Ondacinema

recensione di Alessio Cossu
8.0/10

Una giovane donna, solitaria e di spalle, si allena in aperta campagna a tirare con la fionda; prima che una voce fuori campo la richiami ai suoi doveri, confessa la propria ignoranza e il conseguente bisogno di istruirsi. Le prime inquadrature del terzo film di Paolo Zucca contengono già in nuce gli elementi che delineano l’intreccio incentrato sulla figura di Maria: la campagna, contrapposta all’asfittico ambiente domestico, come spazio fisico dell’esperienza; l’aspirazione a una rinnovata condizione umana e sociale; la sete di conoscenza come strumento emancipatorio cardine.

Quella del regista sardo è una Maria inedita, libera dalle ristrettezze della ricostruzione filologica evangelica, in grado di trascendere il tempo e riallacciare la propria vicenda alle tematiche ruotanti attorno alla condizione femminile. L’ambiente esterno, delineato con tutta la carica di realismo che il paesaggio sardo può offrire, è costituito da immagini intessute di un tappeto acustico costante e ben dosato, fatto dei belati, dello starnazzare delle galline, dal frusciare del vento, perfino del ronzio delle mosche, come nel recente "Bentu" (2022) di Salvatore Mereu. A tutto ciò si mescola poi il parlato dei personaggi, talvolta in sardo, a scolpire un mondo allo stesso tempo atavico e attuale, geograficamente lontano dalla Galilea ma affettivamente percepito come più prossimo alla dimensione archetipica e aurorale del linguaggio cinematografico.

Si può dire che Zucca abbia fatto propria la lezione di Pier Paolo Pasolini che rimodellava nella modernità tanto il mito, con la "Medea", quanto la religione, con "Il Vangelo secondo Matteo". Così, pur rinunciando all’impiego del dialetto in modo integrale e allontanandosi, ad esempio, da "Su Re" (2012), di Giovanni Columbu, con coerenza appunto pasoliniana, i momenti in cui ricorre l’uso del dialetto sono quelli legati al compianto funebre e ai riti benaugurali che precedono il rito nuziale, perché più funzionali ad esprimere, vichianamente, la genuinità, la spontaneità e la sacralità del momento associativo.

Agli spazi chiusi, ovvero la casa, il tempio, si contrappongono quelli aperti, gli unici nei quali le aspirazioni di Maria si possono realizzare, attraverso il movimento e la fuga. Non a caso, la protagonista non si ri-fugia infatti all’interno di un ambiente, ma ri-fugge da esso, e la dimensione del movimento è confermata dal finale del film. A tale schematismo si sottrae tuttavia una sequenza dal sapore ludico e filosofico insieme: la domus de janas (letteralmente: casa delle fate) diventa una sorta di caverna platonica nella quale vengono messi in scena i primi passi di un tirocinio sapienziale in cui luci e ombre rimandano inevitabilmente al mito del filosofo greco.

Maria è, si diceva, la protagonista che esce dal rigido ritratto evangelico per farsi carico delle istanze rivendicate dalle donne di ogni tempo: rifiuto del matrimonio combinato, refrattarietà al patriarcato, denuncia dell’uso strumentale del sapere. “Guai a voi, dottori della legge, che avete rubato le chiavi della scienza”, tuona Maria quasi all’inizio del film. Operazione ardita, quella del regista sardo, eppure ben condotta, grazie anche alla coerenza narrativa tra il personaggio e le sue battute di dialogo: la donna non è verbosa, né tanto meno magniloquente o dotata di adamantina perfezione. È umana. La sua aspirazione alla conoscenza è socraticamente percepita come bisogno irrinunciabile e condiviso con Giuseppe (Alessandro Gassmann), allo stesso tempo coprotagonista e mentore.

È quando parlano di logos, di meridiane e di Alessandria che i due sembrano più lontani dalla tradizione evangelica e da come può plausibilmente raffigurarseli l’immaginario collettivo, ma questi momenti sono volutamente costituiti dallo spirito di una narrazione lontana dalla prosa e intrisi invece della poetica antirealistica di matrice pasoliniana. La protagonista del film di Zucca non è una donna ma tutte le donne e avrebbe poco senso piluccare incoerenze filologiche perdendo così il senso dell’universalità del messaggio del film, un po’ come si farebbe se si disquisisse sul fatto che, nel suddetto "Il Vangelo secondo Matteo", Pasolini aveva vestito i gendarmi con abiti medievali e non romani.

Sul piano del linguaggio del testo filmico, è interessante osservare come la tradizione evangelica, apparentemente assente, è invece prefigurata metaforicamente: la pietra che Maria brandisce contro i pretendenti sgraditi è anticipazione di quella citata da Cristo a proposito del peccato; i corsi d’acqua così frequentemente presenti alludono al rinnovamento del battesimo. Ben ponderate e aliene da virtuosismi appaiono le scelte di inquadratura. Quasi in apertura, ad esempio, la macchina da presa che immobile e dal basso inquadra la madre di Maria, tenendo in primo piano l’impasto a cui lavora e in secondo la figlia in piedi, esprime il conflitto tra due modelli confliggenti della condizione femminile; o ancora, l’angelo che si allontana dalla terra e osserva in soggettiva Maria rimpicciolirsi rappresenta icasticamente la protagonista lasciata alla sua dimensione umana.

Per quanto riguarda la fotografia, piuttosto che scegliere un piatto e inespressivo bianco e nero, il regista opta per un colore saggiamente variato e funzionale alla cangiante atmosfera del racconto. Così, a una grana dell’immagine inizialmente più grossa e sporca che esprime la condizione sofferente e subalterna della protagonista, fa seguito una più fine, nitida e luminosa, a rispecchiarne la progressiva emancipazione. Dopo l’annunciazione poi, la luce di una sequenza onirica è tanto abbagliante da ottundere quasi la vista: è il segno da un lato della trasfigurazione di Maria, dall’altro della gravosità del compito che l’attende.

In "Vangelo secondo Maria" anche la scelta dei costumi, seppur slegata da criteri filologici, contribuisce a costruire la plausibilità più etica che estetica dei personaggi: la tunica verde indossata dalla protagonista assume una connotazione espressionista in quanto determina una continuità cromatica col bosco, ambiente nel quale l’indole selvaggia e ribelle della giovane si manifesta così palesemente. Dopo lo spiazzante e ironico "L'uomo che comprò la luna" (2018) e ancor più dopo il laconico "L'arbitro" (2013) ci pare che il regista oristanese abbia acquisito una maggiore consapevolezza nei propri mezzi mentre, da parte del pubblico, si può nutrire fiducia circa il fatto che egli abbia ormai imboccato la strada verso un cinema mai banale.              


28/05/2024

Cast e credits

cast:
Benedetta Porcaroli, Alessandro Gassmann, Lidia Vitale, Barbara Pitzianti, Maurizio Lombardi, Leo Ferrari, Fortunato Cerlino, Leonardo Capuano


regia:
Paolo Zucca


titolo originale:
Vangelo secondo Maria


distribuzione:
Vision Distribution


durata:
105'


produzione:
La Luna, Indigo Film, Vision Distribution, Sky, con il contributo del Ministero della Cultura, con i


sceneggiatura:
Barbara Alberti, Amedeo Pagani, Paolo Zucca


fotografia:
Simone D'Arcangelo


scenografie:
Luciano Cammerieri


montaggio:
Marco Spoletini


costumi:
Beatrice Giannini


musiche:
Fabio Massimo Capogrosso


Trama
Dopo aver rifiutato o eluso le profferte di diversi pretendenti, Maria diventa sposa di Giuseppe, un umile ma saggio falegname. La loro sarà un'unione improntata alla castità e al rispetto in nome della sapienza, fino a quando, con la comparsa di un angelo, la donna non diventerà parte del disegno divino.
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