Ondacinema

recensione di Giuseppe Gangi
8.0/10

In un'intervista dell'aprile del 2021, Mamoru Oshii si è lasciato sfuggire che secondo lui Hideaki Anno è soprattutto un produttore, poiché come artista è privo di un tema forte. Pur riconoscendone il talento visionario, Oshii paragona Anno agli scrittori di Shishōsetsu (i cosiddetti "romanzi dell'Io", una corrente della letteratura giapponese): gli concede una certa fedeltà verso se stesso, faticando però a individuare motivazioni e contenuti fondamentali dietro i suoi sforzi creativi. La stessa lacuna è a suo dire presente anche nella produzione di altri animatori più giovani come Mamoru Hosoda e Makoto Shinkai, quest'ultimo evidentemente influenzato da Anno. Vedendo o rivedendo "Ritual", secondo film in live action del regista, dopo il più sperimentale "Love & Pop" (1998), è difficile non pensare a una personale declinazione cinematografica dello shishōsetsu, a partire dalla narrazione dominata dal protagonista intradiegetico, la cui voce fuori campo struttura in modo diaristico la scansione della storia.

"Ritual", prima produzione dello Studio Kajino, succursale dello Studio Ghibli (tanto per ribadire il legame tra il regista e il maestro Hayao Miyazaki), è l'adattamento del romanzo "Tōhimu" di Ayako Fujitani (figlia di Steven Seagal) che del film è la co-protagonista senza nome, mentre la parte del protagonista, chiamato semplicemente Regista, è affidata all'amico e collega Shunji Iwai[1]. La trama si sviluppa lungo un'unica linea narrativa che incrocia le strade di un regista in crisi tornato a Ube, sua città natale (la stessa di Anno[2]), e quella di una giovane con disturbi mentali che la disancorano da una realtà che non vuole affrontare. La ragazza vive di e tramite rituali: il primo messo in scena la vede stendersi sulle rotaie, un secondo, costituente un leitmotiv è la ripetizione quotidiana del mantra "domani è il mio compleanno". Come osserva il Regista, rimandando le proprie attese al giorno dopo, la ragazza annulla la necessità di pensare e di vivere l'oggi. Per qualche giorno i due si incontrano finché la giovane non si fida abbastanza per invitarlo a casa sua, situata all'interno di un grande magazzino che ha (abusivamente?) occupato. Il luogo possiede una chiara valenza mentale, composto da molteplici stanze, ricettacolo di vestiti e manichini; i piani da lei abitati somigliano a installazioni artistiche e in tal senso l'ultimo piano, quello segreto e abitato nei soli giorni di pioggia ne è il capolavoro: è un grande seminterrato allagato in cui giace dentro una vasca da bagno in posizione fetale, con un altare votivo da una parte e il tetto composto da ombrelli rossi. Al contempo utero artificiale e camera mortuaria, è un altro luogo in cui nascondersi e sognare di non essere mai nati. Ma è l'intero complesso a rivelare l'architettura psichica della ragazza oltre a essere teatro dei propri riti. Il regista, dapprima soltanto incuriosito, poi affascinato, infine innamorato, segue la giovane assecondandone le bizzarrie finché non decide di filmarla con la sua videocamera.

"Ritual" è la chiave teorica del cinema di Hideaki Anno. Al contrario di "Love & Pop" che si limitava a fotografare realtà e tendenze sociali, lavorando soprattutto su un certo immaginario pop dei giovani giapponese sul finire del millennio, e al contrario delle sue opere d'animazione spesso narrativamente complesse se non criptiche e allusive, questo suo secondo lungometraggio di finzione sceglie uno stile di regia a metà tra il reenactment e il cinéma verité. Non mancano lenti grandangolari che deformano lo spazio e l'attento studio della composizione dell'inquadratura e delle rispondenze cromatiche come in molto cinema arthouse di fine millennio, ma l'aspetto più interessante è notare quanto la macchina da presa di Anno approssimi quella di Iwai, quanto la incorpori e quanto invece se ne distanzi in un atteggiamento critico. Se il rito è essenziale alla sopravvivenza della ragazza - ogni mattina si sporge dal tetto del magazzino, aspira l'aria e decide se quella giornata può essere vissuta - per il Regista questo ha a che fare con il lavoro creativo e intellettuale, con la propria immaginazione. La questione di fare del proprio interesse romantico l'oggetto della propria opera apre "Ritual" a questioni che meritano di essere problematizzate: difatti è già un rituale quello dell'artista solitario che si innamora, vampirizza la propria musa, conclude l'opera per poi ricominciare tale ciclo creativo. Il percorso parallelo del Regista si sviluppa in una pedagogia dello sguardo puro, nella capacità di posare la macchina da presa senza nascondersi dietro le proprie immagini, rinunciando alla messa in scena della realtà per poterla esperire e vivere direttamente. L'intimità che Anno riesce a creare in questa sua ennesima meditazione su depressione e ritorno alla vita non può che essere influenzata dalla sua capacità di mettersi a nudo denudando l'intelaiatura della propria arte. L'autore decide che questa è la storia della ragazza e solo di riflesso quella del Regista, di cui infatti sappiamo poco: perché è tornato a casa, qual è la sua di crisi, quali sono le sue intenzioni sono lecite domande senza risposta, benché sia semplice legare la figura del protagonista, regista di anime che adesso vuole lavorare sulle forme del reale, a un ideale alter ego di Hideaki Anno dopo lo spossante e incomparabile successo di "Neon Genesis Evangelion". Naturalmente entrando dentro la casa-testa-cuore della giovane, il protagonista scopre una parte di sé impara a interagire coi propri sentimenti e, soprattutto, a non manipolare quelli altrui. "Ritual" è in questo modo anche un'eccentrica e romantica storia d'amore.

Nel più fedele spirito anniano, il finale si squaderna come una seduta di autonalisi in cui il Regista interno prova a far affrontare alla ragazza i propri ricordi e la figura della propria madre, in linea con il redde rationem tra padre e figlio di "Neon Genesis Evagelion" replicato in "Evangelion: 3.0 + 1.0". Proprio in quest'ultima opera, Gendo dice al figlio Shinji: "Siamo nell'Evangelion Imaginary. (...) L'unica creatura vivente che può identificarla è l'essere umano, che crede tanto alla realtà quanto alla finzione". Nella sequenza che asserisce una volta di più la natura metalinguistica del progetto "Rebuild of Evangelion", Anno parafrasa se stesso e riprende un concetto già espresso e messo in scena in "Ritual" quando il Regista dice che "le immagini trasformano il mio reale passato in finzione (...) Reinvento il mio passato ripulendolo per intero, idealizzandolo, ricreando il presente come qualcosa di invulnerabile, come un mondo di finzione e di fantasia". In questa ricerca molto umana e frammentaria, Anno il depresso riesce nell'impresa propria dei narcisisti di genio, quella di raccontarsi trascendendo il proprio ego. 


[1] Anno ricambierà il favore nel 2018, quando sarà uno dei protagonisti di "Last Letter" di Iwai.
[2] In "Ritual" sono presenti come setting la stazione di Ube, i binari e l'interno di un vagone in cui il Regista porta la ragazza per filmarla. Sono immagini e set mentali ricorrenti in "Neon Genesis Evangelion" e nella tetralogia "Rebuild", segno tangibile del legame profondamente autobiografico tra l'opera più celebre e celebrata di Anno e il suo creatore.


27/12/2021

Cast e credits

cast:
Ayako Fujitani, Shunji Iwai, Jun Murakami, Shinobu Ōtake


regia:
Hideaki Anno


titolo originale:
Shiki-Jitsu


durata:
128'


produzione:
Studio Kajino


sceneggiatura:
Hideaki Anno


fotografia:
Yūichi Nagata, Shunji Iwai


montaggio:
Sōichi Ueno


musiche:
Takashi Kako


Trama
Un regista torna nella sua città natale di Ube nella prefettura di Yamaguchi e incontra un'eccentrica giovane donna, le cui stranezze includono quella di dire "domani è il mio compleanno" ogni giorno. Ma con il passare dei giorni, il regista si rende conto come la ragazza abbia poco contatto con la realtà e sia costantemente in fuga in un mondo fantastico. Il protagonista, ex regista di anime deciso a fare un "film vero" e ad abbracciare la realtà, inizia a riprendere la giovane donna con la sua videocamera.