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Il quinto appuntamento con lo speciale redazionale analizza il nuovo lavoro dei fratelli Safdie, "Diamanti grezzi". Un mosaico di interventi critici che approfondiscono la lettura, moltiplicano i punti di vista e analizzano le numerose sfaccettature di un'opera complessa

recensione diamanti grezzi

Uscito negli Stati Uniti in una manciata di sale alla fine del 2019, giusto per poter competere nella stagione dei premi, "Diamanti grezzi" è stato salutato da gran parte della critica come l’opera della definitiva consacrazione dei fratelli Josh e Benny Safdie, ormai una certezza tra i registi nati negli anni 80 e che si sono affacciati nel cinema durante il decennio appena conclusosi. La maggior parte del pubblico ha però potuto vedere il film solo all’inizio di questo 2020 quando è stato rilasciato su Netflix: nonostante il buzz immediato, è stato presto seppellito negli usuali modi della piattaforma americana che ogni mese individua la next big thing che viene lanciata come il prodotto che bisogna assolutamente vedere, per poi essere in fretta archiviato anch’esso. A questa bulimia che rischia di renderci insoddisfatti cercatori di gemme preziose rispondiamo con uno speciale di approfondimento proprio su "Uncut Gems", per far luce sui diversi elementi critici presenti nel film.

Uno schlemiel, un satiro, un uomo perduto tra le mille facce e i mille vizi dell'ipermoderno, l’ossessione per la gemma e per le scommesse, l’irresistibile erotismo del corpo e del denaro nella New York del 2012: tutto questo è o riguarda Howard Ratner, interpretato in maniera maiuscola da Adam Sandler. Ma il quinto film di finzione dei fratelli Safdie non si risolve interamente nella parabola di Howard e gli interventi di questo approfondimento ne danno conto, indagando la creazione di un microcosmo narrativo sfaccettato e il recupero di una tradizione di volti, cromie e grane di gusto cassavetesiano.

Introduzione di Giuseppe Gangi



Lo schlemiel come istanza satirica



Con "The Schlemiel as Modern Hero" (1971), Ruth Wisse ha firmato una pietra miliare nell’analisi critica di un archetipo ricorrente della cultura ebraica. Lo schlemiel è infatti "simbolo di un intero popolo nel suo incontro con le culture circostanti e nella sua opposizione alla loro opposizione." Nella comica innocenza che gli consente di superare indenne mille avversità, lo schlemiel rispecchia la tenace resistenza del popolo ebraico a fronte di una logica fredda e disumana.

Lo schlemiel è dunque una figura satirica che mediante una resistenza passiva permette alla forza che lo reprime di manifestarsi in tutta la sua crudele insensatezza. Più che combattere l’insensatezza, lo Howard di "Diamanti grezzi" sembra incarnarla; in lui professione, tempo libero, passioni, affetti familiari ed extra-coniugali vengono subordinati alla ludopatia. Ma proprio nel passivo abbandono agli istinti (e alle loro conseguenze), Howard espone la matrice assurda di una società votata all’idolo bifronte di profitto e consumo.

Una sciarada di allibratori gentili, cognati vendicativi, consumatori di schermi e droghe sintetiche irretiti in un agonismo finanziario destinato a bruciare ogni guadagno in orripilanti beni di lusso (i furby tempestati di gioielli) e compulsioni auto-distruttive (droghe, scommesse). E allora si comprende come la follia di Howard non stia nei suoi moventi, ma nel rifiuto di mascherarli. Ecco il modo in cui l’innocenza dello schlemiel satireggia la società dell’iperconsumo.

Rudi Capra


Questione di grana



La gemma più preziosa, quella del capitalismo, si presenta come un opale di dubbio valore che fa il suo ingresso dallo sfintere del protagonista, un traffichino ingenuo che pensa bene di ottenere la ricchezza immediata senza meritarsela, attraverso lo smercio di pietre preziose e l’assillante gioco d’azzardo. Quello che, in parte, ci ha insegnato il capitalismo, d’altronde. L’apologo dei Safdie è di un nichilismo cinico e sfrontato che palesa sia nella messa in scena, sia nel fervido e precoce status identitario, il cinema indipendente di John Cassavetes e Martin Scorsese (qua nelle vesti di produttore esecutivo).

La regia lo-fi e la fotografia di Darius Khondji (stilema che ha contribuito a rendere miliare anche "Seven") trasudano di iperrealismo e poietica. Nella grana grezza della pellicola ritroviamo la New York anni settanta di "Taxi Driver", sudicia e alienante, qua ancora più anonima e formicolante, interamente fagocitata nell’anima dal dio denaro - la grana, appunto. Ritroviamo la frenesia del racconto e l’incedere del montaggio scorsesiano ("Re per una notte", "Fuori orario"), ma nei Safdie il ritmo è sfibrante, ansiogeno, crea malessere. La sensazione di un auto in pendio che prende velocità e non ha più l’uso dei freni (le musiche siderali di Oneohtrix Point Never).

Ma il maggior debito riconosciuto dai fratelli newyorkesi è nei volti dei protagonisti, figli del cinema di Cassavetes. "Uncut Gems" è infatti giocato su primi piani claustrofobici e plumbei, dialoghi serrati e una creativa improvvisazione recitativa, preminente mezzo di indagine sull’umanità. Howard Ratner è un Cosmo Vitelli ("L’assassinio di un allibratore cinese") in chiave pop ultramoderna. Perché il fascino noir del film dei Safdie è proprio quello che prevede la commistione tra il cinema indipendente anni Settanta e una narrazione ossessiva e contemporanea che privilegia la maschera, il travestimento (e quindi l’estetica).

Matteo De Simei


Reality



"Diamanti grezzi" sarebbe dovuto uscire anni fa, ma mentre stavano facendo i sopralluoghi per il film, i fratelli Safdie fecero amicizia con Arielle Holmes. "L’abbiamo incontrata nella metro e ci ha così colpito che le abbiamo chiesto subito di recitare nel film. Non ha funzionato, ma siamo diventati amici - quando ci ha raccontato la sua vita, una tossicodipendente che si trovava quasi per caso nel quartiere dei diamanti, abbiamo abbandonato il film e l’abbiamo pagata per scrivere la sua autobiografia, che è stata poi la base per 'Heaven knows what', in cui lei recita sé stessa. In quel periodo era sotto metadone e avevamo paura che le scene di eroina la causassero una ricaduta".

I film dei fratelli Safdie sono immersi nella realtà, nella loro New York rumorosa e ad altezza d’uomo stile Cassavetes, ma anche in personaggi con una realtà quasi fisica. In "Diamanti grezzi" interpretano loro stessi Kevin Garnett e the Weeknd. Il film è ambientato nel 2012, con il primo negli ultimi momenti di gloria prima della discesa (da lì a poco sarebbe andato ai Brooklyn Nets) e il secondo in ascesa (è l’anno del primo tour). Entrambi sono chiamati ad interpretare un momento ben definito e archiviato della loro vita, quindi a recitare loro stessi più che essere loro stessi.

La scoperta del film è però sicuramente l’esordiente Julia Fox – che di mestiere fa la fotografa, ma che rende credibile il sex appeal travolgente del personaggio anche grazie al fatto di essere stata dominatrix e modella di Playboy. L’interazione tra la storia e la realtà continua a portare spessore ai film dei Safdie.

Alberto Mazzoni


Le molte facce di una gemma



Howard Ratner appartiene a un mondo in cui l’individuo, privo della capacità di determinare il proprio Esser-ci, è abbandonato all’errare: un’errare dal duplice significato, che non si esprime solo come un continuo cadere nell’errore, ma anche come un sinonimo del continuo vagare senza meta di cui il protagonista è soggetto, un "andare a zonzo", debitore degli insegnamenti del cinema moderno che qui viene elaborato dai due fratelli newyorkesi.
Nell’universo frenetico fotografato dai Safdie, tale erranza è momentaneamente scampata soltanto aggrappandosi al kitsch (il furby tempestato di diamanti) o affidandosi al gioco d’azzardo, dove la posta in gioco è la propria stessa vita. Ma queste sono evidentemente soluzioni temporanee e illusorie.

Ecco allora che in questa modernità liquida in cui all’agire si contrappone un passivo essere-agiti, l’opale nero che dà il titolo all’opera fornisce una via d’uscita finalmente autentica. La gemma grezza diventa, nella mente di Howard, il simbolo di una solidità inscalfibile, capace di resistere alle corruzioni di un’esistenza indirizzata verso il proprio annichilimento. Ma non solo: essa è presenza metafisica, amuleto magico, idolo da venerare, fonte di ricchezza, materia di scambio, premio e minaccia... L'opale è tutto questo assieme. Ma a ben vedere esso è al contempo soltanto l’ennesimo idolo vuoto, sul quale l’uomo proietta la propria volontà di potenza e con il quale firma la propria condanna.

Eugenio Radin


Riflessi nel perimetro digitale



"Uncut Gems" è scomposto in frammenti. Temporali, multimediali, abissali.
La frenesia di Howard Ratner si consuma nel perimetro temporale in cui si gioca la partita di basket, un tempo partizionato e schematico, eppure lanciato in una corsa schizofrenica per acchiappare il good time, il momento giusto. L'immagine di Howard trova posto tra i vetri cinerei del diamond district mentre lo attraversa con gli occhi proiettati nel suo smartphone; o ancora egli è catturato dalle videocamere di sicurezza del suo ufficio mentre osserva le molteplici superfici dell'opale e, forse, scorge sé stesso.

I fratelli Safdie mettono in scena un mondo di specchi in cui il riflesso non appare mai nitido, a volte non esiste, eppure Howard si divide tra le pareti dei suoi strumenti audiovisivi, degli specchi e dei vetri di New York. E da uno schermo, quello della colonscopia, viene presentato con tanto di anagrafica, come fosse il suo ritratto medico.
Il cinema di Ben e Josh inizia dalle budella, dalla loro immagine a video: guardarsi dentro e sapere di essere osservati. Uno sguardo che fuoriesce dalle interiora, raziocinante e scientifico: come "L'Amant Double" (il sesso di lei) e "Il sacrificio del cervo sacro" (il cuore di un paziente), qui è un colon. Una concretezza di sguardo che è subito pronta a dissolversi nell'irrazionalità dell'azzardo meticoloso (Howard esclama "Wow" alla vista della vomizione monetaria), del simbolismo futile (il furby di preziosi).

A Howard non rimane che disperdersi tra (e farsi guardare da) i molti schermi che catturano l'immagine e la rendono fluida, il cui parossistico apice di rappresentazione dei rapporti è una conversazione erotica via chat condivisa nella stessa stanza. Egli diviene inconsapevole prigioniero di frammenti di sé persino nella morte, quando la mdp si sposta veloce verso l'alto a riprendere il riflesso di Howard nel soffitto a specchio. Tutto questo in un film - volendo provocare - destinato a consumarsi frammentariamente su tablet, cellulari, televisori, computer portatili...

Diego Testa





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