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recensione di Matteo Pennacchia
6.5/10

L'atto creativo, e in particolar modo narrativo, non in veste di antidoto alla morte bensì di mezzo per fronteggiarne lo shock: formula comune a molta letteratura e a molto cinema più o meno metaforico, non solo per ragazzi. Così il trino Jackman lotta contro la malattia dell'adorata Weisz in "L'albero della vita", così l'adolescente Helena tiene testa ai sensi di colpa in "MirrorMask"; e così il dodicenne inglese Conor se la vede con il cancro della madre in "Sette minuti dopo la mezzanotte".

La morte di una persona amata, anche quando in fiction non si fa simbolo di via d'accesso alla maturità, è causa di sconvolgimenti privati che valicano lo specifico della perdita stricto sensu. Quello con cui Conor deve scontrarsi ancor prima che con l'idea dell'imminente e definitiva assenza della madre è più radicato e ramificato, e gli viene illustrato da un mostruoso albero parlante che una notte si presenta alla sua finestra con la promessa di raccontargli tre storie, dopo le quali dovrà essere Conor a raccontarne una, stavolta fino in fondo: il suo incubo ricorrente, dove la terra di un cimitero gli cede letteralmente sotto i piedi e lui si sveglia prima di riuscire a salvare la madre dal precipitare nel baratro.
L'impotenza difronte all'ineluttabile è al momento il più nascosto dei problemi di Conor. Con la madre allettata tutto il giorno è lui a svolgere faccende casalinghe che non gli competerebbero; ha un pessimo rapporto con nonna Sigourney e un indecifrato rapporto di amore e odio con il padre, che vive negli Stati Uniti insieme a una nuova famiglia; taciturno, smilzo e con le orecchie a sventola, è la più classica delle vittime di bullismo. La musica ascoltata sempre in cuffia e l'indole artistica sono tanto spie di introflessione quanto uniche consolazioni, almeno fino all'arrivo del mostro, apparizione-evocazione mai spaventosa e auspicabilmente taumaturgica.

Le tre storie, trasposte con un'animazione in CGI che si richiama alla china e all'acquerello e fa da contraltare cromatico al pallore della realtà, affrontano i tre crucci (nonna, papà, bulli) mirando a conclusioni che spalanchino occhi e orizzonti al ragazzino sulla relazione con sé e con gli altri: chi a volte sembra una perfida strega in verità cela profonda sofferenza, chi sembra spietato potrebbe essere invece coerente e onesto, ogni tanto è sano perdonare e liberare il proprio lato aggressivo. Conor si giostra di notte fra queste allegoriche lezioni di vita e cieche speranze di guarigione, e di giorno fra il decorso del cancro materno, conflitti parentali e guai con i compagni di classe. E infine quando è il suo turno di raccontare si rifiuta, visto che significherebbe inoltrarsi su una strada al termine della quale c'è l'inevitabile morte della madre e lui non può riconciliarsi con il fatto che, stremato dalla pesantezza della situazione, nei suoi recessi più fragili e umani stia pregando da una parte che il lutto non avvenga mai, dall'altra che avvenga prestissimo.

Nonostante uno dei target commerciali di Juan Antonio Bayona sia senza dubbio la preadolescenza, il film trova un freno nella smania di fornire morali della favola, oltretutto in maniera esplicita. Specie nei venti minuti che precedono il (bel) finale, durante i quali abbondano le lacrime, giustificate dalla vicenda drammatica ma che ribadite per due, tre scene di fila eccedono il patetismo e procurano qualche sbadiglio; e durante i quali i messaggi fin lì bene o male traslati vengono verbalizzati, risultando ovvi per chiunque, adulto, young adult o bambino.

Il regista spagnolo, battezzato nel 2007 da Guillermo Del Toro, mutua una sorta di poetica spielberghiana e si intrufola nelle dinamiche interpersonali famigliari quando modificate o messe alla prova da un agente estraneo, mostruoso o alieno. In questo caso il cancro ma pure l'albero gigante e antropomorfo, doppiato in v.o. da Liam Neeson, Caronte di Conor attraverso un inferno di dolore e confusione, viaggio iniziatico che si spera abbia come approdo l'accettazione non soltanto di una morte ma della mortalità; e con essa la configurazione di un nuovo statuto affettivo, forse dotato di meno nicchie irrazionali dove rifugiarsi però di più consapevolezze. Materiale da maneggiare con cura che in "Sette minuti dopo la mezzanotte" non supera il grado scolastico, producendo una visione certamente non spiacevole ma nemmeno memorabile.

Tra pregi, difetti e manierismi generali, una lode: il personaggio di Conor è costruito con bravura sia dallo sceneggiatore Patrick Ness, autore anche del pluripremiato romanzo originale, sia dal giovane interprete Lewis MacDougall. I due fanno perno su alcuni stereotipi e rendono un'idea tutt'altro che inedita ma sensibile e autentica dello smarrimento connaturato in talune fasce d'età e personalità, dando spessore a un protagonista che è cuore e salvagente di un film privo di grandi lacune come di grandi sussulti, accoccolato nell'impronta di una convergenza tra fauni e creature selvagge, il cui esito pare studiato per essere di mestiere e di cassetta e poco più.


16/05/2017

Cast e credits

cast:
Lewis MacDougall, Felicity Jones, Sigourney Weaver, Toby Kebbel, Liam Neeson, Geraldine Chaplin


regia:
Juan Antonio Bayona


titolo originale:
A Monster Calls


distribuzione:
Leone Film Group, Rai Cinema, 01 Distribution


durata:
108'


produzione:
Belén Atienza, Mitch Horwits, Jonathan King


sceneggiatura:
Patrick Ness


fotografia:
Oscar Faura


scenografie:
Eugenio Caballero


montaggio:
Jaume Martí, Bernat Vilaplana


costumi:
Steven Noble


musiche:
Fernando Velázquez


Trama
Conor ha dodici anni e molti problemi: la madre malata di cancro, la nonna autoritaria, il padre assente, i bulli. Una notte si presenta alla finestra della sua camera un gigantesco e mostruoso albero parlante che gli promette di raccontargli tre storie. In cambio Conor dovrà raccontarne una a sua volta, che lo aiuti a fare i conti con se stesso e superare il momento più difficile della sua vita.
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