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recensione di Antonio Pettierre
7.0/10

Schermo nero. Dei tagli di luce improvvisi. Poi si sente una voce di donna in lontananza che si lamenta. La voce si fa sempre più distinta e lo schermo si apre a visioni annebbiate finché l'immagine non si fa chiara e si sente la donna urlare che il bambino è caduto e non piange, mentre una voce di uomo le dice di stare tranquilla. Un brevissimo stacco su un dettaglio di un neonato appeso per le gambe di schiena, mentre una mano guantata gli dà una pacca sul sedere e il pianto lacerante esplode.
Questo è l'incipit di "Beau ha paura", terza pellicola di Ari Aster, che riprende la nascita del protagonista in soggettiva direttamente dall'utero materno. In questa breve sequenza, che a posteriori si può definire una sineddoche dell'intero film, abbiamo la rappresentazione dei temi principali della storia – una sceneggiatura originale del regista (anche produttore): il trauma della nascita e della vita, il rapporto ansiogeno materno, la solitudine, il dolore, l'angoscia, la paura del buio dell'utero-caverna da cui si esce e che non si vuole abbandonare.

(Attenzione: l'analisi simbolica e psicanalitica del film comporta la rivelazione di colpi di scena)

Le tappe della messa in scena dell'inconscio

Le tre ore di "Beau ha paura" sono suddivise, oltre al prologo della nascita, in quattro parti, alcuni flashback e un epilogo con stili e messa in scena dissimili.
Nella prima parte il protagonista è nello studio del suo psicanalista in cui facciamo conoscenza dell'instabilità del personaggio, un uomo solitario di mezz'età, che è in agitazione perché deve andare a trovare la madre, Mona, che non vede da tempo. La scena è subito dopo l'inizio e continua mostrando una città piena di violenza, in cui regna la confusione, ci sono risse, cadaveri, persone che urlano, banchetti che vendono gli oggetti più disparati. Il protagonista arriva nel palazzo fatiscente e nell'appartamento in cui vive, dopo aver evitato una serie di pericoli e aggressioni. Aster utilizza due interessanti piani sequenza: il primo, all'inizio, per mostrarci la città e il quartiere; il secondo durante la discesa dall'appartamento fino alla drogheria di fronte, quando Beau deve prendere una bottiglia d'acqua per ingurgitare il nuovo psicofarmaco prescrittogli dal medico. Le riprese forniscono una vischiosità nella forma della visione che rappresenta l'incapacità di muoversi del personaggio, la sua gabbia mentale. Questo elemento è ancora più esplicitato nel momento in cui la folla di reietti e violenti s'introduce nel suo appartamento, costringendolo a passare la notte su un'impalcatura esterna, aggrappato alle sbarre sulla piattaforma a livello della finestra che guarda all'interno. Beau è ripreso in modo tale da apparire letteralmente in gabbia, una prigione costruita che plasticamente dimostra come la sua mente sia rinchiusa in costrutti artificiali.
La seconda è presso una coppia che lo ha curato dopo averlo investito sotto casa. Lo accudiscono, ferito dall'incidente e dalle coltellate di un folle che si aggirava per le strade del suo quartiere. Se la prima parte è caratterizzata dal caos della scena, dall'accumulo scenografico di oggetti, di graffiti, di persone, in un contesto urbano in cui regna il degrado, qui siamo in una villa in aperta campagna, circondata da un giardino, con gli interni ariosi e pieni di luce, ordinata e organizzata. L'uomo è un chirurgo che cura Beau, la moglie ha un impiego non identificato. I due hanno una figlia adolescente problematica e un figlio morto in guerra, il cui compagno d'armi impazzito, suo amico fraterno, vive con loro in una roulotte.

La terza parte è tutta all'interno di un bosco, in cui Beau fugge dopo che la figlia della coppia si suicida ingurgitando un barattolo di vernice e la madre lo accusa di averla uccisa. L'uomo incontra una compagnia itinerante che mette in scena un dramma familiare in un teatro costruito appositamente. Girato in notturna, con la luce a illuminare la radura in cui l'oscurità diventa confine della realtà visiva. Beau s'identifica con il protagonista e inizia a immaginare una vita alternativa in cui invecchia, ha tre figli e vive in un villaggio ordinato e felice. Se l'arrivo di Beau nel campo dei teatranti ha una messa in scena fiabesca, l'intero sogno utilizza una tecnica di animazione che lo fa apparire come una digressione, un corto animato in un lungometraggio di finzione, come in alcune opere d'arte contemporanee in cui si osserva l'innesto di materiali diversi, di quadri completi e dettagliati all'interno di opere composite. Questa parte termina con uno scoppio di violenza nel momento in cui arriva il compagno d'armi impazzito, lanciato al suo inseguimento dalla moglie del chirurgo per vendicarsi della morte della figlia, trasformando il bosco in una scena di guerra che riproduce un simulacro di quelle a cui si può assistere nei film bellici sul Vietnam (come "Il cacciatore" o "Apocalypse Now").
Nell'ultima parte abbiamo finalmente Beau che arriva alla casa della madre: una villa piena di angoli, che si erge imponente in mezzo a una ricca vegetazione. Qui abbiamo il confronto-scontro con lei che si era finta morta proprio per conoscere quanto il figlio l'amasse, rinfacciandogli tutti i torti subiti. La notte imperversa e Beau si muove sui diversi piani della casa, attraverso una scala a chiocciola senza balaustra: tra il piano terra, in cui ci sono ampie vetrate e con un arredamento essenziale; un piano sotterraneo dove c'è lo studio della madre a capo di un impero finanziario e industriale; un piano superiore in cui abbiamo la camera da letto dove il protagonista ha il suo primo rapporto sessuale e riappare la madre; e, infine, la soffitta in cui è rinchiuso il padre che credeva morto.

La "madre terrificante" e il trauma sessuale

Tutto "Beau ha paura" si basa sul rapporto traumatico con la madre, una "madre terrificante", secondo la definizione junghiana, che castra il personaggio fin dalla nascita, che lo predomina, lo immobilizza, lo controlla come propaggine del suo corpo e della sua mente. Le paure e l'angoscia di Beau sono instillate fin da bambino e il suo viaggio non è altro che un ritorno a essa, alla casa della madre. La madre, oltretutto, gli instilla la paura del sesso, in quanto gli inculca la storia che suo padre è morto nel momento del suo concepimento durante la prima notte di nozze. Quindi, il personaggio ha il terrore del sesso perché gli uomini della sua famiglia possono morire, in un'equivalenza sesso=morte che crea in lui una paura ancestrale.
I flashback sono esemplificativi di questi traumi. In quello più lungo, vediamo Beau adolescente mentre è in crociera con la madre. Qui incontra una sua coetanea di cui s'innamora e con cui scambia il primo bacio. Ma se lei è autonoma e indipendente, Beau è strettamente legato alla figura materna. Se la ragazza taglia il cordone ombelicale, Beau ne è soffocato. Il rapporto traumatico con il sesso, che amplia la solitudine e le manie dell'uomo, facendolo cadere in un inferno emotivo, appare sciolto proprio nella casa della madre, quando ritrova adulta la ragazzina della crociera e la notte stessa ha il suo primo rapporto sessuale con lei. La paura della morte è momentaneamente sostituita dalla sorpresa della sua sopravvivenza e della scoperta del piacere. Ma, al contrario, è la donna a morire durante il coito che fa apparire nuovamente la "madre terrificante".

Mona è presente fin da subito attraverso le parole del figlio, durante la seduta con lo psicoanalista, dalle telefonate intercorse con lei per il viaggio a casa. Quando però a Beau, nella prima parte del film, rubano le chiavi dell'appartamento e la valigia poco prima che vada a prendere l'aereo e la sente per dirle che ritarda, la voce della madre da amorevole si trasforma in rabbiosa. Beau riceve una telefonata successiva da un fattorino che scopre il corpo della madre e gli comunica che è morta. Così il suo viaggio per festeggiarla si trasforma in uno per onorarla al funerale. La madre è un convitato di pietra nella mente del protagonista che domina e plasma la sua psicologia anche da morta.
Nella seconda parte, Beau riceve una telefonata dall'avvocato della madre che lo invita perentoriamente a venire al funerale, ritardato in attesa del suo arrivo. Ma la sua condizione fisica e psichica glielo impedisce.
Il controllo materno arriva fino a far sacrificare la tata del figlio che prende il suo posto nella bara così da ricattare emotivamente il figlio. L'acqua, ad esempio, è un simbolo sessuale materno: quella presente nelle vasche da bagno, sia nell'appartamento della prima parte sia negli altri brevi flashback, in cui un Beau bambino si rifiuta di entrarci e la madre lo rinchiude nella soffitta della casa; quella del mare della crociera, che lo isola dal mondo esterno; quella del mare che attraversa con una barca a motore dopo averla strangolata nella parte finale.
La moglie del chirurgo è anch'essa un simulacro della madre naturale: lo cura dopo l'incidente, lo controlla con una cavigliera elettronica – per monitorare il suo stato di salute – tenta inconsciamente di sostituirlo con il figlio morto in guerra e poi prende la decisione di ucciderlo. Sono tutti comportamenti iterativi dell'amore-odio materno verso l'appendice carnale.
Beau è un essere completamente mutato dalla presenza materna. Un uomo che è tutto inconscio, in cui l'Io non si è mai formato. Del resto, tutto in "Beau ha paura" è un continuo ritorno alla madre e alla profondità dell'utero. I richiami all'acqua, come abbiamo detto, ma anche la predominanza della notte nella terza e quarta parte rappresentano visivamente l'abbraccio materno in cui è costretto Beau.

I luoghi allegorici del ritorno alla madre

In questo senso, il bosco, la soffitta e la caverna dell'epilogo sono tre luoghi allegorici di questa continua presenza, rappresentati in tre sequenze significative.
Nella terza parte, il bosco assurge a luogo femmineo dell'inconscio, in cui Beau è condotto da una donna incinta, ancora una volta come elemento di fertilità e procreatrice di vita, di ricordo della figura materna. Secondo Jung, il terrore del bosco, che Beau prova all'inizio e alla fine, con l'improvviso scoppio di violenza e di morte, rappresenta la natura che divora, culla dei pericoli dell'inconscio, il potere della madre di nascondere la ragione (la vita possibile senza la sua presenza che sogna durante la rappresentazione teatrale). Il bosco si trasforma nel luogo principale in cui compiere sacrifici di sangue da immolare a divinità panteistiche, la morte della ragione per la nascita della mitologia.

Nella quarta parte, la madre rivela che il padre di Beau non è morto e che la verità si trova nella soffitta. Mona gli svela che i suoi non sono sogni, ma ricordi. Nella soffitta appare un uomo incatenato, sofferente ed emaciato, ma soprattutto un enorme fallo con spine e fauci. Questo totem animato rappresenta l'aspetto della mascolinità della donna, una madre fallocentrica divoratrice del proprio figlio a cui chiede l'assoluta e incondizionata devozione e sudditanza. La soffitta diventa il Super Io della madre che terrorizza il figlio, luogo nascosto nel suo inconscio in cui il trauma del ricordo rimosso si trasforma in incubo che lo avvelena.
La terza sequenza l'abbiamo nell'epilogo. Beau, dopo essere fuggito in mare, entra in un'enorme caverna. La sua barca si ferma e si trova al centro di un anfiteatro pieno di gente. Beau è sottoposto a un processo con Mona e il suo avvocato nella parte dell'accusa. In uno schermo enorme, al centro della caverna, sono proiettati alcuni episodi della vita dell'uomo come prova delle sue colpe nel confronto della madre. L'avvocato difensore tenta di respingere le accuse, ma alla fine è gettato su una rupe.
È indubbio che la caverna ha un significato femminile e, freudianamente, essa rappresenta l'utero materno, ricollegando l'epilogo all'incipit. Beau esce dall'utero all'inizio per rientrarci alla fine. La caverna come luogo astratto ha molteplici significati che alludono alla madre, alla morte, al ricordo, al passato. Una rappresentazione dell'inconscio di Beau e del suo legame materno. Tutta la sequenza si rifà al processo kafkiano in cui il condannato è punito per una colpa sconosciuta.
Da questo punto di vista, "Beau ha paura" ha una struttura circolare in cui il personaggio probabilmente non si è mai mosso. Si potrebbe anche arditamente proporre che l'intera pellicola non sia altro che l'incubo di un bambino morto subito dopo la nascita. L'inconscio di Beau, che non si è mai formato come individuo, diventa la proiezione della madre per la sua perdita.

Gli spazi simbolici come non-luoghi dell'inconscio

"Beau ha paura", nella sua fin troppo intricata messa in scena, è un film in cui gli spazi simbolici si sovrappongono uno sugli altri, in un gioco di raddoppi, triplicazioni, finanche moltiplicazioni iterate di elementi rappresentativi dell'inconscio del protagonista e del rapporto edipico che implode su sé stesso. In questa foresta di simboli, Aster ha la necessità di trasformare i luoghi antropologici, come crocevia di identità di pratiche collettive e individuali, in spazi psicologici e simbolici e in non-luoghi mentali.
Le case in cui si svolge la vicenda risultano emblematiche in questo senso. L'appartamento del protagonista nella prima parte non esiste come abitazione in quanto tale, ma come un non-luogo di una porzione della sua mente, un piccolo rifugio di tranquilla esistenza all'interno del caos dell'inconscio del palazzo, del quartiere, della città, che non esistono se non come raffigurazione del suo malessere psicologico.
La villa della coppia, che lo ospita nella seconda parte, diventa una dimora di convalescenza, un simulacro sanitario. Esso appare come un sanatorio in cui tutti i personaggi sono instabili ed equivoci e dove tutti fanno uso di psicofarmaci. Un istituto psichiatrico dove sono curati individui malati sotto mentite spoglie e che Aster mette in scena come un ambiente controllato, ma in cui, sottotraccia, scorre una tensione emotiva pronta a esplodere in ogni momento.

Un non-luogo per eccellenza è la nave da crociera del flashback di Beau da adolescente. Essa è un mezzo di trasporto in continuo movimento, villaggio galleggiante autosufficiente, monade in cui le relazioni si autoproducono rimanendo all'interno della nave. Che in questo caso viaggia nelle immense acque simboleggianti la totalizzante presenza materna. E Aster inquadra il profilo di una giovane Mona con il mare sullo sfondo in rapporto con l'elemento simbolico a cui è collegata.
Soprattutto nel bosco della terza parte di "Beau ha paura" abbiamo il teatro che diventa un non-luogo in cui è riprodotta una realtà possibile, un'alternativa di esistenza. Gli attori interpretano un Sé junghiano alla personalità dello spettatore e, in questo caso particolare, a quello di Beau, che si proietta sulla loro recitazione diventandone il protagonista in un trascorrere del tempo alternativo.

Il corpo attoriale come raffigurazione dell'interiorità  

Un film come "Beau ha paura" ha la necessità di avere un protagonista assoluto. L'interpretazione di Joaquin Phoenix porta su di sé l'intera pesantezza della narrazione e di essere sempre al centro della messa in scena. È indubbio, come ha anche affermato lo stesso regista, che l'attore abbia realizzato in maniera completa le intenzioni registiche, tanto che Aster ha lasciato ampio margine alla recitazione di Phoenix nella costruzione della psicologia di Beau. L'attore americano si è completamente calato nel personaggio in un lavoro mimetico che lo fa accomunare a quello svolto in "Joker".
Se in quell'interpretazione di un individuo disadattato, in un rapporto malato con la propria madre, trasforma i traumi in una rabbia distruttiva verso una società antropologicamente rappresentabile, qui Phoenix mantiene per tutta la durata filmica l'espressione dell'angoscia e della malattia sul volto del personaggio, sempre in perenne difesa e fuga. Rimane costantemente vittima, mai trasformandosi in carnefice, anche quando strangola la madre. Subisce comunque qualsiasi evento non riuscendo mai a esserne artefice.
La trasformazione fisica di Beau è antitetica rispetto a quella di Joker: il primo ha una struttura fisica in espansione e una tensione emotiva implodente; il secondo ha un fisico che  si asciuga sempre più a mano a mano che la rabbia si accumula fino all'esplosione esterna di violenza. Il corpo attoriale di Phoenix in "Beau ha paura" subisce un continuo cambiamento fisico che si esprime attraverso la visibilità di ferite, ecchimosi, lividi. Un corpo martoriato all'esterno quanto è devastato all'interno, in una performance di grande riuscita interpretativa.

Aster ha scritto la prima versione della sceneggiatura di "Beau ha paura" più di dieci anni fa, prima di "Hereditary" e "Midsommar". Nel tempo ha lavorato sul testo con inserimenti e modifiche come un diario personale, uno zibaldone di leopardiana memoria, in cui l'accumulo simbolico è l'elemento distintivo e il suo limite intrinseco che impedisce di farne un'opera conclusa e coerente. "Beau", del resto, è il cortometraggio che Aster ha scritto e diretto nel 2011, in cui a un uomo rubano le chiavi dell'appartamento prima di un viaggio per andare a visitare la madre. Quell'incubo di 6' è stata la prova generale di "Beau ha paura", il nocciolo di un lungometraggio di 180' che a volte si ripete, si contorce su sé stesso e divaga nella messa in scena della magmatica materia inconscia con cui il giovane e talentuoso regista newyorkese si è confrontato fino a questo momento.

*Per i simboli citati nel testo si fa riferimento a Juan Eduardo Cirlot, "Dizionario dei simboli", Adelphi 2021; per il concetto di spazi, luoghi antropologici e nonluoghi a Marc Augé, "Nonluoghi", Elèuthera 2009.


02/05/2023

Cast e credits

cast:
Joaquin Phoenix, Armen Nahapetian, James Cvetkovski, Patti LuPone, Zoe Lister-Jones, Amy Ryan, Nathan Lane


regia:
Ari Aster


titolo originale:
Beau Is Afraid


distribuzione:
I Wonder Pictures


durata:
180'


produzione:
A24, Access Industries, IPR.VC, Square Peg


sceneggiatura:
Ari Aster


fotografia:
Pawel Pogorzelski


scenografie:
Fiona Crombie


montaggio:
Lucian Johnston


costumi:
Alice Babidge


musiche:
Bobby Krlic


Trama
Beau Wessermann è un uomo pieno di angosce e paure. Allo psicanalista, a cui si confida regolarmente, comunica che il giorno dopo andrà a trovare sua madre dopo tanto tempo. Ma contrattempi e incidenti vari trasformano un semplice viaggio in un’odissea senza fine.
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