drammatico | Usa (2002)
Vi sono pellicole che assai difficilmente possono essere circoscritte in un'analisi filmica, né tantomeno in una recensione. La poesia visiva di "Gerry" rientra in una di queste. Uno sfondo blu (stilisticamente a metà tra Jarman e Kubrick) introduce un piano-sequenza di oltre sei minuti, accompagnato dal pianoforte liquefatto di Arvo Pärt. Solo l'incipit diretto da Gus Van Sant è di una magniloquenza assoluta, quasi contemplativa.
Il viaggio è la prima tappa fondamentale del film. La strada (-guida) delle sequenze iniziali tramuterà presto nel "sentiero selvaggio" della Death Valley, che condurrà i due giovani protagonisti verso una nuova via: quella della progressiva perdizione ("Tutti i sentieri portano allo stesso posto"). L'amicizia, altra robusta ossatura a comporre lo scheletro tematico della pellicola, rende indissolubili entrambi i personaggi anche nel nome che dà il titolo all'opera. Anche in questo caso, però, risate e vaniloqui lasceranno il posto dapprima a travagliati silenzi, fino a sfociare in pianto, panico e rassegnazione. L'amicizia verrà messa a dura prova anche da disidratazione, allucinazioni e dalla consapevolezza di essere potenzialmente sempre più esposti alla morte, ora dopo ora.
Ottime le prove di Casey Affleck e Matt Damon. Il primo dal carattere fragile e rassegnato (metafora lampante: la paura nel saltare da una roccia), il secondo ben più forte, autoritario e cinico ("smettila di piangere"). Saranno le diversità stesse dei caratteri a sentenziare la gemma interpretativa del finale (legge darwiniana del più forte? Atto dovuto?). Affleck-Damon a parte, è tuttavia il paesaggio l'inenarrabile e indiscusso protagonista della pellicola. L'apparente staticità dell'ambiente, crea continui movimenti di luce, nuvole ed ombre che accompagnano i passi senza meta dei due giovani, abili a scandire l'idea dell'infinito paesaggistico che li circonda e l'assenza di una via di uscita. E se il panorama è l'essenza, l'accompagnamento sonoro ne diviene il fulcro: respiri pesanti, passi, versi di animali e vento trascinano lo spettatore in un clima quasi mistico. I dialoghi scarni e in stile "teatro dell'assurdo" creano atmosfere analoghe alle sceneggiature teatrali di Beckett e Pinter ("Ho conquistato Tebe", "Ci sono molti dinosauri nella zona"...). Lo stesso nome che accomuna i due personaggi è avvolto in ermetiche interpretazioni ("Hai gerrizzato le procedure", "C'erano troppi Gerry diversi per la strada", "è stata una gerriata totale"). Una sorta di nome in codice(?). Scritto e montato a sei mani (Van Sant, Damon, Affleck), il film è retto dall'onnipresente steadicam di Matias Mesa ma soprattutto dalla "magica" fotografia di Harris Savides (con Van Sant sin dal precedente "Scoprendo Forrester", 2000): zoom out e campi lunghissimi a sottolineare la supremazia della natura e l'impotenza dell'uomo di fronte ad essa.
Grazie a "Gerry" (distribuito in pochissime copie, in Italia mai uscito) Van Sant ha avuto l'opportunità di sprigionare le sue doti di maestria registica sperimentale e indipendente, annientando la narrazione e mettendo per una volta da parte le aspettative commerciali del pubblico. Opportunità che si ripeteranno non tanto in "Elephant" (2003), quanto in "Last days" (2005). Abituati a film che sistematicamente si nascondono dietro ai loro trucchi, il vuoto sonoro e la sintesi estrema delle immagini (fin quasi all'annullamento, per assenza di dettagli) creano nello spettatore inerme di "Gerry" imbarazzo e inettitudine. Memorabile la sequenza dell'estenuante cammino nel lago salato tra notte, alba e giorno senza mai staccare dal piano sequenza. Presentato al Sundance Film Festival e al Toronto Film Festival. Due nomination agli Independent Spirit Awards (regia e fotografia).
cast:
Casey Affleck, Matt Damon
regia:
Gus Van Sant
titolo originale:
Gerry
distribuzione:
Miramax
durata:
103'
produzione:
indipendente
sceneggiatura:
Gus Van Sant, Casey Affleck, Matt Damon
fotografia:
Harris Savides
montaggio:
Gus Van Sant, Casey Affleck, Matt Damon
musiche:
Arvo Part