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recensione di Michele Corrado

Quando a partire dal novembre 1995 milioni di genitori curiosi portarono i propri pargoli al cinema a vedere "Toy Story", incuriositi dal battage pubblicitario gigantesco e rassicurati dalla distribuzione effettuata dalla Disney, solo pochi di loro potevano immaginare la portata dell’evento cui stavano prendendo parte. Del resto, anche per i personaggi coinvolti nella realizzazione del film si trattava di una scommessa piuttosto ardita.
"Toy Story", invece, avrebbe cambiato per sempre il modo di intendere il cinema di animazione e si sarebbe imposto come un vero e proprio punto di svolta. Uno di quei rarissimi film dei quali è corretto affermare che hanno segnato un prima e un dopo.  
Con un incasso di circa 400 milioni di dollari durante il suo anno di uscita, il film di John Lasseter si impose come la terza pellicola di animazione di maggior successo di sempre – con le prime due posizioni occupate rispettivamente da "Il re leone" e "Alladin". Lo straripante ritorno economico generato dal progetto aiutò certamente ad accelerare la rivoluzione CGI (computer-generated imagery) che di lì a poco avrebbe investito il mondo del cinema.

Primo di 27, primo di 4 e di mille altri

Trattandosi del primo lungometraggio di sempre a essere interamente realizzato in CGI, viene facile trattare "Toy Story" come una sorta di "primo della sua specie". Tuttavia, i meriti di questo capolavoro senza tempo sono tutt’altro che semplicemente tecnici. Ci troviamo difatti a cospetto di uno dei migliori film di animazione mai realizzati tout court, forte com’è non soltanto di una carica innovativa immane, ma anche di una storia originale, profonda e dai molteplici livelli di lettura. Anche la sua funzione fondativa e iniziatrice va ben oltre l’aspetto tecnico e coinvolge ben più numerose angolazioni.
Pur essendo già utilizzata già ampiamente in molte pellicole ad alto tasso di effetti speciali, in "Toy Story" tutto è computer graphic: i personaggi, l’azione e lo sfondo in cui essa viene esercitata. Mai prima di quel momento l’animazione computerizzata aveva costituito un lungometraggio per la sua interezza. Per la prima volta, dunque, si potette avere contezza delle possibilità di un mondo fino a quel punto soltanto ipotizzabile. Non soltanto tutta l’animazione a venire, in alcuni casi anche quella tradizionale, sarebbe stata influenzata enormemente da un apripista come "Toy Story", ma anche molto cinema girato dall’alto tasso spettacolare avrebbe beneficiato delle potenzialità svelate dal primo lungometraggio Pixar.
Basti pensare a tutto il cinema supereroistico del multiverso Marvel, composto per gran parte sia da fondali che da personaggi interamente realizzati in CGI, o anche alle ultime uscite di casa Lucas Film. Entrambe case di produzione legate a doppio filo, mediante diverse personalità in comune tra le proprie fila, proprio al capostipite della dinastia della lampada da scrivania.

Fu proprio con "Toy Story", infatti, che il mondo fece la conoscenza con la simpatica lampada da scrivania che saltella e prende il posto della I nel logo della Pixar, anch’esso destinato alla fama eterna.
Il lungometraggio del 1995 è infatti il primo di (ad oggi) 27 film targati Pixar. Un lungo cammino che ha visto lo stile della casa di produzione americana consolidarsi via via, replicando e perfezionando i suoi stilemi, molti dei quali già però presenti in "Toy Story". Tra questi vanno certamente enumerati una storia che sia originale, semplice e accessibile ai bambini, ma sfaccettata, intrigante e zeppa di ironia, che possa, dunque, intrattenere anche gli adulti; una grande attenzione ai temi di attualità (si pensi al capolavoro ecologista di Andrew Stanton "Wall-E", ma anche alla maniera in cui "Ratatouille" ingloba il fenomeno dei foodie); un apparato visivo accattivante, che segua l’evolversi delle tecnologie e contribuisca a superare ogni barriera grafica, permettendo alla casa di produzione di mantenere perennemente il suo ruolo di pioniera.  
Sarebbe in effetti erroneo affermare che la Pixar abbia mai prodotto un film che fosse indirizzato soltanto al pubblico infantile (anche se talvolta quello che potremmo chiamare adult-service si riduce a citazioni e riferimenti nostalgici, come in "Cars") o che un film della casa non rappresentasse l’apice tecnologico del suo tempo. Si ricordi, ad esempio, alla meraviglia provata nel vedere il pelo in alta definizione di James Sullivan ("Monsters, INC") muoversi durante un’azione di spavento o ai coralli che ondeggiano sinuosi nel mondo subacqueo di "Alla ricerca di Nemo".
Quasi sempre condiviso da pubblico e critica, il successo di gran parte dei film Pixar ha portato il brand a collezionare Oscar su Oscar e ha influenzato radicalmente il comportamento dei concorrenti ("Dreamworks" su tutti), nonché quello dell’associata Disney. La quale, molto spesso, a partire dal 1995 ha dovuto rincorrere quella che inizialmente era una sorella minore.

"Toy Story" è infine il primo di 4 capitoli (5 se contiamo lo spin-off "Lightyear") di quella che a oggi è la più longeva saga Pixar. Della serie di film non è probabilmente, peraltro, l’unico capolavoro.
Dopo un secondo, ottimo capitolo che si limitava però a espandere l’universo del primo film e approfondire i legami di fiducia e amicizia tra i personaggi, "Toy Story 3" avrebbe commosso il mondo e fatto strabuzzare gli occhi alla critica per la profondità e la complessità del messaggio di cui si fa foriero. Attraverso l’epopea di una vera e propria comunità di giocattoli, la serie di film esplora infatti tematiche come la crescita, che i giocattoli vivono in parallelo a quella del loro padroncino Andy, la reazione al cambiamento, la consapevolezza dei propri limiti e del proprio ruolo e la loro accettazione. Il tutto in maniera originale, mai scontata, ora lieve e divertente e talvolta struggente.

Nuova tecnologia, nuovi sogni

Negli anni ’80 John Lasseter lavorava come animatore alla Disney. Fu lì, quando due colleghi gli mostrarono il lavoro fatto in CGI su alcune scene di "Tron", che il regista di "Toy Story" e co-fondatore della Pixar comprese, in una sorta di visione epifanica, le potenzialità pressocché illimitate della nuova tecnologia. Che questa potesse passare dal ruolo di strumento di finitura a vera e propria fornace, nella quale forgiare interi, nuovi mondi.
Quelle che all’epoca suonavano come le farneticazioni di un folle, quando Lasseter propose alla Disney di realizzare un lungometraggio in CGI (il soggetto che portò con sé era intitolato "The Brave Little Toaster"), portarono l’azienda del vecchio Walt a licenziarlo. Dopo un breve periodo impiegato come animatore in computer grafica in quel di Lucasfilm, nel 1986 Lasseter contribuì alla fondazione di Pixar da parte di Edwin Catmull e Alvy Ray Smith. A quel punto, prima di poter iniziare a fare sul serio nel dare vita a quelle possibilità che per molti erano pura utopia, la Pixar necessitava soltanto di fondi. Che non tardarono ad arrivare quando fu acquistata da un altro visionario, Steve Jobs.
Nel lontano 1988 John Lasseter realizzò per Pixar "Tin Toy", un cortometraggio lungo 5 minuti, anch’esso ambientato in una cameretta, che l’anno dopo avrebbe vinto l’Oscar come miglior corto d’animazione – risultando difatti il primo cortometraggio interamente realizzato in CGI a ricevere il riconoscimento. I Tempi erano maturi per osare e per far si che il regista realizzasse finalmente il suo più grande desiderio: un film vero e proprio, interamente realizzato al computer.

Gli 81 minuti di "Toy Story" non sono però i 5 di "Tin Toy". Al moltiplicarsi del tempo coincise quello dei personaggi e delle situazioni, alla generazione dunque di una difficoltà esponenziale e impredicibile. Mettici poi le ambizioni smisurate di Lasseter, che voleva ottenere non soltanto dei personaggi che fossero vivi, ma anche un contesto fortemente realistico: parquet graffiato e crepitante, maniglie e pomelli debitamente mobili, erba e alberi che rispondono alle carezze del vento, polvere che si alza al passare di un’auto, tende che filtrano la luce del pomeriggio e così via.
La realizzazione di un progetto del genere non necessitava soltanto la migliore tecnologia possibile, ma anche i migliori animatori e tanto, tantissimo tempo.
In totale furono impiegati 27 animatori, attratti dalla possibilità di prendere parte a un evento storico, e circa 400 computer di ultimissima generazione. Agli animatori furono forniti delle story-board in animazione tradizionale da ricreare in CGI. I personaggi furono invece creati in argilla o disegnati direttamente al computer; per ciascuno di essi vennero codificati i controlli delle articolazioni e dei movimenti. Alcuni come Mr. Potato Head e Rex possono essere considerati semplici, perlomeno oggi, ma altri, come il cane a molla Slinky Dog e lo stesso Woody, sono di una complessità imponderabile. Wody, a esempio, necessitò di circa 700 controlli soltanto per il movimento e le espressioni facciali.

Per le riprese e per il lavoro finale su colori e ombre, queste ultime peraltro mobili e dai diversi cangianti, vennero impiegati due ulteriori team. In definitiva il lavoro ammontò a 800,000 ore al computer per la creazione di circa 110.000 fotogrammi: circa 7 ore di lavoro per ciascun fotogramma. Sono questi i numeri dietro al sogno che finalmente prendeva vita di John Lasseter – a quel punto un vero e proprio padre fondatore dell’animazione in CGI.  
Specie per chi potette assistervi all’epoca, il risultato fu visivamente scioccante. Un vero e proprio nuovo mondo animato, fluido e sfavillante, che finì sulla bocca di tutti e sulle pagine di tutti i giornali, di cinema e non, del mondo.
Da buon ex-dipendente della fabbrica dei sogni, l’animatore sapeva però che la tecnologia, senza una storia capace di accendere il cuore e stuzzicare la fantasia dei bambini, nonché quella dei loro genitori, sarebbe risultata sterile.
Ma Lasseter aveva anche una storia meravigliosa.

Dalla cameretta all’infinito (e oltre)

Prima di tante altre cose, "Toy Sory" è in effetti un appassionato inno alla fantasia dei bambini. Grazie alla quale i giocattoli, nelle camerette di ciascuno di essi, prendono vita, vivono mirabolanti avventure e non si annoiano mai.
I giocattoli di Lasseter e di Andy, il protagonista umano di "Toy Story", hanno però la particolarità di essere vivi per davvero, di animarsi appena le luci si spengono per la nanna o quando i loro padroncini si allontanano dalla stanza. Capitanati dallo sceriffo di stoffa Woody, i giocattoli di Andy vivono in una sorta di comunità con regole ben precise e ruoli da rispettare. Sono organizzati e pacifici, ma all’occorrenza possono utilizzare una vera e propria intelligence degna di un’agenzia dei servizi segreti (i soldatini di plastica!), per andare in avanscoperta nel salotto popolato dagli adulti. Il compleanno del padroncino è uno dei momenti più delicati dell’anno, siccome questi riceve nuovi regali che, con non poche difficoltà, dovranno integrarsi nella piccola, diffidente società.
Dopo la spettacolare sequenza di apertura del film, si scopre immediatamente che la fatidica data è vicina e che presto i giocattoli dovranno accogliere dei nuovi amici. Sarà proprio Woody, leader carismatico del gruppo e giocattolo preferito di Andy, a rischiare più di tutti a causa dell’arrivo di Buzz Lightyear, esploratore spaziale senza paura, nonché giocattolo di ultima generazione pronto a rubargli il posto. Ma soprattutto giocattolo che, al contrario degli altri, è inconsapevole di esserlo. È proprio questa escamotage, insieme alle preoccupazioni non proprio infantili dei giochi, a generare gag su gag e divertire gli adulti.
I bimbi hanno invece di che sognare e riflettere osservando Woody e Buzz battibeccare per il ruolo di favorito di Andy, vivere una pericolosissima avventura outdoor e diventare, va da sé, grandi amici.

Per la scrittura del soggetto e della sceneggiatura di "Toy Story" John Lasseter si avvalse della collaborazione di Joss Whedon, Andrew Stanton, Joel Cohen, Alec Sokolow. Tutti nomi molto cari a chi ama il mondo del cinema di animazione, e non solo, degli ultimi decenni. In particolare, Andrew Stanton avrebbe realizzato a sua volta alcuni dei più grandi capolavori e successi Pixar ("A Bug’s Life" insieme a Lasseter e poi "Alla ricerca di Nemo" e "Wall-E"), mentre invece Josh Whedon avrebbe ideato la serie "Buffy l’ammazzavampiri" e sarebbe diventato uno dei nomi cruciali del multiverso Marvel, dirigendone il capitolo finale della Fase 1, "The Avengers".
Insieme, i 5 animatori e sceneggiatori hanno creato un universo senza precedenti, realizzato con minuzia e costituito da una vasta varietà di livelli grafici e testuali. "Verso l’infinito e oltre", insomma, per citare uno degli slogan immortali di Buzz Lightyear.
La rampa di lancio della storia è la cameretta di Andy, ma in realtà il numero di situazioni, luoghi e dinamiche di "Toy Story" che sono entrate a far parte dell’immaginario collettivo, e al contempo di quello nerd, è altissimo. È impossibile a esempio non citare il diner dove l’astronauta e lo sceriffo finiscono intrappolati nel gioco a gettoni dell’artiglio. Dove il minaccioso braccio metallico è visto come una divinità malevola dai timorosi pupazzetti a forma di alieno.
È però ancora più iconica la cameretta di Syd, il vicino di casa cattivo di Andy, sorta di contraltare sia visuale che concettuale di quella di quest’ultimo. La cameretta dove Woody e Buzz vivono è luminosa, brillante di colori pastello e luce. È un posto dove la fantasia è foriera di avventure e letizia. Quella di Syd è invece ombrosa, insidiosa e popolata da minacciosi giocattoli smembrati, riassemblati e torturati dal loro padrone/aguzzino: una bambola con la testa di pterodattilo, una Barbie con la parte superiore del corpo sostituita da una canna da pesca, un pupazzo bebè con le gambe da aracnide meccanico, etc etc. Una vera e propria parata di freaks degna di Todd Browning quanto di Tim Burton.
Un’altra differenza sostanziale tra “Toy Story” e i classici di animazione Disney è l’assenza di parti da musical. Composte da Randy Newman, la colonna sonora e le canzoni originali di “Toy Story”, in particolare “You’ve Got A Friend In Me”, sarebbero comunque rimaste scolpite nella memoria del pubblico per sempre.

Sono vivi

Con le loro ansie, piccole paranoie e crucci, i giocattoli di “Toy Story” sembrano davvero vivi. Ispirato al celebre giocattolo Hasbro, Mr. Potato Head è cinico e incazzoso; Hamm, il salvadanaio a forma di porcellino, è invece giudizioso e ha una mentalità matematica, da banchiere per l’appunto; Rex, al contrario, è un tirannosauro di plastica ansioso, nervoso e tanto pieno di paure da riempirci un film di Woody Allen.
Woody e Buzz osservano dinamiche da duo comico degne di John Lemmon e Walther Matthau. Per dare vita ai loro duetti sono stati infatti chiamati al doppiaggio due pezzi da 90 come Tom Hanks e Tim Allen (non male, comunque, anche il duo italiano composto da Fabrizio Frizzi e Massimo D’apporto).
Il grande lavoro fatto dai doppiatori sulle voci dei personaggi completò l’incantesimo realizzato da John Lasseter con la sua nuova, mirabolante tecnologia. La fantasia e la meraviglia che tutti i bambini allenano nelle loro camerette grazie ai loro giocattoli, nuovi di zecca o di seconda mano che siano, pensati ad hoc o improvvisati tali, aveva davvero preso vita, vivida, fluida e sfavillante, grazie alla CGI.
Il prodigio però, va sottolineato ancora una volta, non era soltanto grafico, tecnologico. La storia, che giustamente campeggia nel titolo del film, è altrettanto centrale, avvincente, divertente, buffa, stimolante. Forte com’è di personaggi tridimensionali anche emotivamente: acuti nelle loro osservazioni, salaci quando c’è da prendere in giro le debolezze di un compagno di viaggio, credibili nelle loro preoccupazioni e caldi, tremendamente umani quando c’è da farsi forza a vicenda.

Capolavoro d’animazione e di innovazione, precursore di un intero mondo grafico, commedia, film d’avventura, buddy movie, struggente saggio sull’auto-accettazione e tante, tantissime altre cose, "Toy Story" si impose sin dalla sua uscita a ridosso del Natale 1995 come un classico istantaneo, capace di conquistare il cuore dei bambini, dei loro genitori e di tanti fan illustri. Fa parte di questi il regista inglese Terry Gilliam, che in un’intervista asserì di considerarlo tra i suoi dieci film preferiti, sottolineando la grandezza della regia di Lasseter in una scena come quella della scoperta da parte di Buzz della sua natura di giocattolo.
A sottolineare l’importanza storica di "Toy Story" ci pensa anche il suo inserimento da parte dell’American Film Institute tra i 100 film americani più importanti di tutti i tempi. L’unico altro film d’animazione presente nella lista e "Biancaneve e i sette nani", primo dei grandi classici Disney. Entrambi i film sono davvero i primi della loro specie.


05/12/2023

Cast e credits

cast:
Tim Allen, Tom Hanks


regia:
John Lasseter


titolo originale:
Toy Story


distribuzione:
Disney


durata:
81'


produzione:
Pixar


sceneggiatura:
John Lasseter, Andrew Stanton, Josh Whedon, Joel Cohen, Alec Sokolow


fotografia:
Sharon Calahan, Galyn Susman (illuminazione), Craig Good (layout)


scenografie:
Ralph Eggleston


montaggio:
Lee Unkrich, Robert Gordon


musiche:
Randy Newmann


Trama
Quando le luci si spengono per la nanna o quando i loro padroncini si allontanano dalla stanza, i giocattoli di Andy prendono vita e vivono in una comunità con regole e ruoli da rispettare. Capitanati dallo sceriffo di stoffa Woody, i giocattoli sono organizzati e pacifici, ma all’occorrenza possono utilizzare una vera e propria intelligence degna di un’agenzia dei servizi segreti (i soldatini di plastica!), per andare in avanscoperta nel salotto popolato dagli adulti. Il compleanno del padroncino è uno dei momenti più delicati dell’anno, siccome questi riceve nuovi regali che, con non poche difficoltà, dovranno integrarsi nella piccola, diffidente società.
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