Ondacinema

recensione di Alessio Cossu
7.0/10

Pan Nalin è regista indiano noto soprattutto per una serie di pellicole incentrate sulla spiritualità cui fa da sfondo la bellezza senza tempo delle contrade himalayane. Beyond the Known World (2017) sembra così chiudere un cerchio iniziato al suo debutto con Samsara (2002). Ben altre sono le ambientazioni e il focus del suo ultimo film, che ci restituisce un interessante viaggio alla scoperta del cinema condotto attraverso l’innocenza e la spontaneità di un bambino che vive in uno degli innumerevoli villaggi che Ghandi amava considerare "l’India profonda". Quello del protagonista è essenzialmente un racconto di formazione (in parte autobiografico) sul cinema, condotto all’interno e al di fuori di esso. Ma gli spunti di riflessione che la pellicola offre sono svariati e non possono essere circoscritti a questo codice narrativo.

Samay, il protagonista, è un preadolescente che divide le sue giornate tra le mattinate a scuola e i pomeriggi trascorsi a fantasticare con gli amici in quelle aree umili e dimesse tra città e campagna, veri e propri paradisi dell’infanzia, tanto cari a Jacques Tati, dove l’inventiva supplisce all’opulenza. La famiglia del bambino vive infatti nelle ristrettezze che tuttavia non paiono affliggere il protagonista. La vita sembra trascorrere senza eccessivi scossoni, quand’ecco che il padre, un umile venditore di tè alla stazione ferroviaria, convinto che si tratti di un'esperienza da non ripetere, porta moglie e figlio ad uno spettacolo cinematografico, che invece si rivela un vero e proprio spartiacque narrativo. "Il cinema non fa per noi", dice al figlio, convinto di troncare così ogni velleità per il futuro. Per noi spettatori, invece, è proprio quando il cinema cede il passo al metacinema, ovvero al Samay che osserva rapito le immagini sulla parete, che inizia un viaggio nella settima arte che proseguirà anche quando la famiglia terminerà di assistere allo spettacolo. Da questo momento, il filo narrativo messo in scena da Nalin si dipana su due versanti: il primo, quello concretamente iconico, costituito dalle immagini dei divi e delle dive che recitano in brevi spezzoni tratti dalla storia del cinema indiano visionati dalla famiglia di Samay; il secondo, rappresentato da oggetti ed allusioni che, pur presenti fisicamente all’esterno del cinema, sono veri e propri simboli che immancabilmente rimandano lo spettatore alla settima arte. E sono soprattutto gli aspetti più propriamente tecnici e fattitivi dei film tout court ad innervare la trama. Il regista indiano ci fa prima immedesimare nel piccolo Samay, e con una doppia regressione, quella biologica coincidente con l’età del protagonista, e quella storica con le riflessioni sulle modifiche che si possono apportare alle pellicole, rende poi metacinematograficamente "Last Film Show" un’esperienza che riconduce fino ai pionieri del cinema. Il bambino, infatti, non si limita ad assistere al film in sala, ma col passare dei giorni, stretta amicizia col proiezionista Fazal (cui spetta il ruolo di mentore) scopre i segreti del cinema.

I concetti che giocano a tal proposito un ruolo determinante sono tre: luce, movimento e narrazione. Fin dal primo spettacolo Samay percepisce che le immagini non nascono sulla parete ma sono il risultato della proiezione del fascio di luce che arriva dalle sue spalle e che questa si alterna all’ombra, e soprattutto che può essere ostacolata. All’esterno del cinema, l’accostamento all’occhio di banali cocci di bottiglia costituisce poi la scoperta dell’alterazione cromatica della realtà. Che le immagini statiche possano acquisire il senso del movimento è lo stadio successivo dell'autoapprendistato di Samay. Con un rudimentale proiettore costituito da un telaio, organizza dunque in piccolo uno spettacolo cinematografico dopo aver disposto in successione parti delle vecchie pellicole sottratte con un gesto prometeico da un deposito; oppure si diletta con gli amici nell’arte di ritagliarle e di ricombinarle in vario modo: è la scoperta, ludica, dell’arte del montaggio. Infine, a Samay che ormai vorrebbe fare il regista, Fazal svela che “basta saper raccontare bene”.  La sceneggiatura di "Last Film Show" presenta poi sotto traccia una linea narrativa parallela che si dipana in modo duplice: la forza del progresso che porta all’avvento delle pellicole digitali è la stessa che con (l’introduzione di treni diretti) limita i guadagni del padre di Samay. Un mondo apparentemente perfetto sembra a questo punto sgretolarsi e accomunare padre e figlio su un medesimo orizzonte dell’opposizione al progresso. Nalin tuttavia è narratore sagace e sa che una trama avvincente non può permettere che protagonista e antagonista condividano fino in fondo le medesime aspettative.

"Last Film Show" è molto altro: opera intrisa di palese omaggio (esplicito e implicito) a grandi registi del passato. Nell’incipit del film, prima ancora dei titoli di testa sono infatti citati i nomi di Andrej Tarkovskij, di Auguste e Louis Lumière, di David Lean, di Stanley Kubrick. Inoltre, per la raffigurazione dell’umile quadro familiare, del giovanissimo protagonista che è costretto a lasciare il villaggio per realizzarsi, il riferimento ad Apu de "Il lamento del sentiero" (1955) Satyajit Ray è fuor di dubbio. Vi è inoltre un ponte ideale perfino con Buster Keaton, grazie alle scorrerie compiute sul treno azionato manualmente da Samay e compagni. E sempre il treno, con il suo sferragliare ovattato dalla musica lisergica rimanda a "Stalker" (1979) di Andrej Tarkovskij. Al di là delle singole sequenze, per affinità tematica l’opera di Pan Nalin è accostabile a due illustri antecedenti nostrani che hanno parimenti celebrato la nostalgica magia del cinema in un'ottica autobiografica: "Nuovo Cinema Paradiso" (1988) di Giuseppe Tornatore e "Splendor" (1989) di Ettore Scola. Al netto delle differenti ambientazioni, è soprattutto il rapporto tra il proiezionista-mentore e il protagonista bambino a rendere la pellicola del regista indiano più consonante con quella dell’autore siciliano. Per quanto riguarda invece la dimensione ludica e sperimentale che lega al Cinema il mondo dei giovani, per la presenza dell’elemento autobiografico è d’obbligo l’accostamento al recente "The Fabelmans" (2022) di Steven Spielberg.


04/01/2024

Cast e credits

cast:
Bhavin Rabari, Richa Meena, Bhavesh Shrimali, Dipen Raval, Paresh Mehta


regia:
Pan Nalin


titolo originale:
Chhello Show


distribuzione:
Medusa Film


durata:
110'


produzione:
Monsoon Films, Jugaad Motion Pictures, Stranger88 Production


sceneggiatura:
Pan Nalin


fotografia:
Swapnil S. Sonawane


montaggio:
Shreyas Beltangdy, Pavan Bhat


costumi:
Sia Seth


musiche:
Cyril Morin


Trama
In un villaggio indiano del secolo scorso, il piccolo Samay, dopo la visione di un film, scopre con meraviglia i segreti del Cinema, tanto da cimentarsi con gli amici in piccole proiezioni fai da te grazie a un deposito di nuove e vecchie pellicole. Quando poi l’esistenza del vecchio cinema è minacciata dall’avvento dell’era digitale, i cinefili in erba ne ridipingono la facciata nella speranza di vedere gratuitamente i film. Il maestro di scuola, scoperta la vocazione del piccolo alunno lo instrada ai primi rudimenti sullo studio della luce. 
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