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recensione di Alessio Cossu
8.0/10

Con "Utama", vincitore del premio della giuria al Sundance Film Festival del 2022, il regista Alejandro Lojaza guarda all’attualità, ma volge contemporaneamente lo sguardo al passato, realizzando un film denso di significati. La tematica di attualità è la mancanza d’acqua e la relativa desertificazione di aree sempre più vaste del globo.

Siamo infatti in Bolivia, sugli altopiani andini, dove una delle tante famiglie di etnia Quechua sopravvive umilmente sostentandosi grazie ai lama e al poco che riesce a coltivare. Il film è incentrato su un’ormai anziana coppia: pacata, intelligente e comprensiva lei (Sisa), burbero, infaticabile e testardo lui (Virginio). La fotografia, uno dei pregi imperdibili di questa pellicola, mette a nudo il loro incarnato olivastro, le loro rughe abbrunite dal sole, che parlano di una vita vissuta tra le fatiche degli altopiani: la pastorizia transumante, la tessitura degli abiti che portano indosso, l’andirivieni alla ricerca dell’acqua. Virginio è più provato della moglie: fin dall’inizio, il suo ansimare diventa, insieme al bramito del lama e al soffio del vento che spazza l’altopiano, la vera colonna sonora del film, in uno spartito che è come un trio musicale tra natura, uomo e animali. Altro aspetto che rende rotondo e compiuto il film è la capacità del regista di saper rappresentare efficacemente il lentissimo ritmo di vita della coppia, usa ormai a centellinare le forze, facendo ricorso a un inestricabile nodo di pazienza e saggezza. Così, le inquadrature sono quasi sempre fisse e, quando la macchina da presa si muove, lo fa con morbida delicatezza. In alcune inquadrature sembra di rivedere le fotografie di Sebastiao Salgado ammirate ne "Il sale della terra" (2014).

Ancora, è col sapiente ricorso all’ellissi che Loayza istituisce un muto dialogo tra la coppia di anziani e l’ambiente circostante, fatto di sguardi e di sospiri, regolando gli stacchi in modo tale da darci la sensazione che i personaggi vivano rapiti in una dimensione che non ha niente a che vedere con la concezione lineare, urbana, occidentale del tempo. Qui a dominare è la ciclicità inesorabile che ha così fissamente collocato l’uomo in un’esistenza rituale e cadenzata dagli elementi naturali, da fargli apparire follia anche la semplice ipotesi di potersene allontanare. E infatti, quando Clever, il nipote, giunge dalla città, nonostante tutte le novità che reca con sé (la moto, gli alimenti, il medico, il cellulare) non riesce a penetrare quell’universo di cui non parla neanche la lingua. Tra l’altro, i rimproveri del nonno in lingua Quechua suonano come la risoluta affermazione dell’identità culturale di tale etnia. Clever rappresenta dunque la modernità, Virginio la tradizione. Così, quando la scarsità d’acqua, che ha già spinto svariate famiglie a trasferirsi verso le montagne, rende ormai inevitabile la ricerca di una soluzione definitiva, e mentre il nipote cerca di indurre la coppia a lasciare l’altopiano per trasferirsi in città, Virginio si aggrappa aI buon esito di un antico rito propiziatorio. La distanza tra i due, e la conseguente tensione narrativa, raggiunge il culmine quando la tosse che affligge l’anziano rischia di farlo morire. È allora che questi parla della leggenda del condor, e di come il maestoso volatile, sentendosi stanco, vecchio e inutile, decida di lasciarsi morire. Evidente allegoria della condizione umana, la leggenda del condor ci introduce in un'altra tematica non meno importante di quella della siccità: la riflessione sul rapporto tra la vita e la morte. Infatti, quando Virginio apprende che Clever presto diventerà padre, innanzitutto gli dona delle miche d’oro, dicendogli che a lui saranno molto più utili, e soprattutto vede nella perpetuazione del ciclo della vita un fattore di comunanza rispetto al nipote, il quale, seppur in un contesto culturalmente distante, garantisce appunto la perpetuazione della sua discendenza. L’accettazione della morte biologica e la sua assimilazione all’interno di un ciclo naturale ben più ampio di quello strettamente umano è esemplificato dalle scelte di montaggio ellittiche sulla dipartita di Virginio: inquadratura sul corpo del defunto; breve stacco con inquadratura sulle pietre; nuovamente stacco sull’albero, indi stacco finale sul corpo, questa volta con il nipote al suo capezzale: l’anziano quechua è diventato un elemento della natura e il ciclo si è compiuto.

Con "Utama", il regista andino sembra per molteplici aspetti ripercorrere la storia del cinema boliviano. La scelta di far parlare quasi sempre in Quechua la coppia di anziani, ad esempio, rimanda a "Ukamau" (1966) di Jorge Sanjinez, interamente girato in Quechua. Sempre da Sanjinez, soprattutto quello di "Nacion clandestina" (1989), viene il profondo rispetto per le popolazioni indigene e la volontà di preservarne l’identità culturale. Anche il fortunato "Vuelve Sebastiana" (1953), di Jorge Ruiz, il primo film boliviano ad aver ottenuto un riconoscimento all’estero, è stata fonte d’ispirazione per Loayza. Nella pellicola di Ruiz una bambina si perde in un villaggio a lei sconosciuto e viene riportata dal nonno alla propria comunità; in quella di Loyaza sono i lama ad essere ritrovati e ricondotti al nonno da Clever. In entrambi i film si assiste poi a un cruento sacrificio propiziatorio per la pioggia e il raccolto. Anche uscendo dall’alveo della cinematografia boliviana, si trovano addentellati con altre pellicole andine, pure più recenti. La siccità dell’altipiano non è dissimile da quella di La Guajira ne "Oro verde – C’era una volta in Colombia" (2018) di Ciro Guerra, così come l’isolamento culturale dei Quechua ricorda quello degli indigeni Wayuu.

Differente invece la fotografia dei due film: più poetica ed evocativa nel film colombiano, più realistica e distaccata in quello boliviano. Anche le musiche di Fernando Cabrera e Ver Perez contribuiscono al medesimo scopo, giacchè è con discrezione che il tessuto sonoro del flauto andino interviene nella pellicola così da preservare un universo acustico dal sapore naturalistico, al limite del documentaristico.


12/10/2022

Cast e credits

cast:
José Calcina, Luisa Quispe, Santos Choque


regia:
Alejandro Loayza


titolo originale:
Utama


distribuzione:
Officine UBU


durata:
97'


produzione:
Alma Films


sceneggiatura:
Alejandro Loayza


fotografia:
Barbara Alvarez


scenografie:
Valeria Wilde


montaggio:
Fernando Epstein


costumi:
Valeria Wilde


musiche:
Fernando Cabrera


Trama
Due anziani quechua dell’altopiano boliviano, incalzati dalla scarsità d’acqua, sono posti davanti al difficile interrogativo sul loro futuro: trasferirsi in città, come vorrebbe il nipote che è appena venuto a trovarli, o resistere stoicamente alle avversità preservando le tradizioni?
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