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recensione di Antonio Pettierre
8.0/10

I reati sessuali sono tra i più devastanti per le vittime che li subiscono (siano esse donne oppure minorenni) e il numero in Italia e terribilmente alto se si pensa che solo nell'ultimo quinquennio sono stati ventitremila (uno su quattro riguarda minori), con una media di quindici al giorno. Con l'introduzione della legge sulla violenza sessuale numero 66 del 15 febbraio 1996, si è passati da un concetto giuridico di reato "contro la morale pubblica" a quello "contro la persona" con pene che vanno dai sei ai dodici anni di reclusione.

Il giovane regista Claudio Casazza ha seguito per un anno alcuni di questi condannati all'interno del carcere di Bollate che si sottopongono a un percorso di recupero psicologico seguiti dall'equipe dell'Unità di Trattamento per autori di reati sessuali del CIPM - Centro Italiano per la Promozione della Mediazione. Il team terapeutico è composta da criminologi, psicologi, educatori, psicodiagnosti e un'arteterapeuta e il loro lavoro è indirizzato al recupero di questi individui, all'interno della struttura carceraria, orientato alla riduzione della recidiva e al miglioramento della qualità della vita. Un'attività complessa e difficile, confrontandosi con uomini che devono prendere coscienza della violenza provocata nei confronti dell'altro, visto quasi esclusivamente come oggetto di sfogo delle loro pulsioni e ossessioni. Il percorso spesso prosegue anche fuori dalla prigione dopo la fine della pena, seguiti da centri specialistici e da volontari. Attivo dal 2005, il successo della cura è dimostrata dai solo sette recidivi sui duecentoquarant'otto casi seguiti finora. L'operazione nasce dalla consapevolezza che solo con il recupero si possono prevenire i comportamenti devianti, ridurre le vittime e proteggere di conseguenza efficacemente la collettività, non fermandosi al solo approccio carcerario.

Il regista, al suo quarto lungometraggio (l'ultimo è "Habitat (Piavoli)"), con un cast tecnico ridotto al minimo (praticamente solo lui e il fonico per la presa diretta), è diventato testimone del metodo scientifico, mostrando al pubblico le varie sedute collettive e individuali dei detenuti, ma soprattutto il lavoro degli operatori, precisi, attenti, pronti a prevenire i difficili comportamenti dei violentatori la cui prima risposta, messi di fronte alle loro responsabilità, è sempre quella di minimizzare o rimbalzare la colpa degli atti alle "provocazioni" delle vittime.

Casazza ha raccolto più di duecento ore di girato e dovuto compiere un grosso lavoro in sede di montaggio, scegliendo un taglio documentaristico quasi da entomologo, concentrandosi non tanto sulla vita carceraria, ma quasi esclusivamente sulle sedute terapeutiche, visto che il soggetto principale del film è l'applicazione della terapia medica del Cipm. La scelta è quella di mettere in scena il percorso, l'evoluzione di questi individui, da uno stato di "innocenza" a una presa di coscienza del male compiuto e una identificazione con le vittime.

In "Un altro me", tra i tanti, ci sono due momenti clou che danno il senso del viaggio interiore, emotivo, compiuto. Il primo è quando il gruppo di carcerati ha un incontro con una vittima di violenza sessuale, una coraggiosa donna che racconta la propria vita, l'esperienza subita, il lungo recupero. I detenuti, quando gli viene prospettato questo confronto, in un primo momento rifiutano di parlare con la donna; ma poi rimangono spiazzati e si riflettono, identificandosi con la vittima, non vedendola più come oggetto ma come soggetto, persona. Fino ad arrivare al punto che uno di essi chiede pubblicamente scusa (non si sa quanto realmente sentite, ma nella realtà dell'attimo colto il gesto è compiuto). Nella seconda scena che si vuole citare, abbiamo uno dei pazienti, alla fine del percorso terapeutico, leggere una lettera scritta alla propria vittima, dove si fa carico del male compiuto, chiede scusa e si rende conto che non potrà mai più porre rimedio al danno provocato. Inoltre, quello che emerge da "Un altro me" è anche la cultura di dominio, di controllo, di esercizio della forza maschile nei confronti della controparte più debole, Una cultura che purtroppo rappresenta anche un humus familiare in cui questi individui crescono: vediamo, per esempio, il giovane Enrique che, alla fine, si accolla responsabilmente il trauma creato alla sua vittima, ma si deve confrontare con una madre che, al contrario, continua a difendere il figlio perché non lo ritiene colpevole. Tutto questo viene fuori dalle riunioni dell'equipe che Casazza riprende in modo alternato agli incontri con i detenuti, una sorta di camera di compensazione razionale che fa tirare il fiato allo spettatore di fronte agli incontri tesi, a volte crudi, emotivamente impegnativi, con i detenuti.

Per un tema così forte (e attuale) e raccontato da un punto di vista originale, c'era bisogno di una forma che in qualche modo si allineasse con il contenuto. Il regista compie una scelta stilistica coraggiosa, riprendendo fuori fuoco i detenuti e a fuoco gli operatori, con campi e controcampi non sempre centrati nella messa in quadro. Si voleva salvaguardare i detenuti per non farli riconoscere, senza però riprendere solo una parte del loro viso che avrebbe creato una sorta di ripetitività né agendo in post produzione mascherandone il volto, visto che le riprese erano in diretta e i detenuti si potevano rifiutare in qualsiasi momento oppure determinare uno squilibrio nel trattamento terapeutico. Altra motivazione è anche quella di salvaguardare le vittime di violenza per non mostrare gli eventuali aguzzini. Aggiungiamo noi, però, che stilisticamente il "fuori fuoco" diventa una forte metafora della condizione di questi uomini, rafforzando il loro racconto e la contrapposizione con gli operatori a "fuoco" che rende ancora più esplicito il dualismo psichico tra equilibrio (gli operatori) e disturbante (i violentatori). Inoltre, l'opzione di raccontare gli incontri in media res, evitando qualsiasi didascalia e aumentando il pathos, getta lo spettatore nel cuore degli avvenimenti e ne focalizza l'attenzione su snodi del racconto sempre cruciali e mai superflui. E anche il documentario inizia e finisce utilizzando questo approccio, così da rappresentare un processo in divenire e aperto.

Presentato al concorso internazionale del 57° Festival dei Popoli a Firenze nel novembre del 2016, vincendo il premio del pubblico, Claudio Casazza con "Un altro me" crea un'opera da vedere e che s'inserisce all'interno di quel movimento documentaristico italiano di grande qualità, ormai riconosciuto dalla critica e da un pubblico mondiale.


05/02/2017

Cast e credits

regia:
Claudio Casazza


distribuzione:
Lab 80


durata:
83'


produzione:
Graffiti Doc


sceneggiatura:
Claudio Casazza


fotografia:
Claudio Casazza


montaggio:
Luca Mandrile


Trama

Un gruppo di condannati per reati sessuali che, una volta usciti dopo anni o mesi di isolamento in carcere, rischiano di commettere nuovamente lo stesso crimine, scontano la loro pena nel carcere di Bollate. Un’equipe medica porta avanti con loro il primo esperimento in Italia per evitare il rischio che le violenze siano ancora compiute. Un anno accanto a loro per capire chi sono, cosa pensano e quali sono le dinamiche profonde di chi ha commesso un reato sessuale, per mostrare un possibile cambiamento.