure dell'animo umano ("Una pura formalità" e "La sconosciuta"), la sua opera ha impresso, nel panorama italiano, le tracce di un percorso alquanto dispersivo, un confuso viavai di generi, in cui l'estetica calligrafica e gli afflati melodrammatici costituiscono le radici comuni di un discorso artistico incapace di affrancarsi da manifestazioni retoriche. Un cinema esibizionista, bulimico e sovrabbondante, anche quando insegue storie piccole e grigie di inquietudini alto borghesi e, pertanto, inabile a raccontare con partecipazione l'intimità dei suoi protagonisti.

Date queste premesse è naturale, all'uscita dalla sala, mentre ancora scorrono i titoli di coda de "La migliore offerta", rendersi conto che stavolta qualcosa deve essere saltato nel vituperato meccanismo narrativo di Tornatore (che tanti nasi critici ha fatto arricciare nel corso degli anni). Allontanati gli spettri dell'enfasi, dello stile che soffoca l'umanità dei personaggi, del cinema come trampolino dell'ego il regista vira la sua tavolozza sulle tonalità del noir, indagando, con sguardo intimo e tono sommesso, la complessità umana di due protagonisti chiusi nel bozzolo delle proprie ossessioni e incapaci di relazionarsi con un mondo che appare loro estraneo e impenetrabile.

Virgil Oldman - un algido e severo Geoffrey Rush - è un battitore d'aste di indiscussa fama, colto, elegante, eccentrico e idiosincratico, che rifiuta qualsiasi contatto umano, indossa sempre un paio di guanti e non incrocia mai lo sguardo delle donne. Collezionista egli stesso, nel corso degli anni ha raccolto - a scapito di alcune macchie sulla condotta professionale - un'imponente quantità di capolavori, ritratti femminili per lo più, che tiene stipati sulle pareti di una stanza blindata nell'ampia e solitaria abitazione. La sua esistenza procede lussuosa e ritirata fino a quando la telefonata di una giovane donna, che desidera una valutazione della proprietà ereditata dai genitori, ne sconvolge il precario equilibrio. A fronte di false promesse e scuse inconsistenti, la misteriosa ragazza fugge tutti gli appuntamenti, suscitando il dispetto e la curiosità dell'antiquario. Neppure il fedele custode della villa sembra averla mai vista; perché questa disperata ostinazione nel celarsi? Ad acuire il mistero la scoperta, durante i sopralluoghi alla villa, di alcuni ingranaggi, che si sospettano risalire all'epoca di Jacques de Vaucanson, cui la storia attribuisce la costruzione del primo automa mai realizzato.

Sono inquieti i personaggi che si agitano nel nuovo film di Tornatore, anime instabili, sempre sull'orlo del collasso; ombre fuggevoli, che nascondono segreti inconfessabili. Non c'è stabilità nel loro universo, insidiato dalle trame della finzione, nessuna spiaggia fissa cui approdare. Il trompe l'oeil, che sfonda le preti interne della villa di Claire verso idilliaci paesaggi, prefigura l'essenza illusoria di un mondo, in cui nulla è come appare ("I sentimenti umani sono come le opere, si posso simulare"). Come nella tavola cinquecentesca annerita dal tempo, che, sotto le mani esperte di Virgil, riacquista il sembiante originale: uno splendido ritratto femminile. Ma un lampo di luce, una pennellata fuori luogo nella pupilla del soggetto rivela la verità: "E' un falso", sentenzia l'antiquario, che ha, in realtà, riconosciuto nella tavola un orginale Petrus Christus e desidera appropriarsene.
L'inganno, la decostruzione delle certezze attraversano l'intera pellicola e non lasciano indenni i personaggi, le cui identità si moltiplicano a ogni tentativo di comprensione. Il corpo di Claire rimane celato per la maggior parte del film, se ne intuiscono solo frammenti, sorpresi oltre un foro nella parete, vaghi e sparuti indizi (il ritratto della madre), ma non possiamo che immaginarlo seguire i pensieri di Virgil, che ne ode la voce e cerca di prefigurarne l'aspetto. Potrebbe, però, essere solo un'altra illusione.

"La migliore offerta" è un film astratto, un'opera che abbandona l'ispirazione nostalgica di tanto cinema tornatoriano e rifiuta la centralità del tempo, l'idea di cinema come "luogo della memoria", per indagare, invece, il suo rapporto con lo spazio. E se già il cineasta siculo aveva sfiorato l'argomento ne "La leggenda del pianista sull'oceano", è pur vero che là l'ossessione rimaneva - come nelle stucchevoli pagine di Baricco che ne hanno ispirato la trasposizione - puro espediente narrativo, al più incentivo estetizzante per giustificare i volteggi del musico Roth nella celebre danza oceanica; qui, al contrario, lo spazio si fa da subito evidenza espressiva, elemento vivo e pulsante, che si amplifica, si contrae, intimorisce, rassicura, muove i sentimenti dei protagonisti. E' lo spazio reale del set, percorso con eleganza dal consueto armamentario di dolly e carrellate; quello fisico di Virgil, che, nell'ostinazione all'isolamento, consolida il vuoto attorno a sé, allontanando finanche i domestici dalla sua enorme, deserta abitazione; quello mentale di Claire, ossessivo e sofferto, che si contrae fino all'emarginazione tra le superfici anguste di un rifugio segreto, pronto a farsi centro di gravitazione delle loro solitudini, luogo di conforto, inviolabile e chiuso, ma colmo di oggetti, libri e romanzi, che sono altrettanti universi possibili e racchiudono in sé quelle storie, quelle esperienze, quelle emozioni che essi sono incapaci di vivere.

La saturazione dello spazio investe anche il caveau di Virgil, che sembra una quadreria di Pannini, con le tele addossate l'una all'altra su una parete traboccante sino al soffitto, ma senza vedute. Ogni angolo della stanza è deputato a contenere una scheggia di vita altrui, in un disperato horror vacui che la macchina da presa restituisce tramite ariosi saliscendi e dissolvenze incrociate, mentre i madrigali di Morricone danno voce a quei fascinosi ritratti femminili, quei volti in cui è inscritta la storia dell'arte e della stessa umanità, quegli occhi vividi e appassionati, che raccontano vicissitudini private, storie personali e intime, di cui Virgil si fa anonimo voyeur.

In questo vertiginoso catalogo di vite, si delinea il modello del cinema tornatoriano, il suo essere per definizione frammentario e sconnesso, costruito come una collezione di "momenti" (la "lista" come paradigma del discorso drammaturgico veniva dichiarata già nel finale di "Nuovo Cinema Paradiso"). E se in tale natura episodica si palesano gran parte dei suoi vizi (tre cui emerge il gusto feticista per il dettaglio: i guanti, la tintura, la liturgia della cena), è pur vero che "La migliore offerta" gode di un lavoro di sceneggiatura molto più solido e accurato, che cede un po' solo nel terzo atto, quando bisogna riallacciare i nodi pendenti e l'ansia di spiegazioni prevale sul piacere del racconto.
Perché, al di là di tutte le considerazioni teoriche, non bisogna dimenticare che il nuovo Tornatore è essenzialmente questo: un racconto inquieto sull'ambiguità dei comportamenti umani, un noir di pregevole fattura, pur svincolato dagli schemi di genere, che avvince, recupera le atmosfere ansiose di certo cinema italiano anni 70 ("La casa dalle finestre che ridono") e sa conquistare, nei suoi momenti migliori, quell'afflato internazionale che la semplice ambientazione mitteleuropea e il cast straniero non gli avrebbero concesso.

Il cinema di Tornatore si mette, dunque, in discussione e riparte dalle fondamenta, cioè dalla sceneggiatura e dai personaggi, affrontando un discorso sul suo farsi e metamorfizzando, negli ingranaggi del robot di Vaucanson, lo scheletro di un film che si ricompone, come le tessere di un puzzle, sotto gli occhi del pubblico. Certo, Tornatore non è Polanski e la sua rappresentazione delle realtà alto borghesi rimane una collezione di frasi ampollose e ritualità un po' troppo accademica per graffiare davvero, ma ha il pregio di sfidare consapevolmente i generi in un film sfaccettato e mutevole, senza adagiarsi nell'enfasi pedissequa dei passati pastiche.
03/01/2013

Cast e credits

cast:
Geoffrey Rush, Sylvia Hoeks, Jim Sturgess, Donald Sutherland, Philip Jackson, Dermot Crowley, Liya Kebede


regia:
Giuseppe Tornatore


distribuzione:
Warner Bros. Pictures Italia


durata:
124'


produzione:
Warner Bros. Pictures Italia, Paco Cinematografica


sceneggiatura:
Giuseppe Tornatore


fotografia:
Fabio Zamarion


scenografie:
Maurizio Sabatini


montaggio:
Massimo Quaglia


costumi:
Maurizio Millenotti


musiche:
Ennio Morricone


Trama

Virgin Oldman è un battitore d’aste di indiscussa fama, colto, elegante, eccentrico ed idiosincratico, che rifiuta qualsiasi contatto umano, indossa sempre un paio di guanti e non incrocia mai lo sguardo delle donne. La sua esistenza procede lussuosa e ritirata fino a quando la telefonata di una misteriosa ragazza, che desidera una valutazione della proprietà ereditata dai genitori, ne sconvolge il precario equilibrio. Nessuno sembra averla mai vista, neppure il fedele custode della villa. Perché questa disperata ostinazione nel celarsi?

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