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recensione di Domenico Ippolito
6.5/10

La pellicola di Maria Schrader racconta l’inchiesta del New York Times del 2017 che ha svelato gli abusi sessuali verso giovani attrici e dipendenti di cui è stato accusato il produttore cinematografico Harvey Weinstein (poi condannato a 23 anni di carcere per stupro).

Dopo aver denunciato la condotta sessuale inappropriata verso alcune donne del candidato repubblicano Donald Trump, che in seguito vincerà le elezioni per la presidenza degli Stati Uniti nel novembre del 2016, una giornalista del NY Times, Megan Twohey (Carey Mulligan, "Una donna promettente"), appena tornata al lavoro dalla maternità, viene contattata dalla collega Jodi Kantor (Zoe Kazan, "The Big Sick") per aiutarla a raccogliere informazioni su Weinstein, a partire da alcune dichiarazioni della nota attrice Rose McGowan. Per le due donne è solo l’inizio di una incalzante indagine, le cui vicende partono dagli anni Novanta, che verrà condotta tra gli Stati Uniti e l’Europa, coinvolgendo attrici e datori di lavoro del produttore. Le due giornaliste incontreranno sulla loro strada notevoli resistenze, un vero e proprio sistema di potere che, tra cavillosi accordi legali, soldi in cambio di silenzio, avvocati compiacenti e organi di controllo inefficienti, intralcia più volte la volontà di Megan e di Jodi di far luce sulla vicenda.

Il filone dell’inchiesta giornalistica tradotta per immagini possiede una lunga tradizione al cinema, il cui riferimento obbligato e più noto è il celebre film del 1976 "Tutti gli uomini del Presidente" di Alan J. Pakula, dove una coppia di giornalisti (lì due uomini del Washington Post, Carl Bernstein e Bob Woodward, alias Robert Redford e Dustin Hoffman) inchiodò con lo scandalo Watergate il presidente americano Richard Nixon. Per Maria Schrader, attrice tedesca dalla lunga carriera che negli ultimi anni si è costruita una filmografia da regista di tutto rispetto (vedasi la miniserie Netflix "Unorthodox" e il recente "I’m Your Man"), è la prima produzione americana, tra l’altro su tema non facile che tocca lo stesso ambiente cinematografico hollywoodiano. Ma ciò che rende "Anche io" una pellicola solidissima e inappuntabile è proprio la mancanza di cedimenti alla facile spettacolarizzazione, con una costruzione filmica che procede in avanti, in pratica, mediante l‘uso esclusivo della parola. Sono i racconti delle donne vittime degli abusi, le loro testimonianze, difatti, il centro della narrazione, grazie alle quali le due giornaliste costruiscono, pezzo dopo pezzo, la loro inchiesta e, di pari passo, Maria Schrader il suo film.

"She Said" è, per l’appunto, il titolo originale della pellicola, come il libro che le due reporter hanno pubblicato dopo l’esplosione dello scandalo e che è il fulcro della sceneggiatura firmata da Rebecca Lenkiewicz (già coautrice di svariati film, come "Colette"). Il titolo italiano "Anche io", invece, fa riferimento al movimento #metoo, il celebre hashtag utilizzato in tutto il mondo dalle donne che hanno riportato le violenze subite, un fenomeno diventato virale proprio in seguito all’inchiesta Weinstein e che ha sollevato una serie di questioni su comportamenti, condotte e norme, non solo in ambito cinematografico o artistico, ma in ogni luogo di lavoro e oltre, restando a distanza di anni un tema di fortissima attualità.

In "Anche io" non ci sono scene madri, dunque, se non quelle affidate alle conversazioni, alle interviste, alle registrazioni audio, alle confessioni e alle ammissioni, o alla mancanza di tutto ciò, ai silenzi, alle omissioni. Le violenze restano fuori campo, invisibili, dove sono sempre state, diremmo, a parte alcuni riusciti inserti: i corridoi vuoti, le camere d’albergo disordinate, le fughe tra le lacrime delle vittime. Una scelta coerente con il percorso autoriale di Maria Schrader, la quale potrebbe essere giudicata cinematograficamente debole, ma che invece rilancia il senso del film che, per la stessa vicenda narrata, travalica la visione, proprio come l’inchiesta del New York Times ha superato le colonne del giornale entrando in ogni ufficio, nelle università, nel quotidiano delle persone.

Pure, se ogni film si potesse raccontare con una scena, eccone una esemplificativa della linearità e potenza di "Anche io". Le due giornaliste entrano in un bar insieme a Rebecca Corbett (Patricia Clarkson, "The Party"), la direttrice del New York Times, per discutere dell’inchiesta in corso, quando un uomo con boccale di birra in mano si avvicina al loro tavolo e cerca di rompere il ghiaccio con una scusa. Per due volte, Megan gli fa gentilmente notare che sono lì a parlare di lavoro e non vorrebbero essere disturbate, ma quello è un po’ alticcio e insiste, al che la giornalista, esasperata, non ci vede più e lo manda sonoramente a quel paese. L’uomo risponde con una volgarità ed etichetta le tre donne come "puttane frigide". Fine. Un momento che in un altro film non avrebbe maggiore dignità rispetto ad altri ma che, giustapposto alle testimonianze che le due giornaliste stanno raccogliendo, all’omertà incontrata in vari ambienti, alla depressione postparto di Megan, alle notti insonni di Jodi, alle minacce ricevute, emana una forza particolare perché racchiude la parte infinitesimale di un grande problema sotto gli occhi di tutti che, a volte, si fa finta di non vedere.


17/02/2023

Cast e credits

cast:
Carey Mulligan, Zoe Kazan, Samantha Morton, Ashley Judd, Patricia Clarkson


regia:
Maria Schrader


titolo originale:
She Said


distribuzione:
Universal Pictures


durata:
129'


produzione:
Dede Gardner, Jeremy Kleiner


sceneggiatura:
Rebecca Lenkiewicz


fotografia:
Natasha Braier


montaggio:
Hansjörg Weißbrich


costumi:
Brittany Loar


musiche:
Nicholas Britell


Trama
Due reporter del New York Times cercano di fare luce sulle accuse di molestie sessuali che riguardano il produttore Harvey Weinstein.
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