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recensione di Vincenzo Chieppa
7.0/10

Il cinema brasiliano contemporaneo è ormai da anni ammantato di quei caratteri di novità e freschezza che generalmente portano i commentatori a sancire la nascita di veri e propri movimenti di rifioritura artistica e culturale in campo cinematografico. E così da "City Of God" (ma senza scordare "Central Do Brasil") si parla ormai, da anni e da più parti, di un nuovo cinema brasiliano come erede indiretto del Cinema Novo, nato negli anni Sessanta sotto l’influenza del Neorealismo e della Nouvelle Vague. Il primo (postmoderno) condivide col secondo (moderno) soprattutto l’idea di un cinema fortemente politico, come ha dimostrato, per l’appunto, lo stesso capostipite "Cidade De Deus".

"Chuva É Cantoria Na Aldeia Dos Mortos" è girato in 16 mm da João Salaviza, giovane regista portoghese con alle spalle una lunga serie di cortometraggi e un solo lungometraggio, e da Renée Nader Messora, brasiliana di São Paulo, al suo debutto alla regia (dopo essere stata assistente dello stesso Salaviza). Ed è proprio quest’ultima ad essere la vera anima di un film decisamente ambizioso, presentato al Festival di Cannes 2018, nella sezione Un Certain Regard, all’interno della quale si è aggiudicato il premio speciale della giuria.

C’è lei, infatti, dietro la macchina da presa – nel ruolo di direttore della fotografia e operatore – ed è lei ad aver trascorso diversi anni nel villaggio indigeno di Pedra Branca, nel nord del Brasile, in piena Foresta amazzonica, nell’ambito di un progetto che le ha consentito di guadagnarsi la confidenza e la fiducia di quelle comunità i cui membri sarebbero poi diventati gli attori non professionisti di "The Dead and the Others" (questo il titolo internazionale con cui è conosciuta la pellicola, meno poetico dell’originale portoghese, che suona invece come La pioggia canta nel villaggio dei morti).

La storia è quella del 15enne Ihjãc, un indigeno Krahô che riesce a entrare in contatto con il padre defunto, ricevendo da questi il compito di organizzare la cerimonia rituale della fine del lutto, affinché il suo spirito possa andarsene nel villaggio dei morti. Ma il giovane, cui vengono attribuite doti sciamaniche per questa sua capacità di parlare con i defunti, inizialmente si sottrae e scappa nella città più vicina, dove è costretto a confrontarsi con la sua condizione di indigeno nel Brasile contemporaneo.

Fin dalla prima sequenza, la regista e d.o.p. dà atto di una serie di scelte che accompagneranno l’intera pellicola: l’idea di girare molte scene in notturna, spesso con la sola luce naturale; il fatto di privilegiare i piani ravvicinati e il dettaglio, pure in un contesto paesaggistico, quello della Foresta amazzonica, che ben si presterebbe a un ampio utilizzo dei campi lunghi, che pure non mancano. L’effetto è sublime, di una totale immersione nell’ambiente e nelle vicende narrate, pur così lontane dal punto di vista del contesto sociale e culturale. La storia passa in secondo piano, risvegliandosi soprattutto nello spettatore l’interesse e la curiosità antropologici, per un’opera che è efficacemente a cavallo tra fiction e documentario (ricordando, in ciò, l’approccio di un autore interessantissimo quale Roberto Minervini e, in particolare, il suo "Stop The Pounding Heart"). Ed infatti, in Italia l’opera ci è arrivata, sempre nel 2018, nell’ambito della sezione Internazionale.doc del Torino Film Festival, prima di essere distribuita in v.o.d. soltanto nel 2020, nell'ambito di una rassegna sul New Brazilian Cinema proposta da Mubi.

Se da un lato – e pur in un contesto generale in cui la natura del soggetto può non essere evidente – gli elementi di fiction sono ben delineati fin dalle prime scene (il padre defunto che parla al figlio protagonista), di contro il lavoro di sceneggiatura sembra comunque passare in secondo piano davanti alle istanze etnografiche. Ed è dunque, più che altro, la stessa circostanza per cui il film si concentra su riti e costumi (dallo sciamanismo ai rituali post-funebri) di quell’etnia indigena che conta poco più di tremila membri a imprimere un innegabile taglio documentaristico.

Si viene così a costituire l’ennesimo esempio di quel filone denominato ethnographic fiction, che in quello stesso anno aveva deliziato molti cinefili con "Oro verde – C'era una volta in Colombia", anch’esso presentato a Cannes 2018 (nella Quinzaine), ma che ha avuto più fortuna dal punto di vista distributivo. Due film concettualmente molto vicini, eppure separati – oltre che da due trame totalmente diverse – da un approccio cromatico antitetico (tinte calde e grande saturazione per il film colombiano; una palette di colori naturalistici e tendenzialmente opachi per quello brasiliano). Ma anche - e soprattutto - dal fatto che in "The Dead and the Others" manca quasi completamente quell’aggancio al film di genere che invece caratterizza "Pájaros De Verano".

L’intimità tra i membri della comunità Krahô e i (pochi) componenti della troupe (oltre ai due registi, un antropologo che si è adattato a fare il tecnico del suono) è assolutamente palpabile in "The Dead And The Others", a dimostrazione di un grande lavoro preparatorio che è stato forse l’aspetto più interessante della produzione di quest’opera sui generis, che ha richiesto nove mesi di lavorazione.

Ma le istanze etnografiche passano necessariamente in secondo piano in quella parte di film in cui prevale, invece, la componente politica. È la lunga sequenza che vede il protagonista fuggire dal villaggio verso la città, dopo che lo sciamano lo ha riconosciuto essere investito di poteri analoghi ai suoi. La condizione dell’indigeno nel Brasile contemporaneo, corpo estraneo in una società moderna poco attenta a quelle realtà così interessanti da un punto di vista antropologico, diventa il punto focale della narrazione che divide in maniera netta la lunghissima parte introduttiva (quasi un’ora) dal finale, in cui si compie il rituale post-funebre che dà conto di una peculiare modalità di elaborazione del lutto.

Una parte finale che, peraltro, si chiude in maniera simmetrica al prologo, con un explicit che ricalca l’incipit per ambientazione, luci e per la stessa raffigurazione fortemente simbolica. Un epilogo che si presta a molteplici interpretazioni, che dipendono dalla conformazione culturale di chi osserva, come hanno avuto modo di notare i due registi presentando il film in giro per il mondo: chi è assuefatto al materialismo occidentale tende a pensare ad un finale tragico (un presunto suicidio del protagonista); coloro che invece hanno una forma mentis aperta alla spiritualità interpretano quel tuffo nell’oasi da parte di Ihjãc come un ricongiungimento, con la natura e con il genitore scomparso. Un’esegesi, quest’ultima, sicuramente più vicina alla tradizione animista dei Krahô.


08/07/2020

Cast e credits

cast:
Henrique Ihjãc Krahô, Raene Kôtô Krahô, Douglas Tiepre Krahô


regia:
João Salaviza, Renée Nader Messora


titolo originale:
Chuva É Cantoria Na Aldeia Dos Mortos


distribuzione:
Luxbox


durata:
114'


produzione:
Ancine, Entrefilmes, Instituto do Cinema e do Audiovisual (ICA), Karõ Filmes, Material Bruto


sceneggiatura:
Renée Nader Messora, João Salaviza


fotografia:
Renée Nader Messora


montaggio:
Ricardo Alves Jr., Thiago Macêdo Correia, José Edgar Feldman, Renée Nader Messora, João Salaviza


Trama
Brasile, in un villaggio indigeno della Foresta amazzonica. Il quindicenne Ihjãc, appartenente all'etnia Krahô, entra in contatto con il padre defunto, ricevendo da questi il compito di organizzare la cerimonia rituale della fine del lutto, affinché il suo spirito possa andarsene nel villaggio dei morti.
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