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Austria, Germania, Italia, Francia, Paesi Bassi e Stati Uniti. Una vita - breve - passata con la valigia in mano e l'urgenza di esprimere la propria visione del mondo e la propria idea del cinema e dell'arte. Ma alla fine, si tornava sempre alla Vienna asburgica e quella realtà apparente fatta di legami fragili, emozioni passeggere, felicità a momenti. Tutto questo è stato Ophuls

A un certo punto ci si rende conto che si pensa che si sta parlando della vita e poi si scopre che si sta parlando della vita come l'abbiamo vista in un film di Ophuls
Bernardo Bertolucci



Una vita spezzata, quella di Max Ophüls, morto a 55 anni ad Amburgo per un arresto cardiaco, nel pieno di una continua riflessione sul proprio cinema e sulle sempre nuove possibilità di mettersi alla prova per raggiungere spazi inesplorati. Mentre lavorava a un film su Modigliani, immaginava nuovi testi teatrali da portare in scena, riscoprendo così il suo primo amore, quello per il palcoscenico, Ophüls si spense improvvisamente, lasciando attoniti i suoi più accesi estimatori. “Era per alcuni di noi il migliore cineasta francese assieme a Jean Renoir. È una perdita immensa, di un artista balzacchiano che era diventato l’avvocato delle sue eroine, il complice delle donne, il nostro cineasta
 de chevet”, così lo ricorda un giovane critico di nome François Truffaut dopo la sua morte. E in questa frase dell'allora 25enne Truffaut ci sono due elementi che non dovranno mai essere dimenticati. Il primo è la considerazione di un Ophüls francese, alla pari di Renoir. Nato in Germania, di madrelingua tedesca,  Ophüls è stato uno dei più cosmopoliti cineasti del Novecento, capace di sentirsi a casa in patria, ma anche in Svizzera, in Francia, in Italia, negli Stati Uniti. In ogni suo spostamento, in ogni sua migrazione, c'era un pieno accoglimento della concezione del cinema che andava trovando. Questa sua personalità da giramondo (in realtà condizione imposta più che liberamente voluta) è una caratteristica che ha a che fare quasi completamente con il suo rapporto con il mezzo espressivo in sé.  Ophüls, infatti, che girasse in Europa o in America, nella sua lingua di origine o in un'altra di adozione, ha perseguito un costante percorso artistico che, dal punto di vista dei temi affrontati e dei toni usati, dimostra una coerenza ancora inscalfibile, a distanza di decenni. Quella peculiare concezione del melodramma, affrontato con la leggerezza di chi abbraccia candidamente le tragedie del mondo, quell'alternarsi di dramma e commedia, di profondità e superficialità nelle azioni e nei sentimenti dei suoi protagonisti, tutto questo è un universo indipendente dalla location produttiva, dalla lingua parlata o dal Paese che accolse il regista. E questo mondo a parte, questa galassia di sentimenti ophulsiani ha trovato una patria d'elezione speciale nella Vienna di inizio secolo, quella città caput mundi che, mentre l'impero viveva i suoi ultimi, gloriosi anni, riusciva ancora a dare ospitalità ai più grandi intellettuali, ai più geniali musicisti, ai più originali scrittori. Quella Vienna, che così attentamente e con gusto farsesco Ophüls seppe ricreare con trucchi scenografici negli studi cinematografici, fu l'ambientazione perfetta per i suoi melodrammi colmi di slanci emotivi e di improvvise giravolte narrative.
Si diceva di due elementi messi in evidenza nel ricordo di Truffaut. Il secondo è, appunto, quello di un composito mondo femminile raccontato nel corso degli anni nei suoi capolavori. Sempre pronte al sacrificio, disposte a vivere i sentimenti senza remore e senza timore del futuro, le donne del cinema di Ophüls sono eroine loro malgrado: perdenti con consapevolezza, le uniche protagoniste delle sue opere a comprendere fino in fondo la fragilità del concetto di felicità. Sono loro che amano senza calcoli, soffrono senza recedere dai legami affettivi più profondi e infine accettano la sconfitta più amara, quella del tempo che le condanna alla solitudine o alla disillusione.
Fuggito dalla Germania nazista prima e dalla Francia dell'armistizio dopo, Ophüls troverà a Hollywood un luogo accogliente dove poter far esplodere la sua arte. È come se il suo pellegrinaggio in giro per il mondo gli avesse permesso di prendere consapevolezza finalmente dei suoi mezzi, del suo reale rapporto con il cinema. Fino al ritorno nella Francia del Dopoguerra, dove si stabilirà nei suoi ultimi anni portando il suo lavoro dietro la macchina da presa ai risultati più alti, sfiorando i confini dell'avanguardia pura, senza tradire le profonde radici letterarie del suo stile. Un'avventura finita prematuramente, quando il suo cinema era giunto ai livelli più alti e avrebbe potuto regalarci ancora molto. Ci dobbiamo accontentare di quanto ha potuto donarci fino al 1957. 
 

Entrato a contatto con il mondo della Settima arte grazie alla disponibilità di Anatole Litvak che lo volle sui suoi set come aiuto (singolare notare come il cineasta di origini ucraine ebbe la stessa parabola 
ophulsiana: prima Germania, poi tappa in Francia, infine Hollywood), il primo vero progetto dietro la macchina da presa per Ophüls fu il cortometraggio È meglio l'olio di fegato di merluzzo (Dann schon lieber Lebertran, 1931), seguito nel giro dei due anni successivi da ben tre titoli: La ditta innamorata (Die verliebte Firma, 1932), La sposa venduta (Die verkaufte Braut, 1932) e Lachende Erben (1933). E se il primo titolo del lotto è andato perduto e ne è possibile ricostruire alcune peculiarità soltanto attraverso le recensioni dell'epoca, gli altri tre lungometraggi sono giunti fino a noi nella loro ingenuità espressiva che, nonostante tutto, ci permette di sottolineare alcuni elementi dell'arte di Ophüls evidentemente già presenti fin dalle origini. Se nell'introduzione ci eravamo dedicati ad evidenziare i temi che avrebbero ossessionato la sua carriera e di conseguenza il senso stesso delle sue pellicole più importanti, con le sue opere giovanili è invece possibile capire come, fin dall'inizio, in Ophuls fosse ben presente quella fascinazione per la macchina-cinema non solo come mezzo espressivo, ma anche come oggetto stesso di osservazione, meritevole di essere raccontato. Nel suo corto d'esordio, come anche nel suo film-opera tratto da Bedřich Smetana (La sposa venduta è infatti un rifacimento dell'omonima opera lirica), l'autore rompe ogni forma di schema consolidato e inquadra macchinisti e mezzi di ripresa, gira la sua cinepresa verso il set e scopre apertamente il trucco del cinema agli occhi dello spettatore. Non è uno sberleffo, né la ricerca di un colpo di scena: è una determinata intenzione di mostrare come operi l'obiettivo cinematografico, attraverso la sua lente d'ingrandimento sui drammi e, più spesso, sulle farse che coinvolgono gli esseri umani.
Altro elemento che già emerge dalle prime commedie, lievi nei toni e scanzonate nell'incedere narrativo, è uno stile ben preciso, unito a una tecnica già definita. Ophüls già negli anni 30 è regista amante del virtuosismo puramente spettacolare, è attratto dai movimenti di macchina circolari, da lunghe sequenze senza stacchi di montaggio. Questi primi film, pur secondari se osservati nel quadro generale di tutta la filmografia, permettono di comprendere appieno una maturità autoriale totalmente consapevole. Così come già padronanza piena Ophüls la mostra nel suo procedere su altre possibilità del racconto per immagini. Ne 
La sposa venduta, che resta comunque il titolo più rilevante del lotto, ci si può imbattere in diverse occasioni in quel fenomeno che è stato già definito come evasione extra-narrativa; nel pieno corso della vicenda principale del film, i protagonisti si imbattono in un imprevisto che li allontana dalla storia originaria. Un piccolo film nel film, che permette al regista di divagare, alleggerire, sperimentare altre possibilità di espressione, pur senza rinunciare all'organicità del lungometraggio. Un equilibrio variabile tra narrazione principale e narrazione alternativa: la storia non è mai persa di vista, ma l'autore si riserva il diritto di sparigliare, spostando il suo sguardo su altro, per il puro piacere del guardare, del mettere in scena elementi esterni allo scorrere degli eventi come da sceneggiatura. E ne La sposa venduta tutta la sequenza della fiera nella piazza del villaggio è un continuo alternarsi di questi due toni differenti di racconto.
Un'altra caratteristica prettamente 
ophulsiana, che sarà fondamentale in alcuni capolavori degli anni seguenti e che qui trova una prima presenza, è quella del personaggio-regista degli eventi. Non bisogna però pensare a una figura come quella del “presentatore”, che ritroveremo ne “La Ronde”, interpretata da Anton Walbrook. Nel film del 1932 il mediatore Kezal è un ruolo assolutamente diegetico, legato in modo indissolubile alla storia messa in scena. Non ha una funzione di raccordo fra ciò che viene mostrato e lo spettatore, bensì di correlazione tra i vari protagonisti. È la sua presenza che rimedia alle avversità, agli stati di tensione, rimettendo sui binari che conducono al finale migliore le vicende dei personaggi tormentati. Insomma, è un primo tentativo di Ophüls di trovare un aiuto al suo compito di regista dentro la finzione del film, un primo segnale di quella che sarà un'altra sua strenua convinzione, quella della necessità di abbattere la quarta parete e mettere palcoscenico e pubblico sullo stesso piano.

Amanti folli (Liebelei, 1933) è l'opera che fa conoscere finalmente Ophüls anche fuori dai confini della Germania e che fa esplodere in questi 88 minuti, impressi in uno splendido bianco e nero fatto di contrasti e di ombre improvvise, alcune delle tematiche più importanti di tutta la carriera del cineasta tedesco. Ritroviamo anche qui, come nei primi lungometraggi, il gusto ludico per la divagazione, il tono da commedia farsesca che prelude alla tragedia, come a sottolineare, ancora una volta, che il dramma è solo l'altra faccia della serenità e che i due sentimenti contrapposti non possono essere scissi. Ma Amanti folli rappresenta anche il primo incontro di Ophüls con il teatro di Arthur Schnitzler, “l'amatissimo poeta”, come lo stesso regista lo definiva da sempre. Il suo lavoro teatrale, a ogni modo, viene liberamente reinterpretato dal Nostro in un modo personale che esalta il carisma di chi, a poco più di trent'anni di età, ha già una concezione del mondo e della Settima arte consolidata. 
Il film è anche la prima occasione per raccontare di una di quelle donne che riempiranno di emozioni travolgenti il suo cinema negli anni a venire: Christine, interpretata da una allora sconosciuta Magda Schneider, è la giovane che sa amare solo nel modo più puro e sconfinato possibile, al punto da sopportare sulle sue esili spalle il peso non solo della propria solitudine e del proprio dolore, ma anche le conseguenze degli altrui errori, fino alle estreme conseguenze.
L'incipit dell'opera è memorabile e sarà una sorta di manuale visivo per molti registi dei decenni successivi (fra questi Luchino Visconti, che non nasconderà di essersi ispirato alla sequenza di apertura per il suo “Senso”). A teatro, va in scena “Il ratto del serraglio” di Mozart e Ophüls dà libero sfogo al dinamismo della sua macchina da presa, che si muove fra platea, galleria e le quinte dietro al palcoscenico con la stessa disinvoltura che userà per riprendere la finta Vienna asburgica riprodotta sul set. Un lavoro eccezionale di virtuosismo, organizzazione delle scene di gruppo, di montaggio ai limiti dell'avanguardia: eccola l'evasione extra-narrativa di cui parlavamo in precedenza, l'ossessione dell'autore di appagare lo sguardo dello spettatore con immagini magnifiche e ipnotiche.
Ma quando, al termine della serata a teatro, le due coppie di giovani si incontrano, si conoscono, si piacciono e decidono di frequentarsi, allora Ophüls vira sui toni di un mélo classico, che lui stesso contribuirà a codificare attraverso le sue storie. Entrano in campo due nuovi capitoli della poetica 
ophulsiana: la cura delle scenografie e il viaggio immaginario.
La meticolosità nella creazione delle giuste scenografie nel cinema di Ophüls si spiega con il dover trovare un compromesso tra due diverse necessità. Da una parte il bisogno di ridare vita alla sua patria d'elezione, quella Vienna di inizio secolo che aveva vissuto, prima del disfacimento dell'impero, una sua ultima epoca d'oro dal punto di vista culturale; e dall'altra parte la volontà di ostentare una ricostruzione scenica comunque fasulla, ancora una volta per non voler nascondere all'occhio anche meno attento dello spettatore quella inutile barriera psicologica esistente fra chi recita e chi si gode lo spettacolo. La Vienna di 
Amanti folli, dunque, è così posticcia da risultare di cartapesta, eppure, fra le note di Mozart e il vociare dei caffè affollati, fra le strade del centro percorse dalle carrozze e i piccoli cortili dei palazzi ottocenteschi, la capitale austriaca non è mai stata così lucente in un film.
Il viaggio immaginario, o, per meglio dire, la fuga dei protagonisti dalla propria opprimente realtà, è un'altra costante che qui ha la sua prima comparsa. Ci riferiamo alla stupenda scena della corsa in slitta attraverso il bosco innevato, forse unico momento di vera felicità di Fritz e Christine. La gita bucolica in effetti succede davvero, ma rappresenta comunque una sorta di via d'uscita da una situazione già molto tesa e preludio alla svolta drammatica. Il romanticismo delle storie d'amore di Ophüls scaturisce sempre da questa tenerezza insita nei personaggi che le animano; il loro sentimento non è ostacolato da un nemico definito, da un antagonista nel senso classico del termine, bensì, in modo più fatalista, è il corso degli eventi che pian piano svela l'amara verità. Ed è così che l'equilibrio sentimentale si rompe e precipita nella tragedia, come in questo caso, allorché il marito di una vecchia fiamma di Fritz, ormai abbandonata, esige comunque una sfida a duello per ottenere il risarcimento di un torto subìto, ma già facente parte del passato. A proposito di viaggi immaginari: dopo l'epilogo terribile per entrambi gli innamorati, la macchina da presa si esibisce in un carrello laterale sulla stessa traiettoria nel bosco che aveva visto a metà film sfrecciare la slitta della felicità, ma stavolta è tutto passato, l'amore si è consumato ed è stato sconfitto dalla quotidianità.
Amanti folli rappresentò per Ophüls il passaporto per la celebrità: non è un caso che, verso la fine del 1933, quando l'euforia hitleriana gli aveva ormai reso impossibile la permanenza in Germania, il suo primo lavoro in Francia fu un rifacimento fedelissimo di “Liebelei”, usando come protagonisti gli stessi due interpreti, Wolfgang Liebeneiner e Magda Schneider.

Ophuls girovago in Europa

Se il remake di Liebelei segna l’approdo dell’ebreo Ophuls in terra francese, dove egli si era spostato nel ’33 in fuga dalla Germania nazista, il suo primo film di questa nuova stagione si intitola Hanno rubato un uomo (On a volé un homme, 1934) ed è prodotto da Erich Pommer, che parallelamente inaugura l’attività del braccio europeo della Fox Film Corporation con “La leggenda di Liliom” di Fritz Lang. A parere del nostro, sarebbe stato meglio se i due progetti fossero stati realizzati a registi invertiti, cosa da non escludersi se si considera che quello di Ophuls cade sotto la categoria del poliziesco, mentre l’altro era una vicenda di colpa e redenzione non avulsa da toni sentimentali. La trama, infatti, parla di un fascinoso banchiere preso in custodia da una donna che lavora per i suoi rivali in affari e che da sequestratrice si trasforma in amante con cui scappare dal complotto ordito ai danni di lui. Tutto ciò sullo sfondo della Costa Azzurra.
Chi ha visto la pellicola, oggi di difficile reperibilità, ne ha rimarcato per lo più l’invasività del corredo scenografico e decorativo rispetto all’esilità della sceneggiatura, caratteristica che quanto meno lascia dedurre che l’attenzione per gli oggetti in scena, sicura eredità degli inizi in teatro, sia sempre stata assai viva nell’autore. Negli anni grate, cornici, tende e specchi intarsiati occuperanno costantemente lo spazio semantico dell’inquadratura, ma è verosimile che in tal caso a mancare fosse proprio un intreccio ombelicale tra la storia narrata e la sua reificazione banalmente esornativa.

È invece una produzione tutta italiana, l’unica dell’intera carriera di Ophuls, il successivo La signora di tutti (1934), ispirato all’omonimo romanzo di Salvator Gotta e finanziato dall’editore milanese Angelo Rizzoli, che al pari di Pommer avviava così l’impresa della Novella-Film, suo primo approccio con l’industria cinematografica. E appunto al contesto produttivo si rivela fittamente legato questo lungometraggio1, che fu al centro di un imponente battage pubblicitario, indirizzato soprattutto a fare della venticinquenne Isa Miranda la diva che poi realmente diverrà, dal momento che il divismo ne rappresenta il tema occasionale. La vediamo nei panni di un’attrice di successo, Gaby Doriot, che al culmine della popolarità tenta di uccidersi e durante l’operazione chirurgica, con cui i medici cercano di salvarla dalla morte, ripercorre la sua vita sotto l’effetto dell’anestesia. Dall’adolescenza, segnata dal suicidio di un professore innamoratosi di lei che le procura la cacciata dal collegio, alla giovinezza, quando frequentando un ricco coetaneo arriva ad avere una relazione con il padre di costui (Roberto Nanni, interpretato da Memo Benassi, che prima di fallire conduce la moglie paralitica a gettarsi dalle scale), fino all’età adulta, in cui Gaby prova invano a ridestare i sentimenti del Nanni-figlio, ormai orfano. Di qui il gesto tragico, che ci riporta a un inizio che è inevitabilmente una fine.



Si diceva del divismo come spunto occasionale, e difatti La signora di tutti ruota intorno ad altri due motivi, veri e propri fulcri della poetica del regista tedesco, ovvero la condanna del tempo sotto forma di memoria o ineluttabilità del presente e la stupefazione della donna imprigionata nelle sue pulsioni sentimentali. Aspetti che si informano reciprocamente, perché se la struttura a flashback fa da gabbia narrativa alla protagonista, che ricorda dal patibolo del tavolo operatorio, un po’ come accadrà a Lisa Berndle e a Lola Montès, la sua condizione di vittima fragilissima destinata all’infelicità trova ragion d’essere in una iterazione di cui si conosce l’esito fin dal principio. Gaby, del resto, ripete la sua esperienza di sconfitta da un segmento analettico all’altro, così come le crisi di non-ritorno che la investono sono all’insegna della replicabilità, sia che si tratti di una musica trasformata in allucinazione uditiva, sia che si tratti di un volto riprodotto dalle rotative di stampa. E così arriviamo al terzo filo di cui è cucito il film: la finzionalità che pervade il circuito del melodramma, testimoniata tanto dalla possibilità di leggere tutta la storia come il frutto dello stordimento narcotico di partenza, quanto dagli eccessi persino espressionistici della facies formale, che alla Biennale di Venezia gli valsero la coppa del Ministero delle Corporazioni per il lavoro “tecnicamente migliore”.

Interessato fin da La ditta innamorata alla messa in scena del mondo dello spettacolo, Ophuls realizzerà poi in Francia Divine (1935), che molto più del precedente ne fa il suo oggetto privilegiato, ricolmo com’è di “dietro le quinte”, muoversi di sipari, prove di costume ed esibizioni in palcoscenico. Trasposizione di una novella di Colette, la pellicola racconta di una ingenua ragazza di campagna che viene trascinata nella capitale parigina da un’amica e, prendendo il suo posto, entra a far parte del cast di un music-hall, per scoprire un ambiente a lei inadatto, che le provoca solo stordimento e desiderio di evasione. Ludivine, che proprio come Gaby varca la soglia della sua nuova vita cambiando nome (viene ribattezzata Divine, mentre l’altra era Gabriella prima della fama), si aggiunge a pieno diritto alla galleria dei personaggi femminili che il nostro ha cominciato a porre a fondamento della sua idea di cinema e che andrà arricchendosi sempre più. Non a caso la sequenza maggiormente memorabile, infitta nel cuore del film, la ritrae immobilizzata dinanzi al pubblico mentre un pitone le si attorciglia attorno al collo, a un passo dall’ipnosi cui un fachiro ricoperto di porporina sembra sottoporla. Vengono in mente, a riguardo, gli svenimenti di Madame de (Divine sviene a numero conlcuso) o i cali di pressione di Lola Montès, eroine con cui la giovane ha in comune il fatto di essere assediata da un’arena frenetica di imposizioni che ne minano la libertà. A lei, però, sarà concessa una via d’uscita e come nella più classica delle fiabe il principe azzurro, un amorevole lattaio, la sottrarrà alle grinfie dell’orco cattivo, il fachiro oppiomane e meschino.
Tra il 1935 e il 1936 Ophuls si impegna anche in due piccoli progetti sperimentali, i cortometraggi La Valse brillante de Chopin e Ave Maria de Schubert, nati nell’ambito di un’eccentrica iniziativa produttiva, concepita dal critico Émile Vuillermoz e dal violinista Jacques Thibaud, che consisteva nell’affidare a vari cineasti le registrazioni “creative” di esecuzioni di pezzi musicali suonati o cantati da grandi artisti. Queste cinéphonies – così si chiamavano – dovevano insomma saggiare le vie di un incontro tra i differenti linguaggi coinvolti; e non sorprenderà se quelle del nostro rimangono le più riuscite tra le pur poche che videro la luce, fra cui si segnala pure un Debussy firmato da Marcel L’Herbier. A suo agio con la messinscena della musica (i suoi esordi da regista teatrale parlano di Verdi, Offenbach e Mozart), egli sceglie infatti di non giustapporre i codici ma di farli interagire in chiave performativa. Ed ecco che il Valzer brillante viene danzato dalla macchina da presa, con il suo meccanico spiare il pianista collocato su un enorme piedistallo (a mo’ di scala) e con le geometrie di montaggio che ne scandiscono i tempi, mentre un velo trasparente funge da sipario a quello che Von Bagh definisce un “commento filosofico”2 a Chopin.

Dopo la Francia e l’Italia l’esule Ophuls approda in terra olandese, dove gira Gli scherzi del denaro (Komedie om geld, 1936), ancora con attori locali e su sceneggiatura dell’ebreo tedesco Walter Schlee. Un piccolo film ‒ non così piccolo per gli standard nazionali ‒ che rimarrà l’unico contatto con la cinematografia dei Paesi Bassi, ma in cui emergono in maniera dirompente le intuizioni e le scelte che stanno alla base delle più note opere maggiori. A cominciare dalla cornice giustapposta alla storia narrata, che ne esplicita la finzione integrandone i significati: qui tocca a un imbonitore da circo introdurre, commentare e sigillare ciò che viene mostrato, ovvero le disavventure di un impiegato di banca, l’onesto Brand, il quale a causa del dispetto di un monello di strada smarrisce un’ingente somma di denaro durante il tragitto verso le casse e viene licenziato. Di lì un tentativo di suicidio, dettato dalla disperazione ma evitato dall’intervento del presidente senza scrupoli di un grosso istituto finanziario, che gli offre la posizione di direttore per sanare i conti lasciati in rosso dal defunto predecessore, credendo che Brand abbia rubato i soldi e che questi possano essere facilmente incamerati dal colosso (legato al settore immobiliare).
“I soldi governano il mondo e ci mettono in ginocchio”: così canta il circense maestro di cerimonie dopo i titoli di inizio, presentando quello che definisce un film educativo, che fa pensare. Siamo pur sempre nel decennio della crisi del capitalismo e degli scandali economici, rispetto a cui Gli scherzi del denaro diventa anche un’efficace opera di critica sociale, ma la maestria di Ophuls sta principalmente nel far interferire gli elementi in gioco (ruoli sociali, voracità, ipocrisia ecc.) con una mise-en-scène tecnicamente ardita e semioticamente pregna. In questa sorta di antenato del landisiano “Una poltrona per due” pesano, ad esempio, la dialettica alto-basso, a sottolineare caduta e ascesa del protagonista, e quella sì-no, che incarna la sua sincerità di fronte all’opportunismo di un mondo imperniato sull’etica del denaro. Entrambe prontamente palesate dal narratore/imbonitore e assecondate dalla composizione delle inquadrature e dal montage. Questo il terreno su cui l’Ophuls touch si esercita, affinandosi: pensiamo al procedere per sottrazione nella resa degli avvenimenti o alle utili ambiguità determinate dallo sconfinamento del sonoro da una scena all’altra (il tentato suicidio di Brand è accompagnato dalla voce del presidente che descrive ai soci dell’istituto finanziario il piano ordito, dopo aver chiesto un minuto di silenzio per la scomparsa del fondatore dello stesso). Meritano almeno una menzione, a tal proposito, il momento in cui il concitato ma ritmico alternarsi delle mani delle dattilografe sui tasti delle macchine da scrivere illustra la rovina economica della famiglia e la sezione quasi surrealistica dell’incubo notturno, dove si scatenano i sensi di colpa del povero parvenu. Niente, però, avrà lasciato più spiazzati gli spettatori contemporanei del finale, che vede il monellaccio responsabile delle traversie toccate in sorte a Brand saltare in braccio al cantore extradiegetico, il quale lo rispedisce nel film per dare un lieto fine al pubblico, non dopo aver riavvolto il nastro e ri-mostrato l’episodio scatenante dando il comando a uno dei quadri/display disposti sul palco a mo’ di “menu selezione scene” ante litteram.

Al termine della felice parentesi olandese, il regista di Saarbrücken torna in Francia e torna nei dintorni del dramma amoroso, portando sullo schermo una pièce di André-Paul Antoine che già aveva diretto a teatro qualche anno prima: La nostra compagna (La tendre ennemie, 1936). A metà fra vaudeville e comédie boulevardière, il testo reca in sé una commistione di toni che vanno dal tragico al brillante, dall’elegante allo sbrigliato, cui Ophuls dà ancor più rilevo. Basti pensare che la tenera nemica del titolo è una donna fatale (Annette, impersonata da Simone Berriau) cagione della morte di tre sue vittime, due amanti e il marito, e che tutto il film ha origine dall’incontro di questi ultimi nelle vesti di fantasmi intrufolatisi a una festa di fidanzamento. Come osservato da Mancini3, la presenza “corporea” degli spettri parrebbe poco consona al cinema del nostro autore, che di gravami fantasmatici è spesso sottilmente intessuto. Tuttavia, l’espediente si rivela una variante della classica sovraesposizione del narrato, perché i tre personaggi-ombre non solo possono risultare esterni alla realtà in cui si trovano prodigiosamente calati, ma attivano tramite il ricordo la fabula stessa ‒ e così l’intreccio ‒ de La nostra compagna.
La citata festa di fidanzamento è quella della figlia di Annette, che si avvia a una vita matrimoniale borghese e asentimentale, esattamente come avvenuto in passato per la madre, la quale appunto in quanto stanca di un consorte forse mai amato aveva cercato emozioni autentiche tra le braccia di un domatore di tigri (ancora il circo!) e di un marinaio. Costoro, in modi diversi condotti al trapasso da lei, si conoscono soltanto da ectoplasmi, rimembrano vicendevolmente i guai patiti a causa della comune “nemica” e decidono di salvare la giovane da un destino già dato, aiutandola a scappare insieme all’aviatore acrobatico di cui è sinceramente innamorata. Come in La signora di tutti e in alcuni dei suoi capolavori successivi, Ophuls gioca a far coincidere la narrazione con il ricordo4, esponendo sì la fictio al sospetto dello spettatore circa la sua veridicità, ma parimenti attribuendole una circolarità incline al funesto (dal gesto estremo di Gaby al duello di Stefan in Lettera da una sconosciuta). Qui, però, una ripetitività di questo segno pare scongiurata dal benefico intervento dei fantasmi, che sottraggono Annette al replicarsi della “dannazione” materna. Eppure, non è fuor di dubbio che il luttuoso ‒ il ballo di morte del marito ad anticipare quello di “Le Masque”, l’incidente con le tigri per il domatore presagito dal medico, lo sparo risonante nella nebbia della pistola del marinaio ‒ resti relegato al susseguirsi delle analessi e che il finale se ne possa ritenere totalmente immune. A maggior ragione quando la leggerezza convive con la drammaticità, anzi è inseparabile da essa, come in questo caso.

Un pubblico straniato implica quasi automaticamente – e molto più prosaicamente – difficoltà al botteghino e nel tentativo di assicurarsi qualche risanante contratto Max l’enchenteur approda in Unione Sovietica, ma il soggiorno dura poco e non dà alcun frutto. Nuovamente a Parigi, si tuffa subito in un altro progetto che, in sintonia con i suoi trascorsi produttivi trans-nazionali, ha il Giappone sia come ambientazione sia come patria di alcuni degli attori coinvolti. Yoshiwara, il quartiere delle geishe (Yoshiwara, 1937) è un melò esotico alquanto tradizionale, soprattutto se confrontato con l’approccio di genere del precedente lavoro, che non rinuncia appieno a certi topoi normalizzati, talvolta perfino biasimabili5. Ma Ophuls non si lascia sfuggire l’occasione di confondere le acque ‒ questa volta in funzione della reazione del critico ‒ assottigliando il discrimine tra l’abusato o il posticcio e l’illusione autoripiegata. Allora se gli interpreti francesi truccati/travestiti da orientali per necessità di budget rimandano all’evidenza della maschera attoriale, gli eccessi del décor scenografico enfatizzano la vocazione teatralizzante e le infrazioni della verosimiglianza scatenano significati che sovvertono le gerarchie tra reale e immaginato.
Ci troviamo nella Tokyo di tardo Ottocento minacciata dall’esercito russo, uno dei cui tenenti si innamora dell’aristocratica Kohana, ridotta a educarsi da geisha per preservare il patrimonio di famiglia. Lotta per lei e il suo onore, nel contempo, un guidatore di risciò: il devoto Hayakawa, che roso dalla gelosia finirà per condannare alla morte i due amanti e di conseguenza sé stesso. Il romanzo di Maurice Dekobra su cui si basa la sceneggiatura offre pertanto al regista l’opportunità di rimodulare temi cari come quello della donna in gabbia (la chiusura del quartiere del titolo), della stupefazione (gli addestramenti ivi impartiti, ma anche la rigidità allucinata del veloce Hayakawa) e della tragica circolarità (il processo “attorno” a Kohana che ne decreta la fine). Il cinema come artificio creatore d’incanto si riversa, invece, in una splendida sequenza dove il tenentino guida la giovane in un sogno ad occhi aperti, suggerendole un futuro insieme che da parola muta in visione. Ed ecco con un trucco di montaggio lo spettacolo dell’Opera, la corsa in carrozza e il banchetto festivo evocati si materializzano sulla pellicola occupando lo spazio da loro concretamente vissuto, un po’ come accadrà in un altro viaggio immaginario assai più famoso.



Yoshiwara 
riempie le sale e riceve recensioni entusiaste, forse proprio grazie a quei residui di convenzionalità da cui derivano pure i suoi limiti, ma il successo consente a Ophuls di togliersi una grossa soddisfazione: girare un film tratto da un libro del prediletto Goethe. Al primo incrocio con un classico della letteratura universale (verrà poi il turno di Schnitzler e Maupassant), la sua scelta non può che ricadere sui Dolori del giovane Werther, romanzo epistolare che ha al centro un amore impossibile sulla soglia della morte perfettamente affine alla poetica del nostro. Dotato di un’insolita asciuttezza dal punto di vista dell’architettura del racconto e della tecnica realizzativa, Werther (1938) costituisce appunto in virtù della sua compostezza formale una spinta in avanti verso l’impeccabile eleganza dei capi d’opera dell’avanzata maturità. Lasciando da parte gli eterogenei virtuosismi, pur mai futili, che avevano caratterizzato dagli esordi la propria filmografia, il nostro predilige adesso la linearità della messinscena sia nell’ottica narrativa sia in quella della grammatica cinematografica. Non occorre beninteso indugiare sulla sinossi, considerata l’enorme popolarità della fonte letteraria (presso gli studenti italiani in primis con la mediazione dell’Ortis foscoliano), né appare arduo prefigurarsi che tra gli elementi di cui essa si compone a venir privilegiato sia il motivo della donna-prigioniera, bloccata nel perseguimento delle aspirazioni sentimentali dalla “normalità” delle circostanze. Torna così l’ossessione acustica che aveva tormentato Gaby Doriot, declinata ora nella melodia (che unisce i due innamorati) suonata dalle campane del villaggio, e ovviamente il consecutivo svenimento. Quella musica infatti, con la sua riproducibilità, estrinseca la paralisi emotiva di Charlotte, personaggio che perde ogni marginalità rispetto al testo di Goethe in quanto altra eroina compiutamente ophulsiana.

Sorella di Lotte, di Kohana, di Annette e a sua volta di Gaby sarà la Evelyne di Tutto finisce all’alba (Sans lendemain, 1939), penultimo film francese prima dell’esilio americano, dialogato e in parte sceneggiato dal già citato André-Paul Antoine. A interpretarla una raggelata Edwige Feuillère, nei panni dell’entraîneuse di un locale notturno di Montmatre, vedova e madre di un bambino che tiene in collegio fuori città, lontano dalla vita “immorale” che conduce per sostentare entrambi. Non da questo infingimento, però, scaturirà il suo dramma, bensì da uno altrettanto dolce e penoso insieme, risalente alla medesima vergogna: giungerà a Parigi il medico canadese amato in gioventù e per lui metterà in piedi una recita che la faccia sembrare una donna perbene, celando le varie miserie della propria condizione.
Ancora il luccicante mondo dello spettacolo, qui nella versione spogliarellistica, diventa la cornice ideale per una storia tragica. E ciò è già in nuce nella sequenza di apertura, che vede Evelyne esibirsi nel night-club al ritmo di una canzone vagamente malinconica, cambiarsi stanca nei camerini e intrattenersi controvoglia con un cliente abituale (il tutto mentre delle reti da pesca invadono la superficie dell’inquadratura a velare sì le nudità delle ballerine, ma anche a suggerire subliminalmente una cattività che va ben oltre l’accalappiamento dei paganti pure “autorizzato” dal nome «La Sirène» di cui il locale si fregia6). Per poi manifestarsi pienamente nella scena del numero col mantello bianco, dove Evelyne simboleggia la bellezza effimera, come vuole la canzone di accompagnamento, e svela il suo corpo al pubblico con volto atterrito, quasi in procinto di svenire. Tuttavia, la fissità dello sguardo o della posa gestuale non si circoscrive al perimetro dello show, ricorrendo altrove in più casi per effetto di quella recita privata cui si accennava (dal lungo abbraccio al figlio al saluto al treno). Il personaggio della Feuillère, infatti, aggiunge gabbia a gabbia, intrappolandosi da sola in una menzogna rovinosa per nascondere uno status di infelicità già privo di vie d’uscita. Ancora il passato, recuperato attraverso i consueti flashback, schiaccia sotto il suo peso un presente irrisolvibile, a maggior ragione quando il secondo può risolversi esclusivamente annullando le distanze dal primo. E come era stato un controcampo a dire la frattura tra i due livelli durante il casuale incontro in strada fra gli amanti, chiudendo un long take di quelli cari a Robert Altman7, sarà negli ultimi fotogrammi un fuori campo (quasi un “fuori film”) a sancire la fine tragica della pellicola: al posto dello sparo della pistola di Werther, l’alba.

La fatica che sancisce, invece, la conclusione del primo periodo europeo di Max Ophuls si intitola Da Mayerling a Sarajevo (De Mayerling à Sarajevo, 1940) e incrocia l’ennesima storia d’amore infelice con la Storia con la S maiuscola, la stessa che lo costringerà a toccare la sponda hollywoodiana, ma che gli impedirà del resto di seguire la lavorazione di quest’opera fino all’arrivo in sala. Non si tratta, però, né del nazismo né dello scoppio della seconda guerra mondiale, bensì di quello della prima, perché la coppia ritratta risulta composta dalla contessa Sophie Chotek e dall’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austro-ungarico, la cui uccisione fu il casus belli scatenante (28 giugno 1914). Assistiamo al loro incontro, al loro innamorarsi, al loro lottare contro le intromissioni della corona e infine al loro omicidio per mano di un ribelle serbo. Un po’ come nel tarantiniano e lungi da venire “C’era una volta a Hollywood”, un explicit cruento incombe sulla vicenda per quasi tutta la durata del film, anzi sin dal titolo, che peraltro unisce due celebri momenti “melodrammatici” per la casata asburgica: a Sarajevo si verifica l’attentato in questione, mentre a Mayerling l’arciduca Rodolfo si era dato la morte insieme alla sua amante nel 1889. Dunque, anche in questo caso l’epilogo tragico è già inscritto nell’inizio e non esiste alcuna possibilità di sottrarvisi. Di qui un’altra narrazione chiusa, un’altra storia senza via d’uscita. La corte, dal canto suo, fa da sfondo alla relazione tra Francesco e Sophie, ostacolandone le sorti ed ereditando per certi versi il ruolo del palcoscenico: luogo della ritualità, ovvero della ripetizione/riproduzione, essa costringe a indossare maschere, a recitare parti e a esibirsi dinanzi a spettatori estranei. Così in una scalinata – oggetto ophulsiano per eccellenza – può prendere corpo l’etichetta nemica dei legami disinteressati (il lignaggio della contessa non le consente di salirla al braccio dell’uomo amato) e il pavimento di un salone regale può tramutarsi da scacchiera su cui posizionare ospiti internazionali in una su cui posare le bare dei consorti. E i movimenti della mdp stanno lì a sottolinearlo, con la medesima precisione con la quale esaltano le ridicole frenesie o le assurde cerimonie della vita di corte. Ma Da Mayerling a Sarajevo rimane altresì sotteso da un messaggio politico forte, esemplato dal progressismo di Francesco Ferdinando, che ha un peso notevole nella trama, e indirizzato a proporre i risvolti violenti (illiberali) dell’impero asburgico come prodromi (se non allegorie) dell’orrore novecentesco. Aspetto che forse viene reso in maniera troppo semplicistica, cosa che rientra tra i difetti della pellicola, ma sulla cui responsabilità autoriale non c’è da giurare, in quanto con ogni probabilità alla fase di edizione il nostro non riuscì nemmeno a partecipare.
Da poco in possesso della cittadinanza francese, Ophuls deve arruolarsi e da arruolato inizia a girare “sul campo” un film sulla Legione Straniera, con veri soldati invitati a cantare la Marsigliese per il rito dell’alzabandiera, che pare sia rimasto l’unico frammento impresso su celluloide. Ma la nuova patria è presto abbandonata per forza di cose: Max si sottrae alla Gestapo e con la famiglia arriva a Zurigo, assieme alla compagnia dell’attore Louis Jouvet, dove dirige in teatro il Romeo e Giulietta di Shakespeare e si imbarca nel progetto di un lungometraggio chiamato L’école des femmes (1940). Dalle testimonianze giunteci, una sorta di live della commedia di Molière messa in scena proprio dalla compagnia di Jouvet. Anche questa iniziativa, però, si arena immediatamente e sembra che a causare il precoce abbandono del produttore siano state le eterodosse intenzioni del regista, che aveva in mente di tallonare gli interpreti fin dietro le quinte. Avrebbe così continuato la sua ricerca sull’illusione dello spettacolo, ma l’America lo attendeva.

Regista in esilio

L’arrivo ad Hollywood significò per Ophuls un’opportunità proficua, se si riflette nei termini di un’evoluzione stilistica rinfocolata dal confronto con un sistema diverso quale quello degli studios, ma allo stesso tempo generò un inevitabile spaesamento, in particolare al principio. Bisognava in sostanza ricominciare da zero o almeno valorizzare la carriera precedente, altrimenti incapace di assicurargli la stima dei produttori californiani. Appunto con tale obiettivo, egli stese una autobiografia (Spiel im Dasein, da noi tradotta come Gioco la vita) cui affidò il compito di pubblicizzare il proprio percorso artistico e professionale, al punto che spesso se ne parla come del sostitutivo di un curriculum vitae. Il libro forse fece il suo effetto, perché nel ’46, dopo alcuni anni di inattività, Preston Sturges gli fa ottenere la regia di La vendicatrice (Vendetta), riduzione della Colomba di Mérimeée finanziata da Howard Hughes in persona. Purtroppo, però, questa prima esperienza non si rivela molto fortunata e il progetto gli viene subito tolto dalle mani, per poi subire una staffetta alquanto dinamica (dopo di lui Sturges, Stuart Heisler, Hughes e Mel Ferrer, che firma la copia presentata in sala soltanto nel ’50).
Ha un buon esito, invece, la collaborazione con un’altra figura di spicco dell’industria hollywoodiana, Douglas Fairbanks Jr., figlio dell’omonimo divo dell’era del muto ricordato come icona dei film di cappa e spada (da “Robin Hood” a “I tre moschettieri”). E sembrerà uno scherzo, ma Re in esilio (The Exile, 1947) appartiene proprio a tale filone, caricandosi già così di una sottesa valenza metacinematografica, oltre che accidentalmente autobiografica. Se, infatti, affidare al figlio d’arte un ruolo che avrebbe potuto tranquillamente essere del padre vuol dire drizzare le antenne dello spettatore verso un sottotesto extra-finzionale (che perciò sovraespone la finzione), la scelta del soggetto pare dettata da una volontà di rispecchiamento. Non solo l’esilio che campeggia nel titolo e che rima con la condizione del nostro, per una sorta di crudele ironia, ma anche la materia a tema storico che crea una continuità con Da Mayerling a Sarajevo. Dal Novecento si passa, però, al Seicento e dall’impero austro-ungarico alla monarchia britannica, perché il sovrano espatriato che ha il volto di Fairbanks Jr. è Carlo II Stuart, riparato in Olanda al tempo della parentesi repubblicana dei Cromwell. Lo osserviamo prima inseguito dalle “teste rotonde”, poi in incognito accanto a una bella locandiera di campagna e infine richiamato sul trono dal parlamento.
Una “favola d’avventura”, come recita la didascalia proemiale, cui Ophuls riesce a conferire profondità e latenze peculiari della sua sensibilità di cineasta, nonostante le potenziali difficoltà insite nel relazionarsi con la macchina produttiva losangelina. Anzi, si direbbe che per spirito di sopravvivenza egli abbia subito avviato un aggiornamento del proprio metodo di scrittura filmica8, indispensabile per il profilarsi della stagione dei capolavori degli anni Cinquanta. Ed ecco i décors segnatamente teatrali offerti dalle ricostruzioni in studio o il viraggio in seppia di decine di copie a enfatizzare l’atmosfera fiabesca. Al di là dell’apparato tecnico-artigianale, prosegue inoltre l’esplorazione circa il dissidio amore-società, che fa di Carlo II un fratello di Francesco Ferdinando, con cui condivide lo stato di “sovrano sacrificato/sacrificale”9 schiavo del proprio rango. Per lui l’idillio olandese ha infatti in serbo un tenero innamoramento, nel riparo della vita semplice tra i campi di tulipani e i mulini a vento, ma nemmeno per lui l’isola felice (altrove non così tangibilmente identificata) è impermeabile alle minacce esterne, ossia alle persecuzioni provenienti dal passato o da una sorte inalienabile.

Se in Re in esilio non mancano alcune forzature, causate principalmente dall’appartenenza a un codice di genere che imponeva consuetudini lontane dal gusto ophulsiano, l’opera successiva si configura invece come uno dei suoi lavori più alti e anche più noti. Lettera da una sconosciuta (Letter from an Unknown Woman, 1948) rappresenta peraltro il punto decisivo di confluenza di molti aspetti tensivi caratterizzanti una filmografia ormai quasi ventennale, cosa accentuata dall’incredibile compattezza dell’intera produzione del nostro, che si può intendere come un corpo unico, un itinerario coerente e variato insieme. Dopo Goethe e prima di Schnitzler e Maupassant è lo scrittore austriaco Stefan Zweig a prestare le proprie pagine per una trasposizione dalla carta alla pellicola, nello specifico quelle della novella omonima pubblicata nel 1922. Si comincia dalla fine, come già accaduto, con la lettera del titolo che nella notte arriva tra le mani del pianista Stefan, in procinto di sottrarsi a un duello in programma per l’alba. Il mittente è anonimo ma i fogli recano l’intestazione di un ospedale e l’incipit recita: “quando leggerai queste parole forse sarò morta”. Alla lettura mentale dell’uomo si sovrappone una voce femminile fuori campo e immediatamente le parole pronunciate danno l’abbrivo al primo di una serie di flashback, che introducono e punteggiano, intervallati da brevi frazioni che ce lo mostrano chino sulla scrivania a lume di lampada. La donna “narrante” si chiama Lisa e alla sua prima apparizione (di fantasma) sullo schermo è un’adolescente che con stupore segue il trasloco del nuovo vicino di casa musicista, di cui si infatua e per il quale coltiva una segreta devozione. Dovrà poi lasciare Vienna con la madre e il suo compagno, amareggiata dalle frequentazioni femminili del giovane, ma per ugualmente rifiutare il corteggiatore che il patrigno le procurerà a Linz. Cresciuta e tornata a Vienna, la vediamo fare l’indossatrice in una sartoria e fermarsi ogni sera sotto la finestra dell’ormai famoso concertista, fino a imbattersi in lui e a trascorrere insieme ore felici, senza tuttavia essere riconosciuta. Il sogno dura poco però, i due si perdono di nuovo e Lisa ha un figlio da quell’uomo, svanito nel nulla dopo un viaggio in Italia. Ancora un’ellissi e la ritroviamo sposata a un aristocratico di mezza età per garantire una vita decorosa al bambino: di lì l’ultimo incontro con il suo vero padre per cui è pronta a perdere tutto, salvo accorgersi che pure questa volta non c’è alcuna intima corrispondenza (di memoria!), ma sarà troppo tardi e l’ennesima illusione avrà già accidentalmente condannato a morire lei e il fanciullo. A Stefan, che si è rinvenuto protagonista della lettera incompiuta, non resta che salire in carrozza e sottomettersi finalmente consapevole al duello cui lo attende il marito di Lisa.
La straordinaria densità dei novanta minuti in cui il film si esaurisce rende qualsiasi analisi parziale e provvisoria, ma vale la pena tentare un regesto dei nuclei portanti, così da capire meglio parimenti la sua collocazione nevralgica nel cammino di Ophuls-autore. A partire dalla “scrittura intransitiva”, per prendere in prestito una categoria applicata a quei romanzi del Novecento in cui la rappresentazione tende a “inarcarsi sopra i propri oggetti, inventa strategie auto-riflessive (…): pone cioè il problema di sé come strumento, della propria presunta «purezza»; e infine si interroga sulle garanzie di verità offerte dai linguaggi codificati, denunzia i limiti delle tecniche e delle dottrine naturalistiche”10. Ebbene, se questa definizione può adattarsi a Lettera da una sconosciuta come a gran parte dei film del regista, qui l’inarcatura avviene in modo più subdolo, perché mancano palesi disvelamenti di finzione, ma l’intera fabula si regge su un filo sottile di verosimiglianza. Quanto possiamo esser certi che le immagini dei flashback coincidano con le parole della lettera? E anche se si accetta che esse siano coincidenti in toto, mai potranno esserlo fino in fondo, in virtù di un’inestinguibile difformità tra i rispettivi canali. In tal senso, la vicenda ricostruita e mostrata nelle analessi viene raccontata mediante le inquadrature, i tagli di montaggio, le luci ecc.; insomma possiede un grado di finzionalità elevato rispetto al presente di Stefan seduto alla scrivania, che è l’unica realtà vera, ma che allo stesso tempo riceve senso da quel passato. In base a un simile cortocircuito, Lisa diventa allora il fantasma che appare come tale nel segmento conclusivo.



Ma giocata su un’illusorietà confinante con l’artificiosità è la stessa materia melodrammatica, a suggerire come i due piani comunichino. Si tratta in effetti di una storia d’amore costruita da una sola delle parti in causa, con esperienze condivise all’insegna del fasullo (i fondali dipinti che scorrono dal finestrino del finto vagone ferroviario alle giostre del Prater, ma anche lo schienale a mo’ di spalliera da letto matrimoniale nel caffè, se non l’orchestra di donne in abiti maschili al salone da ballo). E ciò pure in funzione di uno “scompenso dello sguardo”11 che Ophuls magistralmente mette in scena ad esempio nella sequenza della scala. Questo oggetto-feticcio, ogni volta risemantizzato, fa da campo d’azione per la delusione della Lisa sedicenne, che scopre il suo sospirare tradito, oltre che da crudele cornice al suo inconsapevole divenire preda/vittima, quando si troverà lei a salire i gradini al fianco di Stefan, mentre resterà la mdp a spiarla dal medesimo angolo di osservazione. Il ritorno della sequenza della scala, d’altronde, rinvia al nesso tra ripetizione e prigionia, nevralgico nel suo cinema precedente e successivo, se il personaggio interpretato da Joan Fontaine tiene in piedi la propria illusione riattivandola nel tempo senza alterazioni. Così, essa crollerà convertendosi in una tragedia in attesa soltanto di avverarsi, ma già circolante nel sottosuolo della sua negazione.

Ritorno a casa, il volo verso l'avanguardia

Al ritorno in Europa e nella sua patria di elezione, la Francia, Ophüls è come se avesse ormai acquisito una consapevolezza dei propri mezzi artistici pressoché totale. E non si tratta soltanto di possedere i segreti della macchina-cinema alla perfezione o padroneggiare il set con un'autorevolezza che lo distinguono da qualsiasi altro cineasta suo contemporaneo; parliamo di una consapevolezza che è anche piena accettazione della propria concezione del mondo, totale coscienza dei limiti e delle possibilità della vita terrena. Il suo approccio alla Settima arte, da qui fino alla fine, si arricchirà di una filosofia di vita in grado di rendere denso di significato qualsiasi movimento di macchina, ogni dettaglio compreso nelle sue inquadrature, già di per sé ricche di spunti di riflessione. 
Il piacere e l'amore (La Ronde, 1950) è forse l'apice di tutta la carriera del Nostro, il punto di non ritorno di un percorso artistico volto ad astrarre dal contingente le proprie convinzioni, la propria idea di esistenza, un personale e unico concetto di cinema circolare che, in questo caso, giunge a una sublimazione assoluta persino nel titolo dell'opera. Nelle dieci storie d'amore presentate in una Vienna di primo Novencento, ancora una volta perfettamente ricostruita sul set grazie a un impressionante lavoro scenografico, Ophüls porta a compimento un percorso nel quale torna a farsi sentire una delle frasi da lui citate e che meglio lo identificano come intellettuale prestato al cinema: “Adoro il passato. È molto più confortante del presente e più certo del futuro”. Sembrerebbe quasi una provocazione una frase del genere, se pronunciata da un uomo costretto a non avere una casa vera e propria perché in fuga dal regime e dalla censura, eppure il passato cui guarda Ophüls, ancora una volta, è un ideale (non) luogo, la capitale dell'impero asburgico, dove la cultura esaltava le emozioni degli esseri umani, dove musica e teatro erano le ideali cornici per storie d'amore travolgenti, sentimenti inarrestabili e anche drammi provocati dal cuore.



Il piacere e l'amore segna il ritorno al teatro di Schnitzler, stavolta in versione di commedia, e attraverso quella sua apparente vacuità contribuisce a trasformare il film nel vero manifesto artistico del regista. Le cinque donne e i cinque uomini che, come la giostra che vediamo nell'incipit mossa dal presentatore Walbrook, girano in tondo scambiandosi i momenti di passione in un effetto-cerchio che riporta fino alla ragazza di strada da cui tutto comincia, sono protagonisti loro malgrado: Ophüls li riprende per i minuti necessari a mettere in scena un corteggiamento, un eccesso emotivo, un fugace atto d'amore, privo di conseguenze e senza legami. È un'opera rivoluzionaria: agli inizi degli anni 50, un autore mette in scena le due facce del sentimento di amore, senza timore di porne in evidenza, con una levità sconcertante, tutta l'ipocrisia comune a ogni epoca. I sentimenti di cui parla Il piacere e l'amore sono puramente istintivi, irrazionali, egoistici nel loro esprimersi nell'indifferenza di provocare sofferenza o dispiacere a qualcun altro. Non c'è tormento nel tradimento o nel godimento, secondo Ophüls: è una pulsione alla vitalità, una mossa che un uomo o una donna compiono verso un'azione che li faccia sentire vivi, capaci di provare emozioni. A proposito di questo film, Jacques Rivette descrisse Ophüls come colpito da una maledizione: l'apparente superficialità dei personaggi rischiava di renderlo incompreso ai critici e agli intellettuali; ma il fatto stesso che egli riprendesse con la sua macchina da presa la vacuità stessa di un mondo in decadenza poteva farlo accusare dell'esatto contrario: un cineasta, insomma, compiaciuto delle sue stesse convinzioni, un regista pesante, per dirla proprio come Rivette.
Che cosa è cambiato rispetto al filmaker che aveva firmato opere come Amanti folliYoshiwara, il quartiere delle geishe o Lettera da una sconosciuta? Quella propensione al melodramma lacerante, quella messa in scena delle relazioni amorose tormentate e, spesso, private anche del lieto fine? C'è uno scarto espressivo netto, in effetti. Ed è un'inversione che si fa anche visiva, con un'esaltazione dei trucchi del proprio cinema che trova nel set francese un luogo magico. La capacità di riprodurre l'atmosfera viennese di inizio secolo, in Ophüls, non è semplice arte della rievocazione storica o culturale; Il piacere e l'amore non è solo un film ambientato in quell'epoca, è un film di quell'epoca. La fumosità dell'immagine, l'utilizzo severo del montaggio e, soprattutto, la scrittura della sceneggiatura sono elementi che contribuiscono a un'immersione reale in un mondo appartenente al passato. La modernità dell'opera, invece, è segnata dal virtuosismo tecnico del regista, da quella sua ossessione per una cinepresa che debba marcare la sua presenza in scena, anziché scomparire. I movimenti circolari attorno alle coppie in scena e i piani sequenza insistiti sono indizi di una propensione al metalinguismo che fanno di Ophüls, almeno in questo caso, un autore che guarda con interesse all'avanguardia pura. Quello che mettiamo in scena è reale, è condivisibile da chiunque, certo; ma, ci dice il cineasta tedesco, è pur sempre un trucco, una scena pianificata a uso e consumo del pubblico. Ecco allora l'introduzione del presentatore, vero e proprio elemento di rottura, che introduce i personaggi, li accompagna nei loro tormenti e interviene irrompendo nel flusso narrativo per sottolineare la natura di finzione delle vicende narrate (a tal proposito la scena in cui “salta” l'immagine per via del suo intervento per censurare la pellicola è particolarmente significativo). E il finale, con la rivelazione del set cinematografico, è il momento culminante di questo impasto prodigioso, fra sentimenti e realtà quotidiana da una parte e arte e uso dell'immagine dall'altra.

Se il piacere è facile, la felicità di certo non è felice”. Un controsenso, sicuramente, ma anche la morale che il narratore fuori campo trae infine dai tre episodi di cui si struttura Il piacere (Le Plaisir, 1952), nuovo, ambizioso capitolo della carriera di Ophüls che segna, oltretutto, un netto scarto rispetto al percorso intrapreso fino al capolavoro precedente. Un film, questo, scollegato nel tempo e nello spazio dai luoghi cari al Nostro, un’opera che sublima nelle immagini e nelle parole una filosofia di vita e di arte, rinunciando in questo caso a trovare appigli sicuri, approdi già conosciuti. Anche la fonte letteraria, per cominciare, è diversa: abbandonato l’amato Schnitzler, Ophüls si cimenta con tre novelle tratte dalla sterminata produzione di Guy de Maupassant, plasmandone la materia e rendendola assolutamente ophulsiana nella resa finale. È un lavoro venato di un istrionismo registico senza precedenti, corredato da una decisa ironia nel capovolgere le aspettative dello spettatore: intitolato Il piacere, si scopre infine che di questo sentimento se ne scorge ben poco nelle vicende narrate o, meglio, esso resta sullo sfondo, come chimera irraggiungibile per quei personaggi che vi aspirano e che invece fanno i conti con attese tradite, aspirazioni troppo alte, pensieri inappropriati.
Insomma, il lungometraggio del 1952 si staglia nella filmografia del cineasta tedesco come un punto di non ritorno. Da una parte si caratterizza per una serie di elementi di novità (dall’ambientazione francese di fine Ottocento alla suddivisione in episodi), ma dall’altro esalta quelle convinzioni profondamente malinconiche che avevano caratterizzato tutti i più grandi capolavori della carriera del regista fino a quel momento. Piacere come obiettivo ideale, ma anche come elemento che sprigiona sentimenti opposti: il rimpianto per il passato, la tenerezza per il ricordo, la delusione dopo l’innamoramento. Nei tre capitoli si nota un andamento ondulato: il racconto non procede in linea retta, ma contiene due bassi e un acuto. I due bassi sono i  micro-frammenti di inizio e fine film; “La maschera” e “La modella” sono entrambi, a loro modo, racconti caratterizzati da un’atmosfera di morte e decadenza, sia che si tratti del vecchio che si traveste da giovane, lasciando la moglie in ansia a casa ogni sera e andando a ballare nei cabaret parigini per ripercorrere quei sentieri battuti anni prima, sia che si tratti della drammatica rottura di una relazione passionale, tra una modella e un artista, con il secondo che prima la seduce e poi la abbandona, e con quella che, per tutta risposta, tenta il suicidio. Due possibilità parallele di declinare il senso del ricordo, dell'istante perduto, la giovinezza e l'innamoramento, due momenti della vita magnifici ma fuggevoli.
L'episodio centrale del film, “La casa Tellier”, occupa invece per durata uno spazio che si potrebbe definire un film vero e proprio all'interno dell'opera nel suo complesso. È un racconto sensibilmente diverso dagli altri due, dove domina un'atmosfera delicata di impalpabile armonia. Sarà per quella macchina da presa che si allunga in piani sequenza incredibili e carrellate senza fine (le scenografie al naturale dovettero essere allungate con innesti artificiali da parte di Jean d'Eaubonne e Robert Christidès proprio per soddisfare il bisogno di profondità di Ophüls) o per gli straordinari paesaggi bucolici normanni, ma mai come in questo frammento della filmografia del cineasta tedesco l'alto e il basso, il leggero e il drammatico, l'esaltazione del piacere e la responsabilità del proprio ruolo nel mondo si sono compenetrati con tanta facilità e naturalezza.
Nella storia della tenutaria di un bordello che parte insieme a tutte le sue ragazze per la cittadina dove vive il fratello falegname, la cui figlia sta per fare la Prima comunione, c'è un condensato di quello stile ophulsiano nel raccontare l'esistenza: non succede nulla, eppure succede tutto. Il sacro e il profano che si sovrappongono, le “pensionanti” della Maison Tellier che, una volta arrivate in campagna, riassaporano con fuggevole melanconia i piaceri della propria infanzia, annegando i ricordi in istanti di contemplazione per la spiritualità della situazione, oppure ancora la candida attrazione tra il padrone di casa (interpretato da un incredibile Jean Gabin) e la giovane Rosa, una delle ragazze più sensibili. 
Ophüls recupera tutto il patrimonio di eleganza tecnica e di virtuosismo registico che aveva utilizzato già ne Il piacere e l'amore, stavolta facendone un mezzo e non più un fine: quella funambolica abilità nella messa in scena diventa lo strumento organizzativo per la materia narrativa. I dettagli suggestivi si moltiplicano: il “grazie” pronunciato gentilmente da Rosa dopo che Joseph si è scusato per aver esagerato con le attenzioni per il troppo vino bevuto; oppure ancora lo sguardo incantato del rude falegname che osserva ammirato la ragazza canticchiare una canzone dal gusto nostalgico sulla via del ritorno; o ancora, il dialogo tra i due in cui lui dice “Vi verrò a trovare, Rosa” e lei risponde, dolcemente, “Sì, ma non fate sciocchezze”. Il piacere, allora, a differenza che nella pellicola precedente, non è più meramente epidermico, istintivo, carnale. Stavolta, ma il discorso vale anche per gli altri due frammenti dell'opera, è un sentimento di possibile via d'uscita, un miraggio che balena nelle vite dei protagonisti, che si tratti del ritorno alla giovinezza, all'innocenza o alla fase dell'innamoramento. La morale di Ophüls rimane sempre a uno stadio di suggerimento, caratteristica che ha reso evanescente il suo cinema agli occhi dei critici suoi contemporanei più distratti. In realtà, il senso più profondo di queste esistenze, combattute così elegantemente fra slanci emotivi e senso di responsabilità, resta sottotraccia per favorire l'arte del racconto, della narrazione, del puro piacere di osservare e inquadrare vicissitudini umane. Non è casuale, per questo motivo, la scelta di Maupassant come fonte letteraria, uno dei padri del racconto moderno, ideale ispirazione per questo viaggio ad episodi.

L'universo creato da Ophüls, giunto ormai alla metà degli anni 50, è un monolite che possiede una coerenza e una capacità di resistere alle pressioni produttive invidiabili. Lo stile è ormai un marchio di fabbrica, l'approccio al set anche, la personale concezione del mondo riflette ormai una disillusione che è pari alla consapevolezza di ciò che davvero conta e di ciò che invece è trascurabile. A un certo punto de I gioielli di madame de... (Madame de..., 1953), il personaggio interpretato da Charles Boyer, il marito tradito e al tempo stesso infedele, pronuncia rivolto all'infelice moglie una frase molto significativa: “La nostra felicità coniugale sta nella nostra immagine. Solo superficialmente è superficiale”. È vero, è un giudizio su quella relazione costruita solo di convenzioni sociali e di consuetudini che si ripetono stancamente, ma è la stessa arte di Ophüls che, ancora una volta, fa i conti con questo punto di vista critico: l'apparente vacuità del mondo che ritrae, la fuggevolezza di quei sentimenti così lievi, tutto, in contrapposizione con lo sfarzo di un mondo dell'alta borghesia di inizio secolo, contribuiva a ritenerlo un cantore del supefluo; ma sotto la patina dello sfarzo visivo, amplificato e per nulla temperato dai movimenti instancabili della macchina da presa, c'è in realtà una riflessione sull'esistenza stessa. Quel mondo della Belle Époque francese, così come gli ultimi decenni dell'impero asburgico in altre occasioni, diventa sineddoche di un'umanità giunta all'ultimo giro di giostra, il ballo definitivo delle proprie emozioni, sul punto di crollare insieme a un mondo intero che si era convinto di essere eterno.



Ossessionato dalla circolarità del racconto, in modo tale da sottolineare ancora una volta l'importanza del caso nelle scelte degli uomini e delle donne, Ophüls stavolta firma un'opera che, con fare quasi compiaciuto, si prende il tempo per trasformarsi, minuto dopo minuto. La commedia esile, effimera con cui si apre la vicenda della contessa decisa a vendere di nascosto gli orecchini regalati dal marito, il generale André, si trasforma in un melodramma straziante dove l'amore e la passione, ancora una volta, si intromettono in esistenze tutto sommato sotto controllo. E allora, la farsa diventa tragedia e Ophüls riconosce anche a chi non brilla per particolare profondità d'animo il diritto di impazzire per qualcun altro. È questo che succede a Luisa, interpretata da Danielle Darrieux, quando incontra Fabrizio Donati (Vittorio De Sica), il diplomatico italiano che le riconsegna quegli stessi orecchini, finiti nel frattempo all'altro capo del mondo. È una passione impossibile alla stessa stregua di quella accennata fra madame Rosa e il falegname Joseph ne Il piacere: cambiano gli scenari, il livello sociale dei protagonisti, ma la costante è l'insormontabilità degli ostacoli che impediscono il coronamento di un sogno. Con un controllo stupefacente della materia narrativa, grazie anche a un lavoro più incisivo in sede di sceneggiatura, il regista stavolta fa deflagrare la passione irrefrenabile, porta ad estreme conseguenze l'atto del tradimento, non prima di essersi preso il tempo necessario per inquadrare quella Parigi, quei palazzi, quei balli di gala con quel suo stile diventato negli anni inimitabile. Dalla carrellata iniziale sui vestiti e i gioielli della contessa a quel sofferto e lunghissimo incontro sulla pista da ballo tra i due amanti, arricchito di dissolvenze incrociate, movimenti roteanti della macchina, primi piani insistiti sulle espressioni tormentate, le immagini di Ophüls non sono mai pura esibizione di abilità tecnica: quell'assenza di piani fissi è la trasposizione visiva di un'irrequietezza interiore. È coerenza intellettuale e artistica, prima di tutto, quella che lo spinge a prediligere il movimento alla fissità dell'inquadratura. E ne I gioielli di madame de... tutto ciò assume un significato ancor più incisivo.
Ophüls arriva a una tale maturità che non teme di citare se stesso. Il finale ricalca da vicino quello di Amanti folli, un altro duello, un'altra volta il passato torna a riaffermarsi nonostante paresse archiviato. La granitica persuasione del maestro nel ritorno dell'imponderabile si fa ancora una volta largo e presenta ai protagonisti di una passione osteggiata un drammatico conto: la felicità è qualcosa di passeggero, di inafferrabile, il gusto per il momento da godere dura il tempo di un giro di valzer, come vent'anni prima durava il tempo di una gita in slitta sulla neve nei boschi fuori Vienna. E ancora una volta, la riflessione di Ophüls si concentra sul ruolo della donna in quel mondo ovattato che caratterizzava la vecchia Europa a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo. L'obiettivo dell'autore si concentra sempre su giovani provenienti da ceti sociali bassi oppure con possibilità culturali limitate, come se si volesse moltiplicare l'effetto emotivo del loro coraggio, della loro capacità di sfidare il convenzionale e andare incontro alla sconfitta sentimentale pur di non proseguire in una vita di finzione e di ipocrisia. In questo la Luisa della Darrieux ricorda molto la Christine di Magda Schneider. André Malraux, a proposito dell'adattamento ophulsiano del romanzo breve di Louise Lévèque de Vilmorin, definì il film il ritratto di un incanto disperato, una definizione che, forse, si adatta perfettamente a tutta la parentesi finale in terra francese della carriera del regista tedesco. 

Il capitolo finale della breve esperienza artistica di Ophüls è forse, in assoluto, il suo lavoro più difforme dal resto della filmografia, per una serie innumerevole di ragioni. 
Lola Montès (1955) conserva però sullo sfondo delle vicende messe in scena un elemento caro al regista: ancora una volta, e per l'ultima, la donna protagonista è colei che carica sulle sue spalle il peso di errori non solo suoi, con uno stoicismo assoluto con cui affronta il futuro incerto. Come in Lettera da una sconosciuta, la sofferenza che la protagonista porta con sé è tenuta a freno, imprigionata in un pudore che gli uomini sulla scena, invece, non hanno. Lola, grande ballerina e cortigiana, mette insieme una serie di scelte follemente sbagliate, che la costringono a una vita costantemente precaria, tra un amore deludente e l'altro, tra una forma di sfruttamento della sua persona e l'altra, fino all'amara decisione di fare di se stessa un'attrazione circense, un fenomeno da baraccone in cui le sue avventure (sfortunate) e il suo corpo (non più eccezionale come un tempo) diventano la materia medesima da mettere in mostra su un palcoscenico. È singolare, ma prodigioso, l'equilibrio che si viene a creare tra il contenuto della storia narrata (drammatico e colmo di disillusione) e il tono che invece la macchina da presa mantiene sequenza dopo sequenza. Da una parte situazioni e vicissitudini al limite del tragico, dall'altra un rutilante gioco di immagini, di colori, di movimenti, coreografie, scenografie ipnotiche, ardite scelte stilistiche. Un contrasto che, fondamentalmente, accentua e rivela la reale intenzione di Ophüls: quella di guardare a un'evoluzione della contemporaneità che aveva confuso la società dello spettacolo con la vita vera. Come sostenuto da Bernard Eisenschitz, il cortocircuito visionario messo in atto dall'autore in Lola Montès porta la produzione e la realizzazione del film fino ai limiti dell'autorappresentazione; l'opera di finzione, in altre parole, narra di una vicenda romanzata ambientata nel passato, utilizzando ogni possibile stilema atto a parlare del presente, di quell'industria dell'intrattenimento che, negli anni 50, a giudizio di Ophüls, aveva smarrito ogni codice morale.



Ma Lola Montès è anche un'opera tormentata fino all'inverosimile. La produzione magniloquente, cui il regista non volle rinunciare, portò Ophüls a dei forti contrasti con le società finanziatrici che, infatti, lo costrinserò ad accettare delle decisioni che entravano nel merito della vita del set. Prima di tutto la protagonista, Martine Carol, in quel momento forse il volto più noto dello spettacolo francese, ma che Ophüls giudicava poco strutturata per interpretare una donna così tormentata. Anche il sistema Cinemascope, che era appena esploso nel mondo del cinema, fu osteggiato dall'autore, che temeva di vedere il suo film “ridotto” a una sorta di grande attrazione turistica, visto dal pubblico non tanto per l'intensità del racconto, quanto per l'alto livello di stupore che le immagini panoramiche riuscivano a trasmettere sul grande schermo. C'è a tal proposito un aneddoto che spiega con efficacia sia la tensione durante le riprese, sia anche la forte determinazione di Ophüls a non voler rinunciare alle sue idee ben radicate dentro la sceneggiatura. Per neutralizzare l'effetto di alta gradevolezza del Cinemascope, e annullare di conseguenza la resa finale del fotogramma a largo campo visivo, egli decise di fare uso di alcuni accorgimenti tecnici (come dei mascherini posti sulla lente della cinepresa) per non rendere visibile una parte dell'immagine registrata. Nelle sue intenzioni, infatti, il film era e doveva restare un'opera di confronto umano, uno scontro fra Lola e il mondo maschile, un continuo ed estenuante dialogo teso a trovare una forma di equilibrio. Tutto ciò che di sfarzoso vi era intorno era, appunto, la messa in scena di un microcosmo caratterizzato da distrazione e superficialità: il lusso delle dimore, l'appariscenza degli abiti, i corpi delle ballerine; e poi, ancora, i paesaggi straordinari della Mitteleuropa e infine la funambolica attività del circo diretto dal diabolico Peter Ustinov. Nel circo, metafora di ogni forma di rappresentazione artistica, Ophüls scatena la sua solita mestria registica nelle riprese d'insieme, nelle scene di massa, con carrellate circolari che riproducono per l'occhio dello spettatore la forma del circo stesso, fino all'uso di movimenti di macchina acrobatici che riproducono la spettacolarità delle mosse medesime di un attore circense. 
Con una struttura narrativa ardita, fatta di capitoli che guardano al passato attraverso lunghi flashback, introdotti dalla voce possente dell'impresario Ustinov, le vicende della vita dissoluta e fallimentare di Lola sono scandite, ciascuna da un'esibizione sotto il tendone. Un'opera ambiziosa, sconsiderata, senza freni inibitori, capace di confrontarsi senza timidezza con le innovazioni tecniche dell'epoca. Resta, sui titoli di coda, l'amarezza di constatare il prodigioso percorso di Max Ophüls, partito dal mondo teutonico e in fuga dalla censura e dalla persecuzione, esploso a Hollywood, tornato nella vecchia Europa con un carico di esperienza e di abilità tecnica che, a metà degli anni 50, non avevano pari nel continente. Amarezza perché, spentosi due anni dopo la fine delle riprese di Lola Montès, ha portato via con sé non solo il grande intellettuale che era in quel preciso momento, ma anche il grande creatore di storie che sarebbe stato, all'alba degli anni 60.


1   A questo proposito si veda P. Valentini, La voce e il volto: scambi e contraffazioni in La signora di tuttiin Il piacere e il disincanto nel cinema di Max Ophuls, a cura di L. De Giusti e L. Giuliani, Milano, Editrice Il Castoro, 2003, pp. 55-66.
2   Il piacere e il disincanto nel cinema di Max Ophuls, cit., p. 127.
3   M. Mancini, Max Ophüls, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 50.
4   Pregevole la tecnica adottata in questo caso per la resa dei flashback: oltre al viraggio rosso, blu e seppia con cui si distinguono i tre inserti, Ophuls sfrutta lo scorrere del paesaggio dal finestrino di un’auto in corsa come effetto di transizione verso il flash e viceversa.
5   Su tutto, un ”orientalismo da paccottiglia” che si può attribuire al rispetto da parte di Ophuls delle “regole delle pratiche ‘basse’” (Il Morandini: dizionario dei film 2006, Bologna, Zanichelli, 2005, p. 1553).
6   La presenza di queste reti crea, peraltro, un’apparente incongruenza poiché a un certo punto si rivelano fisse nonostante la mdp si muova, come fossero aggiunte con un trucco in sede di montaggio. Ambiguità che se è sicuramente accentuata dall’inclinazione ophulsiana a proporre disvelamenti di finzione, può risalire altrettanto a un intervento censorio, d’altro canto testimoniato come dilagante (su questa pellicola) dallo stesso regista. Cfr. M. Mancini, Max Ophüls, cit., pp. 64-66.
7   Il cineasta americano teneva a puntualizzare che, se proprio le sue note carrellate lunghe dovessero essere ricondotte a un modello, quello era Max Ophuls e non Orson Welles. Cfr. Altman racconta Altman, a cura di D. Thompson, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 163.
8   Cfr. L. Bacher, Max Ophuls a Hollywood: adattamento, sovversione e ricaduta sul finale europeo, in Il piacere e il disincanto nel cinema di Max Ophuls, cit., pp. 81-91.
9   S. White, La mascolinità (che in)tossica nei film di Max Ophuls, ivi, p. 121.
10 G. Mazzacurati, Una geografia del romanzo: dal continente Proust all’arcipelago Musil, in Musil contro Proust, Milano, Shakespeare & Company, 1981, p. 13, poi in Id., Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 18. Si ricordi, per inciso, che della     narrativa e del teatro “intransitivi” di Luigi Pirandello Ophuls fu attento lettore (nel ’25 portò sul palco i Sei personaggi in cerca d’autore, recitando la parte del capocomico) e non è da sottovalutare l’influenza che lo scrittore siciliano può aver esercitato sulla sua cinematografia.
11 M. Mancini, Max Ophüls, cit., p. 79.





Max Ophüls