Ultimamente le cose per Simon (Jonathan Zaccaï) non vanno troppo bene: la moglie goy (non ebrea) ballerina spagnola fedifraga lo lascia, e si ritrova, disoccupato, a 36 anni, costretto a tornare a vivere col padre (Popeck), che però vorrebbe ricacciarlo fuori di casa il prima possibile e vederlo sistemato. Unica consolazione il figlioletto (Nassim Ben Abdelmoumen) verso il quale Simon si dimostra un genitore affettuoso anche se un po' distratto. Acciaccato e circondato da parenti ebrei conservatori vecchio stampo che gli ricordano quanto sia pigro, irresponsabile e irrispettoso (Simon è pro Palestina e non vuole che il figlio ascolti le storie dei Lager), dovrà presto mettersi in viaggio con tutte le conseguenze del caso.
Dopo una preparazione/presentazione dei personaggi, Wald mette in strada il suo protagonista con il figlio e due anziani zii a bordo di una vecchia auto, attraverso paesaggi grigi e piovosi del centro e dell'est Europa, e si serve della struttura del road movie sfruttandone tutti i luoghi comuni e gli imprevisti. Nel bene e nel male. Il regista belga, al suo secondo lungometraggio, amplia un suo precedente corto e lavora quindi per addizione (di personaggi, situazioni ed episodi), e soprattutto per contaminazione (lo si vede particolarmente nella colonna sonora) di generi e trovate.
Il viaggio è quindi un modo per Simon - inevitabilmente e prevedibilmente - per scoprire qualcosa di sé, in particolare per riscoprirsi figlio prima ancora che genitore, e per riconciliarsi e rinsaldare (magari parzialmente) quel legame con la tradizione che dileggiava, rivalutandola e rendendole omaggio. Del tutto infondate le accuse di antisemitismo mosse a Wald: l'ebraismo è lo sfondo, il punto di partenza, un serbatoio da cui attingere personaggi e situazioni, ironizzare sulla sua stessa famiglia. Wald dichiara una forte componente autobiografica, soprattutto nello spunto narrativo, e utilizza la tradizione religiosa per dissacrarla, ma bonariamente, senza cattiveria, semplicemente con l'atteggiamento del figlio beffardo e provocatoriamente irriguardoso e di chi sa di cosa sta parlando.
Alcuni momenti ispirati ne seguono altri prevedibili, e il ritmo rimane costante e piacevole nonostante sia chiaro fin da subito dove si andrà a parare. Wald ha dichiarato di aver pensato a "I Tenenbaum" (ruba la tuta a Ben Stiller cambiandone colore e tiene a mente il ritratto di famiglia folle) e a "Il grande Lebowski" (Walter Sobchak potrebbe in effetti far parte del parentado di Simon), e prende più di qualche prestito da "Harry a pezzi" e da Allen in genere (momenti surreali, musiche, narrazione - ma i paralleli col regista newyorkese terminano qui), per costruire una commedia che vorrebbe inserirsi nella tradizione di un certo cinema americano indipendente e d'autore (a molti ha ricordato anche "Little Miss Sunshine"). Ma a Wald manca un po' di personalità: mescola dramma e commedia, e, se in questo gli va dato atto di non commettere passi falsi, si richiama però a modelli coi quali difficilmente regge il confronto.
Il film fa sorridere, senza essere esilarante; si muove attraverso momenti grotteschi, surreali, di humour nero, atmosfere addirittura checoviane, paga pegno in alcuni dialoghi, rischia di deludere e di diventare anonimo, già visto, eppure un'impostazione all'europea, che evita retorica e standardizzazioni narrative, lo rendono comunque interessante. La regia si serve di qualche espediente riuscito e di trovate che corrono sul filo dell'artificio, ma anche qui Wald ha il buon gusto di fermarsi prima - per scadere invece su dei titoli di coda pacchiani francamente evitabili.
Poteva essere un piccolo evento, "Simon Koniaski", ma non lo è del tutto. Pur scorrendo bene, mancano autorialità e le trovate originali da renderlo davvero memorabile. Wald dimostra l'intuito e le capacità per poter fare di meglio e acquistare la personalità che qui è mancata.
06/05/2010