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La serie israeliana che è riuscita a trasportare il pubblico occidentale nel piccolo mondo antico degli ebrei ultraortodossi di Geula

Galeotta fu “Unorthodox”. Molti spettatori sono infatti incappati nel mondo di “Shtisel” proprio dopo aver fruito della struggente miniserie di casa Netflix, che in quattro episodi inscena la fuga di Esther Shapiro da un ghetto ebreo ultra-ortodosso di New York e vede la giovane braccata dai perfidi familiari fino a Berlino, sua oasi di libertà e personale rivoluzione.
In realtà le due serie condividono soltanto l’attrice protagonista, la minuta e formidabile Shira Haas, e l’appartenenza dei loro protagonisti a una comunità ebrea ultra-ortodossa. “Unorthodox” è infatti quasi una serie di denuncia, dove gli ultra-ortodossi e il loro microsistema ancorato a desuete leggi secolari fanno - anche con qualche semplificazione di troppo - la parte dei cattivi, di uno stolido nemico incapace di concepire il libero arbitrio nel nome di un Dio crudele e antico. L’approccio di “Shtisel”, invece, non potrebbe essere più diverso, tanto che chi si aspettava vicende sulla falsariga della miniserie è rimasto deluso, abbandonandola probabilmente dopo un pugno di episodi. Chi invece è andato avanti si è trovato al cospetto di una visione immersiva e totalizzante che non ha precedenti nella storia del mondo seriale.

Nel cuore di Geula

Entrambi provenienti da famiglie ultra-ortodosse, i due creatori di “Shtisel”, Ori Elon e Yehonatan Indursky, con questa serie prodotta dalla casa israeliana Yes Oh ci proiettano infatti nel cuore di Geula, un quartiere Haredi di Gerusalemme. Per molti spettatori, occidentali e non, i primi episodi di “Shtisel” sono come una doccia fredda: si viene infatti catapultati in circostanze del tutto impermeabili alla modernità e a tutte le sue implicazioni. Quella offerta dalla serie è infatti una visuale sul mondo Haredi incontaminata, completamente scevra del filtro critico dell'oggi e dei pregiudizi del laicismo occidentale. Superato lo scoglio di un inizio di serie impervio, soprattutto a causa dei ritmi estremamente dilatati di un contesto che ci viene presentato nella sua essenza più pura, “Shtisel” riesce a fare entrare chi la guarda in una realtà distante anni luce dalla nostra e nella sua poesia senza tempo.
Le strade del quartiere in cui si aggirano gli Haredi sono inondate di luce, catturata da una fotografia attenta a rimanere sempre realista. Sembra di sentirne quasi il tepore, osservando rilucere i raggi del sole mediorientale sulla pelle dei protagonisti. Piuttosto che moderni smartphone, gli abitanti del quartiere impugnano vecchi Motorola modello Startac e copie della torah.

Folle di uomini dalle lunghe basette attorcigliate e con il viso adombrato dai voluminosi shtreimel (il copricapo tipico della comunità) si aggirano pacifici per le strade, diretti verso la sinagoga di turno o un ristorante dove scherzare placidamente con gli amici. Sono le donne le più operose, intente a mandare avanti la casa o l’attività di famiglia, mentre gli uomini studiano ossessivamente il talmud.
Anche una pratica piuttosto controversa come gli appuntamenti al buio per i single ultra-ortodossi in là con gli anni ci viene mostrata dalla serie senza alcun intento critico. Fa parte della vita di Geula, allo stesso modo delle omelette servite a colazione e del pane azzimo inzuppato nell'hummus di ceci. Tutto del quartiere ci viene mostrato senza alcuna sorta di spettacolarizzazione, e i personaggi, ai quali sarà impossibile non affezionarsi, sembrano muoversi al ritmo lentissimo e anticonvenzionale della colonna sonora avvolgente e devota al minimalismo di Avi Belleli.

Nel cuore di una famiglia

A una rappresentazione anti-spettacolare, e proprio per questo convincente, di quello che dopo la visione di “Shtisel” sarà difficile continuare a chiamare ghetto, corrisponde una sceneggiatura altrettanto “azzima”. Almeno fino alla terza e ultima stagione, infatti, quella della famiglia “Shtisel” è una “non storia”.
Lo strumento principale di narrazione sono le vicende di una famiglia "normale", che vive quella realtà senza troppi sussulti. Al centro della famiglia patriarcale yddish si pone Shulem Shtisel (un imperioso Dov Glickman), rabbino e maestro di Geula, punto cardine della società ultraortodossa locale. Lo conosceremo mentre battibecca con il dolcissimo Akiva (Michael Aloni), l’unico dei suoi figli che vive ancora con lui, perché di sposarsi e procreare proprio non ne vuole sapere. Alle rispettabili e gradevoli ragazze che gli vengono proposte dal combinatore di matrimoni locale, preferisce prima una vedova e poi sua cugina Libbi (Hadas Yaron), figlia di Nuckhem (Sasson Gabai), il fratello burbero e affarista di Shulem, al quale il patriarca non può perdonare di essere il figlio preferito della mamma Malka (Lea Koenig). Akiva non ne vuole sapere neanche di lavorare o di studiare il talmud, o perlomeno non ne vuole sapere in una misura ritenuta giusta dal severo padre, di contro ama dipingere e si guadagna da vivere plagiando famosi quadri per un rivenditore locale.

Attorno al conflitto generazionale tra Shulem e Akiva, tratteggiato in modo molto realista e con punte di comicità, si muovono numerosi altri personaggi. Una girandola variegata e intrigante di personalità delle quali ci viene consentito di guardare segretamente le vite, come dallo spioncino di una serratura. Dall’altra parte della porta c’è Giti Weiss (Neta Riskin), ad esempio, l’operosa figlia di Shulem, che deve mandare avanti casa e baracca nel pieno di una crisi coniugale con suo marito Lippe (Zohar Strauss), a sua volta nel mezzo di un momento di smarrimento di fede e obiettivi. C’è poi loro figlia Ruchami (la Shira Haas condivisa con “Unorthodox”), un’adolescente atipica, che di tutti personaggi di “Shtisel” è quello che finisce con l’impersonare l’idea di fede più pura possibile.
Non mancano poi una serie di personaggi più lontani dal nucleo familiare degli Shtisel, che contribuiscono ad affrescare una comunità multiforme, lontanissima dalla visione piatta e stereotipata offerta di consueto della lente occidentale: ecco allora gli amici perditempo di Akiva, l’amorevole segretaria della scuola di Shulem e tanti, tantissimi altri volti.

Nel cuore di una fede

Nel mezzo delle vicende di una famiglia che fa parte di una comunità che fonda ogni sua ritualità e interrelazione su una visione della religione così antica e centrale, non può non esservi il rapporto dei personaggi con la religione. Anche la fede in “Shtisel” non è monodimensionale e assolutizzata come si potrebbe tendere a credere. Proprio per il suo ruolo così centrale, il focus della sceneggiatura è spesso puntato sui piccoli o grandi conflitti che gli Shtisel e il loro cerchio sociale esperiscono nei suoi confronti. Si spazia da piccole trasgressioni dei protocolli ultraortodossi, come quella della vecchia Malka, che approfitta del televisore della casa di riposo per guardare “Beautiful” e commentarlo con le simpatiche commensali, a vere e proprie crisi, come quella di Lippe, che a causa dello smarrimento della fede arriva a privarsi per lungo tempo della famiglia. Il trasognato e indolente Akiva, invece, non mette mai in dubbio Dio, ma il suo cuore e la sua fantasia lo portano a ballonzolare perennemente sulla corda che delimita quanto, secondo le convenzioni Haredi, è giusto o sbagliato, scatenando le reazioni ora violente ora comprensive del dogmatico padre Shulem.

Contrariamente a quanto accadrebbe nella società occidentale, in cui l’età puberale è per antonomasia simbolo di ribellione e di rifiuto dell'autorità, in “Shtisel” sono proprio l’adolescente Ruchami e il promesso sposo Hanina a incarnare la fede cieca, il totale abbandono a Dio e al suo disegno. Quando i due decidono di sposarsi, sono così giovani e così devoti alle scritture da sollevare i dubbi sulla razionalità della scelta anche nella protettiva e a sua volta devota Giti. Ruchami confida così tanto in Dio da mettere in dubbio le parole dei medici e pur di dare alla luce un figlio metterà a rischio la sua stessa giovane vita. La tragica situazione farà riscoprire la fede anche al padre Lippe, che, spaventato a morte e impotente, non potrà che affidarsi nuovamente alla preghiera e alla supplica, dando così vita a una delle scene più potenti e struggenti della terza stagione.

Nel cuore di una serie perfetta

Equilibrio e purezza sono le prime parole che vengono in mente quando si cerca di dare una spiegazione della grandezza e del successo di una serie, peraltro dalla fruizione non semplicissima, come “Shtisel”. Grazie a una sceneggiatura mai esagerata, e per questo sempre credibile, e che non calca mai la mano su un registro piuttosto che su un altro, offrendo dunque una mescola perfettamente equilibrata di dramma e commedia, la serie riesce a risultare interessante a più livelli. Provenendo da famiglie ultraortodosse, gli sceneggiatori Ori Elon e Yehonatan Indursky consegnano un ritratto fedele e intrigante di una cultura e di un senso di comunità e appartenenza sconosciuti ai più. I due autori non dimenticano però mai l’intrattenimento, andando dunque a scrivere storie plausibili, ma mai noiose, che sono al contrario briose e sincere, e proprio per questo capaci di generare forte empatia.

È soltanto per la terza stagione che la coppia, forse invogliata da crescenti fama e seguito della serie anche oltre i confini israeliani (in particolar modo grazie alla distribuzione di Netflix durante la pandemia), si concede l’utilizzo di qualche trucco, qualche escamotage di scrittura un filo più americanista, deragliando per qualche frangente dal suo consueto approccio verista. L’uso che viene fatto di eventi più emotivamente ammiccanti e finanche di un plot-twist sadico e spiazzante come quello del primo episodio risulta però perfettamente integrato al tono generale della scrittura e non cozza con la linearità della trama. Questi sussulti sortiscono anzi un effetto corroborante dell’empatia generatasi fino a quel punto tra spettatori e personaggi.

Sono invece in gran parte israeliani laici i numerosi attori chiamati a imbastire la gargantuesca epopea familiare. Impegnati in un fitto dialogare, ora in ebraico ora in yiddish, gli attori hanno prodotto performance credibili in ogni momento, capaci di generare risa, pianto, simpatia o tensione a seconda dell’occorrenza. È difficile scegliere e sarebbe sterile segnalare i migliori interpreti di un cast sensazionale dal primo all’ultimo membro, che ha dato vita a una sorta di kammerspiel in più ambienti, che vanno da luminose case dal mobilio spartano a ristoranti tipici del quartiere, e lungo ben 33 puntate.
Certo in “Shtisel” sono presenti anche numerose riprese in esterna, ma è nel torrenziale cianciare tra i personaggi che succedono le cose e vengono svelate le sfumature delle loro complesse personalità, del loro mondo di intendere la vita e la fede. Una volta terminata la visione, sarà impossibile dimenticare i battibecchi tra i fratelli Shulem e Nucham, gli sbuffi di Akiva in risposta alle frequenti contestazioni del padre, le pause ora glaciali ora complici tra Lippe e Giti. Ma la vita è fatta anche di silenzi e così talvolta seguiamo Akiva dirigersi all’atelier dove espone le sue dissacranti opere, Hanina alla sinagoga o Giti di rotta verso il suo delizioso bistrot e sui loro volti possiamo leggere la tempesta o la pace che in quel momento hanno nel cuore.
Li accompagna per le strade di Geula il commento musicale in punta di piedi di Avi Belleli, un sapiente minimalista capace di piegare alle sue esigenze l’elettronica quanto il calore degli archi. Quella di “Shtisel” è un a colonna sonora che può vivere anche di vita propria, specie nei suoi momenti più progressivi come “Airplains”, mentre altri come il tema “Dream Searcher” o l’iconico arpeggio di “Guitar Drops” rimarranno indissolubilmente legati alla serie, il primo alle sue scene più oniriche il secondo ai suoi silenzi più struggenti.

Ambienti, scrittura, recitazione, commento musicale: tutti gli elementi messi in campo da “Shtisel” si muovono discreti in un formidabile gioco sinergico, mossi dalla comune tensione verso una rappresentazione il più pura possibile.
Il risultato è così potente, immersivo e straniante che contemplandolo rapiti sarà impossibile non desiderare, anche per un solo momento, la semplicità, la lentezza e la spontaneità della vita degli Shtisel. Desiderare di vivere a Geula.

Stagione 1: 8,5
Stagione 2: 9
Stagione 3: 9,5

Shtisel
Informazioni

titolo:
Shtisel

titolo originale:
Shtisel

canale originale:
Yes Oh

canale italiano:
Netflix

creatore:
Ori Elon, Yehonatan Indursky

produttori esecutivi:
Dikla Barkai

cast:

Dov Glickman, Michael Aloni, Neta Riskin, Shira Haas, Sasson Gabai, Hadas Yaron, Eliana Shechter, Zohar Strauss, Ayelet Zurer

 

anni:
2013 - 2021