Ondacinema

recensione di Alessio Cossu
7.0/10

Manele Labidi Labbé, regista francese di origini tunisine, ha presentato al Festival di Venezia una commedia agrodolce aperta a più chiavi di lettura.
Per demistificare l’ingombrante eredità di una ex colonia che ha vissuto sotto una lunga dittatura, al cinema si possono scegliere diverse strade. Vi sono film con una impostazione nettamente storico-politica, che ricorrendo ai flashback e alle gesta dei protagonisti della storia fanno leva sullo scarto diacronico tra presente e passato per innescare la giusta presa di coscienza nel pubblico. Vi sono poi i film dal taglio decisamente più documentaristico che, ben poco concedendo all’inventiva, imbandiscono allo spettatore il pasto freddo dei fatti nudi e crudi inducendolo ad assimilarli grazie alla sospensione dell’incredulità ottenuta con alcuni escamotage, come ad esempio il ricorso a immagini di repertorio o la riproposizione delle prime pagine dei giornali. Vi è poi un angolo visuale più “discreto”, ma non per questo meno arguto, meno profondo, che misura i trapassi storici senza minimamente mostrare i volti del potere, e focalizzandosi invece sulla quotidianità, sul microcosmo familiare, sui risvolti tragicomici delle esistenze dei singoli, tessere perfettamente congruenti col milieu che si vuole rappresentare. Ed è proprio di quest’ottica che Manele Labidi Labbé si serve per scattare una fotografia della realtà tunisina a ormai otto anni dalla cosiddetta rivoluzione dei gelsomini.

A voler ricercare cliché del cinema africano in “Un divano a Tunisi” si rimarrebbe delusi, nel senso che gli ingredienti sono quelli della commedia francese, sapientemente arricchiti, tuttavia, da una molteplicità di temi in filigrana. Il ruolo da protagonista è interpretato da Golshifteh Farahani, già nota per aver lavorato in “Nessuna verità” (2008) di Ridley Scott, in “Paterson” (2016) di Jim Jarmusch, in “Quella peste di Sophie” (2016) di Christophe Honorè e ne “I pirati dei Caraibi” (2017) del duo Johachim Rønning e Espen Sandberg. Si tratta di Selma, una trentenne emigrata a Parigi, rientrata a Tunisi con l’ambizioso progetto di aprire uno studio di consulenza psicologica, profittando dell’apparente clima di libertà che si respira in patria dopo la fine del regime di Ben Alì.
Il film si apre con la protagonista che, impegnata nel trasloco presso il riad degli zii, osserva un curioso ritratto di Freud che indossa un fez. Si tratta di uno dei temi in filigrana del film, il tentativo di coniugare due mondi immiscibili: la psicanalisi e la cultura araba. Qualcuno dice a Selma che quel ritratto è inaccettabile e le porterà dei guai. Ma la protagonista insiste, e incomincia a pubblicizzare l’apertura del suo studio. Eccola dunque prima presso un medico, poi in un centro estetico e infine a perorare la propria causa anche presso gli zii che le concedono gli spazi di cui ha bisogno.

Per comprendere appieno il senso dell'opera prima della regista franco-tunisina bisogna tener conto del fatto che i paesi arabi non conoscono la psicanalisi e che sono pochi quelli che la studiano nelle università. Infatti, mentre la cultura araba ha assimilato pienamente la scienza medica di derivazione occidentale, proprio la psicanalisi non ha mai incontrato grande fortuna giacché per i malanni del corpo è pacifico avvalersi di un consulto medico, per quelli psichici si ritiene più proficuo rivolgersi a “guaritori” d’altra specie.
Tornando al film, lo spaccato della società tunisina emerge sia prima che Selma inizi la sua attività, sia, ovviamente, durante l’anamnesi dei pazienti. Nel primo caso la confusione e l’interminabile fila di assistiti che gremiscono l’astanteria del medico presso il quale Selma vorrebbe lasciare i propri biglietti da visita fanno il paio con quelle che si formano quando è lei a ricevere i propri pazienti. La prima fila è un evidente atto d’accusa contro le inefficienze del sistema sanitario, la seconda invece smentisce la presunta inutilità della psicanalisi.
Nel primo caso l’uso della steadycam esprime il senso di insicurezza, di incertezza per chi si affida al sistema sanitario tradizionale, nel secondo il ricorso al carrello da un lato suscita un’amara comicità (Selma non ha promesso a nessuno la felicità, ma molti sentono comunque il bisogno di parlarle), dall’altro mostra quanto la variegata società tunisina sia alla ricerca di punti di riferimento, di interlocutori della sue angosce e insicurezze.
L’ingresso di Selma nel centro estetico è una delle scene più riuscite del film. In essa vi è un’inquadratura emblematica: la mdp, fissa, inquadra in un composito totale tutte le clienti del centro, ognuna col suo abito, il suo aspetto fisico e il suo atteggiamento, unico e differente. È l’immagine della società, delle sue richieste, dell’aspirazione alla felicità e al benessere, a una vera svolta, lontana dai proclami pre e post rivoluzionari. Le donne chiedono apertamente a Selma se vi sia la certezza che le sedute psicologiche possano assicurare tutto ciò. E il fatto che queste aspettative siano sollevate dalla componente femminile nel suo complesso rivela un altro tema in filigrana: quello dell’anelito femminista, per altro già presente nel precedente cortometraggio “Une chambre a moi” (2018), in cui vi è un omaggio a Virginia Woolf.

Selma è ben distante dall’archetipo della donna araba: anticonformista, nubile, afferma di amare la solitudine, fuma, porta dei tatuaggi, eppure legge il Corano. Ma contemporaneamente si sottrae ai cliché di vittima della società secondo l’ottica delle fiction occidentali. Non è insomma una donna sottomessa né una spudorata che disprezza la tradizione. È tutto qui il segreto dell’originalità di questa gustosa commedia: l’equidistanza dagli stereotipi, il fatto che il film se ne prenda letteralmente gioco. Le sequenze più rivelatorie riprendono con mdp fissa i clienti di Selma seduti o sdraiati sul divano che confidano a Selma i loro problemi: Baya, la proprietaria del centro estetico, che confessa il suo cattivo rapporto con la madre; Raouf, un panettiere che prima non riesce a liberarsi dei frequenti incubi notturni (altra strizzatina d‘occhio a Freud), poi rivela la sua repressa sessualità; un fobico ossessivo compulsivo che crede di essere continuamente intercettato; la stessa zia Amel che, schizofrenicamente, all’inizio del film dichiara l’inutilità della psicanalisi, salvo poi manifestare il bisogno di parlare e confessare così l’invidia per le libertà che la condizione di nubile riserva alla nipote. Per Manele Labidi Labbé tutti i comportamenti bizzarri, tutte le fobie e le insicurezze costituiscono l’eredità psichica del regime, un fardello che otto anni di lotte al potere del dopo Ben Alì non sono riuscite ad alleviare.

Altro tema del film è quello del rapporto con le autorità. “Un divano a Tunisi” mostra con sottile ironia quanto alla nuova fase politica non abbia fatto seguito un maggiore senso civico e, riduttivamente, neanche un maggiore buonsenso. Dovendo lottare con le unghie e coi denti per ottenere il permesso che la autorizzerà a esercitare legalmente la sua agognata professione, Selma fa i conti con la dilagante corruzione. D’altro canto il poliziotto che pure si è invaghito di lei rivela a sua volta un’inflessibilità nell’applicare le leggi che in quel contesto suona contraddittoria: l’operato dell’impiegata che dovrebbe consegnare le licenze alla libera professione è in realtà lei stessa emblema della corruzione.

Ultimo tema in filigrana del film è quello del rapporto tra Selma e la psicanalisi come scienza, come strumento atto ad aiutare i propri pazienti, ma anche a far emergere le proprie sicurezze e inadeguatezze. Quando nel corso di un viaggio con la nipote Olfa (vera e stereotipata figura ribelle del film) l’auto rimane in panne, si materializza un Freud redivivo che si offre di accompagnare a casa entrambe. Durante il tragitto Selma scoppia in lacrime cedendo allo stress, mentre Freud guida silenzioso e imperturbabile, limitandosi a offrire alla protagonista gli stessi fazzoletti che lei dispensa ai propri pazienti. Analogamente a "Persona" di Ingmar Bergman, dove ugualmente la psicologa tende nel corso del film a diventare lei stessa una paziente, è evidente che in “Un divano a Tunisi” il tema dell’identità della psicoterapeuta è una ulteriore chiave di lettura. Si può dire che l’affresco tunisino restituisca in generale un’immagine del mondo femminile migliore di quella maschile. La crisi seguita alla transizione politica ha infatti minato le sicurezze, non solo economiche, ma anche interiori, identitarie.

Per quanto riguarda l'interpretazione di Golshifteh Farahani, l'attrice franco-iraniana si è ottimamente calata nella parte, anche grazie alla consonanza con il ruolo per cui è stata prescelta: l'attrice ha esperienza diretta di cosa significhino le radici culturali, visto che vive in Francia da quando è stata espulsa dall'Iran per le proprie prese di posizione.
In conclusione, si può affermare che l’intento della regista di mostrare come gli esiti del rivolgimento politico possano essere percepiti anche senza mostrare “le immagini ufficiali delle strade della rivoluzione” sia più che riuscito.


30/10/2020

Cast e credits

cast:
Golshifteh Farahani, Aïsha Ben Miled, Feryel Chammari, Hichem Yacoubi, Najoua Zouhair, Jamel Sassi, Ramla Ayari, Moncef Ajengui, Majd Mastoura


regia:
Manele Labidi Labbé


titolo originale:
Un divan à Tunis


distribuzione:
BIM


durata:
88'


produzione:
Kazak Productions


sceneggiatura:
Malele Labidi Labbé, Maud Ameline


fotografia:
Laurent Brunet


scenografie:
Khaoula Abassi, Achraf Dridi


montaggio:
Yorgos Lamprinos


costumi:
Hyat Luszpinski


musiche:
Flemming Nordkrog


Trama
Dopo la rivoluzione dei gelsomini e la conseguente cacciata di Ben Alì, Selma rientra a Tunisi da Parigi con la laurea in psicologia e soprattutto con il sogno nel cassetto di esercitare la professione per cui ha studiato e per dare così un sostegno alla sua gente in un momento di profonda transizione non solo politica, ma anche sociale e culturale. 
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