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Un regalo di Natale a sorpresa per i nostri lettori: pubblichiamo una monografia del padre del Neorealismo. Una disamina sui suoi successi, le sue metamorfosi imprevedibili, passando dalla fotografia dell'Italia della Resistenza e del Dopoguerra, fino alle spericolate sperimentazioni televisive

A partire dal secondo Dopoguerra, il cinema italiano ebbe un periodo di straordinario fulgore, un momento nel quale fu capace di stravolgere o innovare buona parte dei codici filmici pregressi e insieme di riattualizzare in chiave nuova la tradizione precedente, non solo cinematografica, ma anche relativa alla propria cultura vernacolare, della tradizione popolare e dialettale, entrambe legate a commedia e melodramma. È un cambiamento dall'incredibile portata, che non colpiva solo alcuni aspetti della sceneggiatura (ad esempio, una più vivida e realistica descrizione linguistica) o del soggetto trattato, ma concerneva un differente modo di vedere, di narrare. Nella fattispecie, alcune primissime opere-cardine della corrente neorealista affondarono le proprie radici nella peculiare situazione storica e antropologica, quella sospesa tra le macerie di un doloroso passato e la speranza in un futuro migliore, dominata dallo sforzo comune di ricostruire non solo fisicamente, ma anche moralmente il nostro paese. Di tali temperie culturali è figlio un gruppo di registi, alcuni al loro primo lavoro, altri con qualche esperienza pregressa durante la precedente dittatura fascista, tra i quali spiccano quattro nomi in particolare: Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Giuseppe De Santis e Roberto Rossellini. E per comprendere a fondo i caratteri formali e tematici di quest'ultimo, risulta necessario fare un passo indietro, alla sua infanzia, all'ambiente in cui è cresciuto e al percorso formativo in cui sono situati i presupposti dei futuri lavori.

Determinanti sono state anzitutto le sue origini: fu, forse, la duplice e ossimorica natura del suo nucleo famigliare a determinare la peculiare e complessa ricerca artistica, la sua unica e paradossale visione del mondo. Quasi materializzazione dei due poli antitetici che ne ispirarono la futura produzione, si stagliano i due capostipiti della famiglia Rossellini, il nonno paterno Luigi e suo fratello Zeffiro. Il primo conduceva un'esistenza al limite dell'anarchico, e nelle proprie memorie il fratello di Roberto, Luigi, lo tratteggia come "un uomo estremamente semplice, non dimentico delle sue umili origini" che "viveva da bohemièn, ma senza posa, per naturale disposizione d'animo", un artista genuino che "faceva il pittore per diletto, con un disinteresse totale per la fama o una qualsiasi qualificazione professionale". Immediata è allora l'affinità con lo spirito libero del regista, che non fu mai vincolato nella propria carriera da ideologie rigide, ma che mantenne sempre la sua autonomia nel raffrontarsi a ciò che lo circondava; lo stile di vita artistico e quasi primitivo trasmessogli dal nonno lo rese inoltre capace di rendere quell'anarchica poesia utilizzata nella descrizione delle sfere più umili in una forma empatica con esse (ad esempio, nell'episodio napoletano di Paisà).
Secondo modello esistenziale e valoriale, del tutto opposto, è quello rappresentato da Zeffiro che, originario della Toscana, si traferì a Roma in gioventù e qui ebbe una notevole carriera nell'edilizia. Questi, pragmatico e volitivo, era membro impeccabile dell'alta borghesia romana e come tale ne sosteneva la rigida etichetta. Il nipote Angelo Giuseppe (padre di Roberto) non solo ne seguì le orme, ma ne condivise anche l'attitudine più severa e lo stile di vita agiato; questo secondo polo d'influenza è stato altresì determinante nella rappresentazione del bel mondo e dei suoi costumi.

Nato dunque a Roma l'8 maggio 1906 in un contesto assai privilegiato, Rossellini ebbe il terzo essenziale punto di riferimento nel padre. Se infatti la madre Elettra Bellan era ricordata dalla sorella come "bionda, bellissima, fragile", era la severa e volitiva figura paterna a definire l'orizzonte educativo dei figli, oltre che quello sociale ed economico, essendo un affermato costruttore. Tuttavia, tutt'altro che arido, Angelo Giuseppe era in realtà grande appassionato di musica e letteratura, tenore dilettante che aveva un'adorazione per Wagner e, a causa di un'irresistibile pulsione letteraria, nelle poche ore notturne libere dalle attività lavorative era dedito alla scrittura. È proprio lui l'epicentro della formazione culturale dei figli, di Roberto nella fattispecie, che, seppure avesse seguito studi classici, mal tollerava la ripetitività e il nozionismo delle scuole religiose frequentate, ma, dato il suo animo curioso, seguiva più volentieri un iter meno metodico e più legato agli interessi del momento (come d'altra parte anche il padre ai suoi tempi). Il regista non frequentò l'università e la sua futura carriera fu definita più dal caso e dalle passioni nate in periodo scolastico (le frequentazioni domenicali con nonno Luigi del cinema Radium).

Parte prima: dalle opere giovanili ai capolavori neorealisti


L'approdo al mondo cinematografico fu per Rossellini, più che una vocazione lavorativa, l'evoluzione naturale di uno stile di vita intrapreso in gioventù. Evento determinante per la scelta di tale strada fu la morte del padre nel 1931; questi, avventato nella gestione della società, aveva già minato in precedenza la solidità del patrimonio di famiglia, ma la moglie e i figli ne risentirono gli effetti solo quando mancò. Subito dopo, difatti, le loro finanze erano decisamente diminuite e, mentre la madre e i tre fratelli, Renzo, Marcella e Micaela si trasferirono a Varese, Roberto decise di mantenere la vita avventurosa e mondana che aveva avuto in precedenza. Sussisteva solo un problema: il mantenimento senza una rendita o un lavoro; la risposta ovvia fu il cinematografo, che in quel momento si stava affermando a Roma (dopo il florido periodo del muto e anni di decadenza), complice un insieme di incentivi e interventi legislativi che avevano aiutato l'industria filmica nostrana.
Rossellini iniziò a lavorare in questo settore tra il '33 e il '34 dacché, come lui stesso aveva affermato, prima svolgeva "un mestiere molto migliore, che era quello del figlio di famiglia". Le sue prime mansioni furono nel reparto tecnico e secondo il critico e attore Ettore G. Mattia questi entrò "dalla porta del reparto sincronizzazione, in un primo momento per gli effetti sonori, poi per il doppiaggio", poi scrivendo le sceneggiature e come macchinista. Per quello che riguarda invece il suo futuro mestiere vero e proprio, ossia la regia, le sue prime prove furono tutte assai amatoriali, eppure contenenti in sé le radici delle future qualità stilistiche. Compresi tra il 1935 e il 1940, sarebbero tre i lavori giovanili, tutti contraddistinti, oltre che dall'inventiva per creare effetti che sopperissero alla mancanza di fondi, dal carattere naturalistico e dalla declinazione latamente morale, quasi piccole fiabe alla Fedro o Esopo (come asserisce Rondolino). Si trattava di documentari, sospesi tra un'aura novellistica e una realistica ripresa di soggetti comuni, aspetto poi condiviso nella produzione di maggior rilievo.
Del primo cortometraggio si sono perse le tracce, viene ricordato solo dalla moglie, Marcella de Marchis, con il titolo di Daphne (forse è lo stesso menzionato da Rossellini in un'intervista a Mario Verdone con il nome di Prélude à l'après-midi d'un faune), opera iniziata e mai finita, né tantomeno vista da alcuno. Gli altri due sono invece regolarmente registrati nell'Annuario del Cinema Italiano come Fantasia sottomarina e Il Ruscello di Ripasottile. L'uno, elaborato con mezzi di fortuna e una produzione "domestica", era incentrato su un acquario e girato nella casa di Ladispoli; il soggetto era infatti un gruppo di pesci presi, secondo quanto racconta la de Marchis, a Civitavecchia e trasportati fino a una vasca riempita con acqua di mare filtrata dalla donna con le lenzuola del suo corredo. Il girato, tuttavia, non si limitava a ritrarre gli animali marini, ma era inscenava una vicenda, sostenuta da una sorta di struttura diegetica. L'ultimo corto di Rossellini si rifà sempre alla narrativa a carattere naturalistico, ma la struttura diviene più complessa, complice anche la presenza di un produttore, l'amico Franco Riganti. Il lavoro era diviso su due set, un ruscello sempre vicino alla suddetta residenza e l'Istituto Ittiologico di Roma e, insieme agli abitanti del piccolo corso d'acqua, erano coinvolti gli animali e gli uccelli del boschetto circostante.

Se il cinema è stato nei primi anni un'occupazione saltuaria, che permetteva a Rossellini lunghe pause, con la nascita del primo figlio fu necessario intensificare l'attività lavorativa per mantenere la famiglia e fu naturale il passaggio a sceneggiatore e aiuto-regista. Proprio con questa seconda mansione fu per lui possibile perfezionare la tecnica e lo stile, venendo a contatto con autori e personaggi politici che ne avrebbero decretato la carriera. In particolare, fu l'incontro col figlio del Duce, Vittorio Mussolini, a determinare una notevole svolta. Presentatogli dal compagno di scuola Franco Riganti, Mussolini era giornalista e aveva due passioni: gli aerei e il cinema, argomento sul  quale aveva fondato l'omonima celebre rivista. Il regista dunque si avvicinò al partito fascista solo attraverso questa frequentazione, non per credo politico, ma più che altro per poter lavorare. Dal 1939, infatti, l'Italia fascista entrò in guerra contro Francia e Inghilterra, al fianco della Germania. In quegli anni la popolazione era costantemente sottoposta - attraverso la radio, la stampa e la produzione filmica - a una pressante propaganda, che da una parte spronava i cittadini a sostenere gli ideali del regime e lo sforzo bellico, dall'altra forniva una tendenziosa versione degli scontri e dei risultati militari e politici. I documentari, girati per conto dell'Istituto Luce, erano il mezzo eletto per informare e condizionare il grande pubblico. Fu proprio in tale contesto che si inserirono le successive tre opere di Rossellini, definite, per via del tema trattato, La trilogia della guerra.

rosselliniLa nave bianca (1941), realizzato in collaborazione con il Ministero della Marina, era incentrato su interpreti tutti presi nel loro ambiente reale di lavoro e ritratti durante lo svolgimento delle loro mansioni quotidiane, tratto che verrà condiviso, in diversa declinazione, nella neorealista propensione di scegliere persone di strada e non attori professionisti (tale aspetto era probabilmente ereditato da Francesco de Robertis, inizialmente alla direzione della pellicola e pioniere in questo senso). A ciò si unisce un altro carattere tipico della futura poetica, la coralità della narrazione. Da una parte, i personaggi vengono raccontati nei momenti di stasi prima della battaglia, mentre parlano delle avventure amorose o delle fidanzate a casa. A dare ulteriore freschezza alle scene è il colorismo linguistico e dialettale che sarà poi ancor più evidenziato nel capolavoro rosselliniano Paisà, in entrambi i film a definire un'italianità multiforme anche dal punto di vista linguistico. Dall'altra parte, in modo quasi ossimorico, sono alternate le inquadrature, decisamente propagandistiche, delle navi da guerra dei cannoni e degli armamenti, in una prospettiva dal basso in alto (come avveniva in alcune riprese propagandistiche dei protagonisti della cinematografia sovietica, segnando un'affinità nei canoni di presentazione dell'immagine). Chiaro è qui l'intento di celebrare la grandezza dell'italico arsenale, l'efficienza delle manovre strategiche e del regime in generale. Certo, il soggetto principale del documentario non era, secondo la volontà della committenza, l'uomo, ma la perfetta macchina militare, di cui vengono mostrati gli ingranaggi nell'assalto navale, dei quali fa parte anche il personale a bordo. Tra ordini e cannoni rombanti, seguendo il motto "uomini e macchine ad un sol pulpito" sono assimilate le due entità, esaltati la tecnologia e il sacrificio, in opposizione al nemico, che fugge celandosi nella nebbia creata dagli spari. Tuttavia non la Marina, ma la guardia medica è il soggetto centrale, coinvolta anch'essa nell'inno per immagini, e i feriti sono subito curati da alacri medici e infermieri, conferendo alla crudezza del combattimento il volto più umano di coloro che assistono le vittime, che prevedibilmente sono guarite con successo. Gli spezzoni sulla nave medica paiono affermare: "Gli eroi della patria hanno affrontato grandi sacrifici per lei, ma ne sono accuditi e ripagati". Infine le infermiere, figure angeliche con le loro tenute bianche, chiudono il film sempre a rinforzare tale messaggio. Tuttavia non si trascura nemmeno una piccola parentesi rosa, sempre e comunque tesa a esaltare l'abnegazione a favore dello Stato: un giovane marinaio, che a inizio pellicola parlava coi compagni della "madrina" con cui intratteneva una corrispondenza epistolare a tratti romantica, si ritrova proprio nella corsia dove la donna lavorava come volontaria. Lei lo riconosce dal ciondolo, tuttavia non vuole rivelarsi (non si erano mai visti), poiché non può anteporre le proprie velleità personali, esprimendo preferenze per un solo malato. La nota amorosa alleggerisce allora la drammaticità, ma soprattutto ribadisce il messaggio centrale che sprona al sacrificio collettivo.
La nave bianca fu presentato al Festival del Cinema di Venezia nel  1941 e vinse il premio speciale della giuria, La Coppa P.N.F (Partito Nazionale Fascista).

Nel luglio del medesimo anno il cineasta iniziava già a lavorare alla seconda opera della Trilogia: Un pilota ritorna. Sempre in ottica di esaltazione del potenziale militare nostrano, al mare si alternano i cieli, dove l'aviazione imperversa, in una pellicola finanziata dall'Aci (di cui era capo Vittorio Mussolini e amministratore delegato Riganti) e sceneggiata da Rosario Leone, Massimo Mido e da niente meno che Michelangelo Antonioni. Anche in questo lavoro sono aperte parentesi più leggere, che raffigurano i piloti a tavola insieme o in città in dolce compagnia, anche se, persino attraverso le bocche delle signore, sono intessute le lodi dell'arma italica (in particolare, con un'avvenente bionda intenta a leggere il giornale). Inoltre, viene ripresa l'esaltazione dell'avanzamento tecnico dell'esercito, evidenziato nelle scene di volo, con i velivoli militari disposti in assetto da battaglia. La camera riprende allo stesso modo del precedente documentario i piloti e i particolari all'interno degli aerei: le leve, le rifiniture, l'altimetro e le terribili bombe che cadono, alternandoli ai volti e ai corpi, così da avvicinare gli uomini  alle macchine, secondo l'estetica meccanicista-futurista che fu centrale nella produzione artistica del regime. Netto punto di svolta nel film è però la caduta dell'aereo del sottotenente Rossati, fatto poi prigioniero dagli inglesi e consegnato ai greci. In una sorta di contraltare delle linde sale operatorie di La nave bianca, qui il protagonista s'imbatte in un malcapitato, operato in una stalla, dove gli viene amputata la gamba da un medico italiano. Si ripropone altresì il solito l'ingrediente amoroso, nel celere avvicinamento tra la figlia del dottore (infermiera improvvisata e sempre  proposta allora come donna angelica e premurosa) e l'aviatore. Componente del tutto nuova, e decisamente più interessante, sono le scene girate all'esterno a Viterbo e Tirrenia dell'antieroica marcia dei prigionieri malconci, malati e affamati, che sembra sottolineare la durezza e le terribili conseguenze degli scontri, invece di glorificare le conquiste del regime. Le immagini, decisamente più drammatiche, mostrano civili e militari che abbandonano il campo, la distruzione causata dagli inglesi disumani, che bruciano tutto, mentre gli indifesi sono vessati. Certo di propagandistico c'è l'immagine poco lusinghiera con cui è presentato il nemico nell'ottica di screditarlo, ma la devastazione causata dalla guerra è preponderante, in quell'estetica delle macerie che sarà tratto distintivo nel suo capolavoro Germania anno zero.

Agli inizi del 1942 Rossellini era ormai considerato uno dei migliori registi esordienti e corteggiato da molte case produttrici, in particolare ne preferì una, la Continentalcine di Secondo Morielli, con cui iniziò a collaborare. Ne nacque il terzo capitolo della serie, sulle forze di terra e sull'apporto dei religiosi nel conflitto, protagonista è difatti un cappellano militare. Nell'incipit un ferito non può muoversi e il religioso per stargli accanto abbandona il resto delle truppe che stanno avanzando; i due, lasciati indietro, vengono così fatti prigionieri dal nemico, questa volta si tratta dell'esercito sovietico. Se le riprese legate alla capacità distruttiva della macchina bellica, come le parentesi quotidiane (solo la prima sequenza dove in attesa dello scontro dei giovani soldati scherzano tra loro e parlano delle loro preoccupazioni), hanno stavolta minore spazio, sono eroismo, sacrificio e fede a dominare. I nemici disumani, demonizzati sono antitetici all'uomo di chiesa, umano e comprensivo verso tutti - fatto comprensibile, visti i committenti. Tratto mal riuscito qui è il conseguente eccesso di retorica, che si fonda su un patetismo di fondo che accomuna i personaggi e i dialoghi della pellicola a quelli del romanzo popolare. Le donne autoctone, incontrate nel rifugio improvvisato, subito riconoscono l'autorità religiosa, nella precettistica idea che il popolo, i semplici non appoggino la deviante dottrina comunista, ma la subiscano. Il film è dunque caratterizzato da una netta dualità: le scene posticce, da melodramma, incentrate su sentimentalismi scontati (pare in questo caso essere stato determinante il supervisore e autore del soggetto Asvero Gravelli) e la succitata registrazione del vero, la documentaria resa delle compagini dell'esercito italiano, che sopraggiunge a suon di mortai, lanciafiamme e carri armati. 

rossellini_3Le riprese incontrarono mille difficoltà, nel '42-'43 la situazione nel paese precipitò e certo Rossellini non ebbe la necessaria tranquillità di portare a compimento ciò che aveva iniziato. Non solo, questi ricercava il realismo, mentre gli era richiesto un prodotto ben differente e un maggior rispetto per il copione, a cui lui opponeva libertà, improvvisazione e naturalezza nel girato.
Se quindi il regista non fu certo soddisfatto del risultato finale, ancor meno lo furono i produttori, il materiale fu ampiamente rimaneggiato e, probabilmente a causa dello screzio e del suo modo di lavorare, egli venne messo al bando dal Consorzio Nazionale dei Produttori di Film. Tale provvedimento fortunatamente durò poco e, per intercessione di Vittorio Mussolini, gli fu possibile tornare a lavorare a un'altra opera assai travagliata, Desiderio. Basata su un soggetto di Anna Previtali e inizialmente intitolata Scalo Merci (poi Rinuncia), la storia scritta da De Sanctis (anche aiuto alla regia), da Leone e da Diego Calcagno, avrebbe dovuto essere collocata tra Milano, lussuoso luogo di perdizione, e Roma, in una più umile ambientazione ferroviaria. Tuttavia, i bombardamenti, gli scontri e l'armistizio, con il sopraggiungere del 1944, resero il progetto inattuabile e al posto del capoluogo lombardo venne scelta la campagna, creando un'ancora più netta contrapposizione tra corrotta vita cittadina e semplice e onesto mondo rurale.
Protagonista combattuta è Paola, donna di mondo che una mattina assiste al suicidio di una giovane e incontra Giovanni, di cui poi s'innamora. Lei, compromessa, temendo il giudizio di lui, fa ritorno in campagna, dalla famiglia, dove la sorella Anna si è appena sposata. I suoi cari tuttavia sono freddi e imbarazzati e presto iniziano a circolare voci compromettenti. Inoltre, il cognato viene preso da una terribile brama per Paola e Riccardo, uomo sposato con cui aveva avuto un'avventura (causa della sua perdizione e partenza per Roma), ne è ossessionato e la ricatta. Tutti paiono agire contro di lei, gli uomini la desiderano e le donne la emarginano. Storia melodrammatica, che ricalca per molti versi l'atmosfera torbida del viscontiano "Ossessione", il film ebbe problemi non solo nella realizzazione, ma anche nella distribuzione e uscì solo nel 1946, peraltro tagliato dalla censura, con la doppia paternità Rossellini-Pagliero (che vi mise ampiamente mano), con ovvie conseguenze sul risultato finale.

rossellini_roma_citta_apertaSono gli anni a cavallo tra il '43 e il '44, la situazione è drammatica e la produzione di Desiderio viene momentaneamente interrotta, mentre Rossellini si è nel frattempo separato dalla moglie e dai figli, messi al sicuro in un convento, e abita con Roswita Schmidt (che reciterà nel sopracitato film). Il cinema ormai è lontano (nel '44 l'industria cinematografica a Roma è inattiva e Cinecittà è stata trasformata dagli americani in un campo-profughi). Abbandonate le amicizie fasciste, con gli uomini del regime ormai ritiratisi al nord, nella Repubblica di Salò, l'autore compie una netta scelta di campo e si avvicina alla Resistenza. Con De Sanctis e l'amico Sergio Amidei inizia a partecipare alle riunioni politiche clandestine e proprio in tale contesto scaturisce l'idea del suo grande capolavoro: Roma città aperta. In attesa della liberazione, molti giovani intellettuali e cineasti si riunivano infatti per realizzare opere che trattassero del periodo drammatico ed esaltassero il popolo e quegli eroi tanto comuni, e insieme tanto coraggiosi, che si erano schierati contro gli invasori. Proprio in questo contesto era stato ideato il soggetto del mai realizzato G.A.P (Gruppo di Azione Patriottica) legato alla guerriglia urbana, nello specifico alla vicenda di una donna, Teresa Gullace, uccisa a Roma dai tedeschi. Molto simile, forse dacché ne condivideva fatti e luoghi, era la pellicola rosselliniana. Protagonisti, seppure in un contesto corale, erano Anna Magnani, divenuta poi diva assoluta del movimento, e Aldo Fabrizi. Siamo ancora nel periodo dell'occupazione tedesca della Capitale, l'una, interpreta Pina (personaggio ispirato alla Gullace) che, compagna di un partigiano e madre, è in procinto di sposarsi, ma il marito è catturato in una terribile retata; l'altro è il Don Pellegrini, ispirato all'eroico Don Morosini, schieratosi con le forze della Resistenza e per questo ucciso dai nazisti, nella finzione filmica fucilato davanti a un gruppo di ragazzi.
Il soggetto è forte, come lo sono certe scene: emblematica è la sequenza, ripresa dal menzionato fatto di cronaca e divenuta simbolo dell'intera corrente, in cui la donna insegue l'amato, portato vie da un convoglio nazista e mentre urla "Francesco!" viene crivellata dai colpi d'arma da fuoco, in mezzo alla strada. C'è però molto di più: in primo luogo, c'è l'esperienza dell'autore stesso, l'angoscia di quei giorni, registrata con vivido realismo e concretizzata da personaggi veri, senza più quell'affettazione tipica della precedente recitazione. Vige ora il realismo, auspicato da Rossellini, e non vi sono più imposizioni, come il regista stesso afferma nella propria autobiografia: "Nel 1944, subito dopo la guerra, tutto era distrutto in Italia. Il cinema come ogni altra cosa. Quasi tutti i produttori erano spariti. Qua e là fiorivano alcuni tentativi, ma le ambizioni erano estremamente limitate. Si poteva godere di un'estrema libertà, l'assenza di un'industria organizzata favoriva le iniziative più eccezionali. Qualsiasi progetto andava bene. Fu questo stato di cose a permetterci di intraprendere lavori a carattere sperimentale; ci si accorse ben presto che i film, malgrado tale carattere, divenivano opere importanti, tanto sul piano culturale che su quello commerciale".

È dunque un periodo eccezionale, in cui i mezzi sono pochi, ma la libertà è totale. In tempo di ideali condivisi, il messaggio diviene essenziale, rendendo le opere realizzate in queste condizioni uniche, e fondando un vero e proprio vocabolario iconico, poi assunto a marchio di fabbrica della nuova cinematografia italiana. A ciò si accompagna l'immediatezza: se viene elaborato un copione, l'autore non si attiene ad esso e segue la propria naturale predisposizione all'improvvisazione, apportando continue trasformazioni alla struttura in fieri. A ciò si aggiunge l'ambientazione, soprattutto in esterni e location improvvisate, dacché ovviamente non era possibile lavorare in studio e non esisteva un set, ma si girava dove capitava, con mezzi e allestimenti di fortuna, con mezzi limitatissimi e alla giornata.
Il risultato è eccezionale: in un'estetica inedita, i fotogrammi rispecchiano perfettamente la realtà dei fatti, presentando senza fronzoli lo status quo di una nazione semi-distrutta e in preda al terrore e alla confusione. Infine, è l'aspetto umano, la capacità nel drammatico momento storico di rappresentare insieme ideologie e posizioni politiche, quella cattolica e quella comunista, che di lì a poco si sarebbero scontrate (si vedano gli emblematici film di Don Camillo e Peppone, che documentano con ironia l'opposizione netta tra i due poli). Tutti i personaggi sono condotti, prima di tutto, da una profonda solidarietà, di matrice cristiana, scaturita nell'autore dal suo credo e ripresa poi, in versione paradossale, nella protagonista - e figura cristologica - di Europa '51.

rossellini_4Inizialmente l'opera riscuote tiepidi consensi di pubblico e una certa freddezza dalla critica. Per la sua meritata consacrazione bisognerà aspettare il 1946, quando Roma città aperta vincerà il Gran Premio al primo Festival di Cannes e sarà nominato all'Oscar per la sceneggiatura, firmata da Rossellini, Amidei e Fellini, assurgendo così ad opera simbolo e finalmente ottenendo il riconoscimento dovuto anche nel Belpaese.
Nel 1945, gli americani di stanza nella Capitale ne scoprono la bellezza e ne rimangono estasiati. Si creano così le premesse per una coproduzione italoamericana per il successivo Paisà - in principio intitolato Left Behind, successivamente Seven from US (gli episodi avrebbero dovuti essere sette, non sei, e terminare in Valle d'Aosta). La narrazione, per episodi, seguiva l'avanzata dell'esercito americano nella liberazione del territorio italiano, regione per regione, dal Sud al Nord tra il 1943 e il 1945.
Se, anche in questo caso, vi è una qualche forma di sceneggiatura, stesa da Amidei e Rossellini, con partecipazione di Fellini (che ne determinerà la patina latamente fantastica), essa rappresenta più che altro un canovaccio; come di consueto, molto viene lasciato alla creazione spontanea, e l'ultimo episodio, quello dei partigiani del delta del Po, viene addirittura improvvisato addirittura scena per scena.
Procedendo dunque in un variegato iter per l'Italia, la troupe sosta a Maiori (vicino ad Amalfi) per il primo e il quinto episodio, a Napoli per il secondo, a Roma per il terzo, a Firenze per il quarto, a Porto Tolle (Delta del Po) per il sesto. Ne scaturisce così un affresco variegato di tutte le forme di italianità coraggiosa, combattiva e dolente, in cui si alternano nella recitazione attori professionisti e abitanti del luogo. È il racconto per immagini di un paese sofferente, tra il lutto e  le macerie, in un affresco sociale che si alterna tra il racconto drammatico e il bozzetto folklorico (indimenticabile e tenerissima è la storia d'amicizia tra il bambino napoletano e il soldato americano).
Giudicato il capolavoro rosselliniano, Paisà riesce a descrivere tutta la tragedia del Dopoguerra, eppure i toni sono dimessi, in una forma tra il documentario e la videocronaca: è la verità che domina e commuove, senza nessun bisogno di artefatto. In questo film Rossellini, totalmente libero dai vincoli della diegesi (data la struttura), poté dare il meglio di sé e procedere per singole scene, cristallizzate nell'attesa, momento che lui stesso riconosceva ideale per meglio delineare le psicologie dei personaggi. I protagonisti di ogni capitolo agiscono allora in un imperante senso di sospensione, aspettando un evento incombente, oscuro e inevitabile. Dalla parentesi amorosa della ragazza siciliana, all'amicizia dello sciuscià con il soldato americano, dal tentativo di riscatto della giovane romana all'affannosa ricerca dell'amato della donna fiorentina, al digiuno dei frati romagnoli, fino ai partigiani del Delta del Po, si tratta dell'immagine di un'umanità sofferente, catturata in un momento di stallo, una pausa prima che la terribile realtà, sia essa morte, dolore o miseria, inesorabilmente li travolga nell'epilogo. Opera aperta, fonte di molteplici riflessioni e capace di rappresentare le diverse anime posizioni del paese, Paisà rappresenta forse più di ogni altra pellicola, la vera essenza del neorealismo, lo slancio morale e la capacità di rendere la vera essenza del popolo italiano di quel periodo storico, nelle sue diversità e, al contempo, nella sua estrema unità.

Giunge l'estate del 1946, Paisà è ormai in fase di montaggio, quando il regista si trova ad affrontare un terribile dramma: il primogenito Romano, recatosi in visita dalla nonna materna e da una zia a Barcellona, muore improvvisamente a causa di una malattia mal curata. E' un dolore terribile, che provoca in Rossellini una crisi spaventosa, che l'avvicina alla Magnani stessa, madre di un bambino nato con una paralisi infantile. Il dolore unìrà i due, che avranno anche una storia sentimentale.
E' così con uno stato d'animo dilaniato che il regista inizia la gestazione di una terza opera relativa alla trilogia sulla Resistenza e il dopoguerra: Germania anno zero. Dopo aver trascorso qualche tempo nella capitale francese, l'autore si muove alla volta di Berlino, dove intendeva girare una pellicola, come aveva richiesto alla Union Générale Cinématographique. Il primo viaggio è solamente esplorativo, ne scaturiscono copiosi appunti sulla metropoli e sulle persone. Se il soggetto non è ancora definito, una volta sul luogo, saranno poi la città stessa, semidistrutta dai bombardamenti, e i suoi abitanti a divenire il fulcro della narrazione.
Centro della trama è la vicenda di un fanciullo, Edmund, che, indottrinato con false credenze da un perverso professore e tarato da un ambiente familiare degenerato, viene portato a compiere un atto terribile: il parricidio. In realtà, il finale inizialmente avrebbe dovuto lasciare adito alla speranza, a un possibile ravvedimento, ma viene successivamente sostituito con il tragico epilogo, il suicido del piccolo, senza alcuna possibile redenzione. Terribile è anzitutto il ritratto del nucleo domestico: il padre, infermo e infelice, che pesa sulla famiglia, il fratello, prima nelle Ss e poi disertore, e la sorella, che scompare tutte le sere e torna con beni di lusso (è facilmente ipotizzabile la sua occupazione). Privo del tutto di modelli positivi, il ragazzino viene così facilmente traviato dal suo insegnante, il maestro Enning, che sposa le più disumane deviazioni filosofiche del superomismo nazista e lo convince a uccidere il genitore.
Una volta ancora, più della trama, del susseguirsi degli eventi, contano le attese, qui accompagnate da un dominante senso di disperazione e impotenza (certo, le vicende personali di Rossellini ebbero una loro rilevanza). Dominano l'ansia e il deambulare senza meta, che da situazione del singolo nella finzione filmica si fa espressione esistenziale dell'intero popolo tedesco, agli occhi del regista, colpevole e al contempo degno di pietà. Emblematica è allora la sequenza in cui Edmund avanza per la città spettrale senza punti di riferimento o di arrivo, seguito per alcuni interminabili minuti dall'occhio della camera. Unica parentesi positiva, il suono d'un organo che proviene da una cattedrale scoperchiata, quasi un richiamo divino. Tutti i presenti alzano gli occhi al cielo, poi però torna a incombere l'angoscia esistenziale, il peso della colpa, e v'è un'unica soluzione possibile per il giovane: la morte. Per una volta ancora, grande protagonista è la realtà, sono le strade, è la desolazione di una Germania in ginocchio; anche qui la sceneggiatura è più che altro una bozza, l'azione viene sviluppata in fieri durante le riprese scena per scena, sono i luoghi a ispirarne gli sviluppi. Ne risulta un totale pessimismo cosmico, che rifugge tuttavia dal sentimentalismo ed è reso in uno stile sempre freddo, glaciale, dove la tragedia, più che dall'espressione dei personaggi, traspare dai campi lunghi, dal panorama cittadino desolante, quasi in un approccio cronachistico alla ricerca del vero assoluto.

La leggenda vuole che nel 1948, Rossellini ricevette una lettera da un'ammiratrice, in cui era scritto:

Caro Signor Rossellini, ho visto i suoi film Roma città aperta e Paisà e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un'attrice svedese che parla molto bene l'inglese, non ha dimenticato il tedesco, che si fa quasi capire in francese, e in italiano sa solo dire "ti amo", sono pronta a venire in Italia a lavorare con lei.

stromboli_terra_dio_5Era Ingrid Bergman, che sarebbe stata un suo grande amore e avrebbe determinato una svolta netta nel suo modo di girare, o almeno l'estremizzazione di alcuni caratteri già molto peculiari, portandolo a uno stile e a tematiche invisi a gran parte della critica del tempo. I due continuano per qualche tempo il loro scambio epistolare incentrato su un possibile film insieme, lui ancora legato alla Magnani, che non lesinava terrificanti scenate di gelosia, lei sposata con il proprio agente, Petter Lindstrom.
Il loro amore si concretizza poco dopo, in un viaggio in California, in cerca di finanziatori. Pur non riuscendo a trovare fondi attraverso i produttori hollywoodiani, il progetto non si arena perché, provvidenziale, compare il multimiliardario Howard Huges (amico del marito della Bergman) a procurare i mezzi necessari. Così iniziano le riprese di Stromboli (Terra di Dio), ambientato nel Secondo Dopoguerra e incentrato sulle vicende di una giovane straniera, interpretata dalla Bergman, prima collocata in un campo profughi e successivamente, impossibilitata a ottenere un visto per l'Argentina, costretta a sposare un pescatore eoliano, visto come sua unica via d'uscita.
Tuttavia la situazione della donna non migliora, anzi; si trova imprigionata a Stromboli, isola selvaggia e primitiva, dove è emarginata dagli abitanti del posto, diviene oggetto di un desiderio lussurioso degli uomini ed è odiata dalle donne. Infine, sposa un pescatore dal quale lei, istruita e borghese, non si sentirà mai compresa. La vita del luogo è all'insegna della semplicità e della durezza, e il profondo contrasto tra i due mondi inconciliabili getta la protagonista in uno stato di angoscia. La sua profonda solitudine va oltre la materia, è atavica, legata al suo spirito, che la porterà a essere del tutto incapace di ambientarsi. A peggiorare il tutto, minaccioso grava sul povero centro abitato il terribile vulcano, la cui eruzione obbligherà i cittadini a fuggire in mezzo al mare.
Molteplici sono gli aspetti rilevanti: anzitutto di grande statura estetica e sociologica è il ritratto, in toni veristi, della vita dei pescatori, affine in molti sensi al racconto verghiano, ma anche alla viscontiana "La terra trema" (1948). Le immagini, in bianco e nero, assimilano l'ostile paesaggio insulare, catturato in campi lunghi e lunghissimi, e la spartana comunità che vi abita, delineata in primi e primissimi piani, quasi a confermare come sia il luogo a determinarne l'indole. Opposte sono la mimica e la gestualità della protagonista, combattiva eppure fragile, la cui diversità è immediatamente palesata nelle dinamiche del volto, a registrare il travaglio interiore, in una interpretazione magistrale. Decisamente differente dai precedenti lavori neorealisti, seppure vicino per la crudezza delle ambientazioni, Stromboli approfondisce l'indagine sulle dinamiche interiori, a cui si accompagna l'accentuarsi di una visione provvidenziale e insieme tragica (si veda a riguardo il finale, in cui la protagonista, sola e stremata alle pendici del vulcano, dialoga con Dio, per trovare la forza di andare avanti e salvare il bambino che aspetta).

Parte seconda: il Cinema oltre il cinema

rossellini_francesco_giullare_03L'occasione per riaffermare l'universalità del suo metodo, teso a liberare il contenuto di realtà del profilmico al di là del sostegno di questa o quella ipotesi sociale e delle contingenze storiche, venne a Rossellini dal successivo progetto, quel Francesco, giullare di Dio che, equivocato finanche dalla brillante penna di Ennio Flaiano, si afferma come uno dei momenti più alti della sua inestimabile filmografia.
A lungo accarezzato, discusso sin dagli incontri col domenicano Padre Morlion nel 1948, nutrito dal bisogno, dopo la morte del figlio Romano, di intendere il valore e far proprio il senso di un'autentica esperienza religiosa, il film sul Santo di Assisi prende forma nell'inverno del 1950. Al solito senza sceneggiatura, col supporto di un breve trattamento di venti paginette, cui pose mano anche Fellini e che rielabora in forma episodica alcuni momenti dei "Fioretti di San Francesco" e della "Vita di Frate Ginepro". Di essi Rossellini non si limita a darci il contenuto più scoperto, ma partecipa, per forza di stile, del medesimo spirito di santità che ispira le liete favole del Poverello. In una manciata di quadri dal tratto nitido è l'intero universo del Santo e dei suoi fratelli a balzarci addosso, sino a comporre un mosaico, in cui si alternano il ritorno dei monaci al paesino di Rivotorto e l'attesa di Santa Chiara, la predica agli uccelli e l'incontro col lebbroso, l'arrivo di frate Giovanni e lo scontro col tiranno Nicolaio. L'avvicendarsi libero delle sequenze obbedisce, dunque, a una logica che è del contenuto prima che del racconto. Più ancora che in Stromboli, il film ci appare in forma di frammento, fa dell'aneddoto l'unità narrativa e procede per balzi, con continui scarti di tono: capita, così, che all'incedere vivace del grupperello di frati lungo i prati di Oriolo Romano si alterni il passo nascosto e sofferente di un lebbroso, all'esile e sbarbata figura di Ginepro il mento irsuto del truce Nicolaio, al gusto medievale dei quadretti di insieme - quasi pitture ex voto - i modi neorealistici di uno sguardo teso al vero, al ritmo salmodiante di una conversazione estatica il nudo apparire dei fatti. Quale esito sul cinema moderno abbia avuto una simile liberazione del contenuto dalle briglie del racconto sarà più chiaro col vicino manifestarsi delle istanze della Nouvelle Vague e con l'elegia del frammento operata da Jean-Luc Godard in "Questa è la mia vita" (Vivre sa vie, 1962), la cui struttura en douze tableaux è mutuata proprio dal Francesco.
Non si creda, però, che allo squilibrio dei toni faccia da contrappunto una dispersione del film, il quale è, anzi, ben fissato nel suo centro espressivo: difficile ridire, a parole, con quale scrupolo esso comunichi la pienezza di una gioia che si esprime in libertà di spirito, anticonformismo e allegra follia, e a chi non l'abbia visto il solo resoconto delle vicende potrebbe apparire fin troppo letterario, se scisso da quella forma, quello stile concreto di fatti e immagini, che gli conferisce vigore e verità. Dimenticate le più elementari strutture del racconto cinematografico e ignorato il gusto per le immagini ricercate, Rossellini restituisce in quadri francescani non, come si è scritto, l'agiografia del santo, ma una compiuta esperienza di vita, un "modo di essere e di sentire" che travalica ogni conformismo e si offre, nella sua genuina allegrezza, come l'esempio più fulgido di santità laica. Chi, dunque, se non il ribelle Rossellini - da sempre ostile alle solennità, agli scettri e agli ermellini - poteva dare un ritratto più fresco e autentico dello spirito che animava quei fraticelli, posseduti, scrive André Bazin, dal demone del movimento, sempre in corsa, lieti e leggeri, per render grazie a Dio? Si veda, come esempio, la scena della preghiera in mezzo al bosco, con la macchina da presa che indugia sui fringuelli e i rami secchi, mentre il montaggio scandisce in respiri sincopati il ritmo del Padre Nostro: disarmante la verità umana che ne traspare, il senso di una spiritualità intrecciata alle cose del mondo, di un misticismo che è già in esse e che all'uomo non spetta altro che riconoscere.

Terminate, in maggio, le riprese di Francesco giullare di Dio e ufficializzato il matrimonio con Ingrid Bergman, Rossellini poté concedersi qualche settimana di riposo. Il viaggio di nozze toccò la costiera amalfitana, che era divenuta, negli anni, una tappa obbligata delle sue peregrinazioni, un luogo quieto e familiare, presso cui riaversi dopo periodi spossanti, di intensa attività. Al contempo, così come ogni discussione, incontro, lettura andava ad arricchire il suo sguardo sul mondo, sino a far parte di quel tessuto in cui il cinema e la vita si intrecciano senza discontinuità, accadeva pure che l'atmosfera vivace e imprevedibile dei luoghi ne stimolasse l'inventiva e il desiderio di esplorare nuove possibilità del mezzo cinematografico.
In una lettera del 2 luglio all'amico e segretario Joseph Henry Steele, scrive la Bergman: "Roberto è venuto qui (ad Amalfi, ndr) per finire quel film intitolato La macchina ammazzacattivi! Sorpresa, eh? Dopo un anno e mezzo che era stato messo da parte, è tempo che lui faccia qualcosa per quel film".
Cominciate, infatti, nella primavera del 1948 a Maiori, le riprese si erano arenate alla fine dell'estate, in parte per mancanza di fondi, in parte per la sopraggiunta noia di Rossellini, energico e appassionato nell'abbracciare i più disparati progetti, quanto veloce nel trascurarli non appena la sua vivace intelligenza veniva catturata da nuove sfide. Il film uscì, poi, nel 1952, quattro anni dopo l'inizio delle riprese, disertato dal pubblico e demolito da una critica diffidente e confusa.

rossellini_macchina_ammazzacattiviSi tratta, in definitiva, del film più libero e stravagante di Rossellini, un gioco in bilico fra tagico e grottesco, che punteggia di tocchi surreali lo sguardo neorealistico gettato sul folclore amalfitano. Il soggetto muove da una fantasia di Eduardo De Filippo e racconta di un fotografo di paese, persuaso da un presunto messo celeste - dal flebile aroma di zolfo - a far piazza pulita di imbroglioni, strozzini e lestofanti fotografando di nuovo una loro fotografia, fermandoli per sempre nella posa del ritratto e provocandone la morte. Per qualche tempo è tutto un susseguirsi di brusche dipartite, nostalgici dell'olio di ricino bloccati in un sempiterno saluto al duce (tanto da necessitare di un prolungamento del feretro), democristiani arraffoni congelati in pose aristocratiche, politici di ventura e laidi usurai ridotti all'inamovibilità. Man mano che avanza lo sterminio, l'umile fotografo comincia a temere che uno zampino demoniaco si celi dietro quel terribile marchingegno. Compresa, infine, l'assurdità di voler essere giudice e carnefice, convince l'impacciato satanasso a distruggere la macchina infernale e riportare in vita le sue vittime.
Già si intende, da questa sommaria ricapitolazione, la peculiarità del film, che guarda alla Commedia dell'Arte e si sostanzia di un canovaccio che è l'atmosfera stessa del luogo a imporre all'autore, coi suoi costumi, le credenze e i riti, gli ardui saliscendi delle coste pietrose, i volti pittoreschi, ubriachi di sole, e quella filosofia popolare intrisa di amarezza e divertita scaramanzia. La sfida di Rossellini era di comporre un film nella forma del teatro goldoniano, cioè all'improvviso, senza una struttura che non fosse quella liberissima dell'ispirazione del momento. Un metodo di lavoro che gli era suggerito dal medesimo contesto vacanziero e gli consentiva, scrive Gianni Rondolino, di "respirare cinematograficamente l'aria del luogo", cioè di celebrare - quasi un vero elogio della follia - la primitiva vitalità dei suoi abitanti, quei poveri diavoli certi di aver visto il demonio, nonché di aver investito, una sera, un lupo mannaro che tagliava loro la strada.
Da qui l'esigenza di rifiutare la struttura chiusa di un testo a monte per aderire alla più libera forma della Commedia dell'Arte, coi suoi lazzi, gli improvvisi e le maschere, tanto che il film si apre e si chiude sulla mano di un burattinaio che allestisce - e poi disfà - una scena di cartone, come si fosse all'opera dei pupi. E gli stessi protagonisti non sono più che caratteri, la cui condotta è tutta tesa alla dimostrazione di un teorema morale intriso di quieto buon senso, dal piglio popolaresco. Invano si cercherebbero finezze di scrittura o brillanti soluzioni drammaturgiche in quest'avventura spigliata e liberissima e l'intelligenza di Rossellini sta nell'aver saputo aderire senza riserve al gioco di Eduardo. Scrive Giovanni Calendoli che nella Macchina ammazzacattivi "tutto ha un che di incompiuto, di abbozzato, di improvvisato, di gratuito, che costituisce d'altra parte il suo sapore e la sua verità". Lo stile del film, al solito spoglio, si mostra quasi trascurato, approssimativo tra inattesi stacchi di montaggio e bruschi cambi di grana della pellicola, riprese "documentarie" e articolate messe in scena. E proprio questi scompensi, questi scarti capricciosi donano al film il suo vigore e la sua esuberanza.

La macchina ammazzacattivi divenne l'emblema del nuovo corso del cinema rosselliniano. Al suo stile disadorno, al soggetto esile, al gusto favolistico, alla leggerezza che ne guida gli esiti più vivaci, alle incurie del testo la critica si appoggiò per denunciare la crisi del suo autore. In pochi seppero leggere in questi elementi - la libertà dello sguardo, l'abbandono dei tecnicismi, il rifiuto del testo - i prodromi di una rivoluzione che in pochi anni - e una manciata di film - avrebbe radicalmente cambiato la maniera di intendere i rapporti tra il cinema e il mondo.
Dal canto suo, insensibile alle questioni teoriche, nonché annoiato dai pregiudizi di chi guardava con sospetto l'abbandono dei "giusti" temi resistenziali, Rossellini, in una conversazione con Fernaldo di Giammatteo, volle dichiarare con fierezza: "Oggi altre cose mi premono. Credo si debba trovare una nuova e solida base per rappresentare l'uomo qual è, nel connubio che in lui esiste fra poesia e realtà, fra desiderio e azione, fra sogno e vita". Un proposito portato innanzi sin dai tempi de L'amore e giunto a una prima maturazione con Francesco giullare di Dio, opera spesso fraintesa e a torto considerata un'esotica digressione di Rossellini, una parentesi lirica tesa a gettare uno sguardo incuriosito sul mondo della Fede, quasi una vacanza fra Stromboli ed Europa '51, i film con Ingrid Bergman che inaugurarono la trilogia della solitudine. A lungo si è cercato di scovare a forza un progetto unitario nelle opere dei primi anni Cinquanta, un indirizzo rigoroso che provasse l'esistenza di un disegno preliminare e meditato. Ma Rossellini procedeva nella vita come sul set, disprezzava i programmi e amava seguire liberamente le molte suggestioni che gli si accavallavano nella mente, a seguito di incontri, colloqui e discussioni con amici, colleghi, intellettuali dalla più varia provenienza culturale e sociale. Senza, con questo, negare l'esistenza di un fil rouge che leghi i singoli progetti - ché esso non solo esiste, ma procede, in Rossellini, con logica socratica - si vuole, qui, mettere in guardia dalla tentazione di forzare entro blocchi storici l'evoluzione di un cinema per sua natura insofferente alle schematizzazioni.
In questo senso Francesco giullare di Dio si pone senza sforzo sul filo di quell'interesse per l'individuo e la sua dimensione spirituale, che sin da Il miracolo - quando non si voglia risalire fino all'episodio dei monaci in Paisà - stimolava il gusto e le invenzioni rosselliniane. Volendo invertire l'assunto, sarebbe più facile sostenere l'originalità di Stromboli, dove l'inconsueta presenza di un'attrice hollywoodiana di solido mestiere - e per ciò stesso esitante nel rinunziare alla propria arte per inseguire un'interpretazione istintiva - imponeva al regista un ripensamento del metodo di lavoro.

rossellini_europaNon fu, dunque, il sodalizio con la Bergman un disegno ponderato. La collaborazione avrebbe anche potuto esaurirsi nell'unico Stromboli, il quale, del resto, è opera in sé compiuta, che affronta e conclude un discorso unitario, senza bisogno di ulteriori propaggini. Ma il legame affettivo tra i due decise altrimenti, e Rossellini, pur mosso da un istinto patriarcale e titubante all'idea di condividere con la moglie un nuovo progetto, incrociò per la seconda volta l'arte della Bergman sul set di Europa '51.
Il film sostenne il consueto dazio di burrascose vicende produttive e mutò più volte forma, in fase di scrittura. Una prima bozza fu stesa da Federico Fellini e Tullio Pinelli, ma il delicato intrecciarsi di sottotesti politici  indusse un certo disordine nella vicenda e a essi furono affiancati Massimo Mida e Antonello Trombadori. Le note stampa si avvicendavano contraddittorie, l'una promuovendo l'idea di un set parigino, l'altra dichiarando la certezza di una produzione italiana. Frattanto la sceneggiatura si arrotolava in nodi sempre più faticosi, sino a che una nuova stesura venne commissionata a Diego Fabbri, Ivo Perilli, Sandro De Feo e Brunello Rondi, con la collaborazione, infine, di Mario Pannunzio e Antonio Pietrangeli. Una gestazione articolata ed estenuante, che molto lusingò l'indiscrezione dei cronisti. L'opera sin dal titolo ambiziosa, il soggetto dal gusto politico, la collaborazione di intellettuali cattolici, comunisti e reazionari, il divorzio repentino della Bergman, la sua scandalosa unione con Rossellini: c'era di che solleticare la fantasia dei rotocalchi.
Di questo clima febbrile e concitato si indovinano, nel film, le precise risonanze, specie in quei vuoti che affannano il racconto, in quegli scarti improvvisi della protagonista, nei dialoghi battuti come notizie di agenzia. Irene è una frivola donna borghese, vincolata al freddo piacere di ricevimenti e mondanità. Ha un figlio sensibile e inquieto, che una sera, vinto dall'incuria della madre, si toglie la vita. Lo choc che coglie la donna è così violento da estinguerne ogni vitalità. Per riaversi cerca una ragione di vita nell'aiuto agli indigenti, ma ben presto si avvede di come questo altruismo di facciata non sia sufficiente. Il suo amore per gli emarginati eccede ogni schema del buon senso, travalica l'impegno formale del cugino comunista, quanto i compromessi della carità religiosa. Questa mistica tutta personale sconvolge i familiari, che, incapaci di intendere la sincerità senza riserve delle sue azioni, preferiscono vederla chiusa in manicomio. Scrive acutamente André Bazin: "Si fosse iscritta al partito comunista o fosse entrata in convento, la società borghese avrebbe avuto meno da ridire". L'Europa '51 è, allora, quella dei partiti, delle scelte formali, degli atti istituzionalizzati; un mondo di plastica, chiuso nella trappola degli schemi sociali. La dimostrazione di questo assunto procede, nel film, con la logica di un teorema; i fatti si ordinano con metodo attorno al nucleo da provare, tanto da esibire un certo didascalismo nella struttura del racconto. È verosimile che le incertezze di una interminabile scrittura a più mani abbiano spinto a spogliare progressivamente la trama sino a farne un nudo schema e non stupisce che proprio sulle debolezze di scrittura vertano le critiche rivolte al film, di volta in volta accusato di faciloneria, confusione ideologica e conformismo. Rimproveri che, di riflesso, esibiscono la mediocrità dei giudici, ancora arresi ai parametri di un cinema letterario e incapaci di comprendere quanto in Rossellini la forma non sia l'ornamento del contenuto, ma la materia stessa dell'opera.

Qual è, dunque, la sostanza di Europa '51? Non certo l'assunto politico, il richiamo sociale del soggetto - sebbene l'autore, sanguigno e appassionato, ne abbia, in più interviste, difeso il valore. La riconosciamo, piuttosto, nel disperato peregrinare di Irene, in quel girovagare senza meta che induce in lei una trasformazione dello spirito, come reazione al tocco di una realtà che le appare - e a noi con lei - d'improvviso, senza mediazione. In lente panoramiche gli occhi di Irene frugano il mondo, scoprono la vita nelle borgate, la loro miseria, l'inattesa vitalità, poi l'alienazione delle fabbriche, la silenziosa tragedia della follia. Un simile movimento, la crescita di un'intuizione spirituale in risposta al brusco manifestarsi del mondo era, in fondo, il dramma di Edmund in Germania anno zero.
Vediamo Ingrid Bergman, poi quel che lei vede; nulla più di un campo e un controcampo, ma la sua reazione non è composta al montaggio, come somma astratta di dettagli. In un articolo su Paisà, André Bazin ha scritto acutamente che l'unità del cinema rosselliniano non è l'inquadratura, ma il fatto. A esso risponde il volto di Irene, sul quale mai leggiamo un pensiero o una psicologia; nei suoi lineamenti c'è solo "la traccia di una certa sofferenza", il segno impreciso di un dramma che è subito anche nostro e di tutti gli uomini. E proprio in quanto Rossellini rifiuta il rigore del simbolo, la sua arte riesce a essere l'espressione di un sentimento universale. Anziché fermare l'attore in pose usate, gesti enfatici o smorfie sintomatiche, semplicemente gli suggerisce un'atmosfera, un certo modo di essere davanti alla macchina da presa e, infine, lo guarda agire. Così la comprensione del dolore di Irene non dipende dall'abilità nel decrittare il significato di un'azione, dal nostro grado di intelligenza artistica, ma solo dal fatto che sentiamo con precisione, in un istante, tutta la verità del suo dramma.
Come faccia Rossellini a lasciar emergere mondi interiori di tale intensità è questione complessa. Cogliamo al volo il suggerimento di Rohmer e leghiamo questa inclinazione alla cura spesa nella rappresentazione del tempo che scorre, dell'attesa che precede una epifania. Contro l'astrazione formale del decoupage, che frammenta il fatto sino a farne l'illustrazione di un sogno, la lingua del piano-sequenza diviene il fondamento di una sintassi tesa a cogliere ogni minimo riverbero di genuina realtà. Da qui il bisogno di non tagliare, di preservare la continuità della scena, che in Rossellini non è una scelta solo estetica, ma un'urgenza etica, una posizione morale da cui scrutare il mondo.

rossellini_dove_la_libertaCome John Ford, Rossellini di rado presenziava al montaggio dei suoi film. E mentre il reparto tecnico era ancora indaffarato sulla pellicola di Europa '51, il regista già inseguiva nuovi progetti. Tra questi un vagheggiato film su Socrate e il progetto di "Italia mia", da un'idea di Cesare Zavattini. Nessuno dei due vide la luce - con fastidio, va detto, del povero Zavattini, che tanto impegno vi aveva profuso, senza mettere in conto la proverbiale incostanza dell'umore di Rossellini. Il quale tra marzo e giugno del 1952 iniziò con un certo entusiasmo le riprese di Dov'è la libertà?, che gli fornivano l'occasione di lavorare assieme a Totò. Dell'indomabile curiosità del regista si è già detto e pure di quanto fascino avessero per lui le sfide. Ora, dopo aver spento ogni impronta di accademismo, ogni riflesso hollywoodiano nella severa arte della Bergman - o, almeno, così egli credeva - Rossellini mirava a liberare la maschera del comico napoletano dagli sbuffi, i capricci, le arlecchinate. Non che l'intento fosse di forzare i liberi lazzi di Totò entro i ferri di una cornice drammatica; al contrario si voleva esaltarne la verità poetica, quel suo ordito tutto particolare di allegrezza e malinconia. Del resto il film si annunciava in forma di commedia, una variante agrodolce sul tema di Europa '51: un mite barbiere viene rilasciato dopo aver scontato la sua pena in carcere, ma, trovando il mondo esterno troppo ostile, ipocrita e corrotto, torna di soppiatto in penitenziario. Scoperto, finisce in tribunale, che lo condanna alla libertà. Come Irene - o l'Ingenuo di Voltaire - il barbiere di Totò guarda il mondo con occhi vergini, insensibile a mezzucci, conformismi e connivenze. Le sue azioni sono il portato di una matura consapevolezza, l'esito rigoroso di una logica chiara e netta, ma al di fuori della norma sociale; da qui la sua "follia".
A leggere la sinossi, il film parrebbe una moralité nello stile di Flaiano, una di quelle favole paradossali che punteggiano i suoi diari e non è un caso. L'autore di "Tempo di uccidere" figura tra gli sceneggiatori, accanto a Vitaliano Brancati, Antonio Pietrangeli e Vincenzo Talarico, e a lui dobbiamo alcune osservazioni che illuminano sull'atmosfera tipica di un set di Rossellini. Scrive Flaiano: "Dicendo di sì alla proposta di Roberto ubbidivo a un certo gusto per l'avventura, ma non immaginavo di entrare in un vortice che sarebbe durato due mesi. Mi sembrava un lavoro facile, la sceneggiatura esisteva, ma dandomene una copia Roberto mi disse di non buttarla via, perché durante la lavorazione avrebbe potuto servire. Intanto il dialogo della prima scena, abbozzato da Roberto sul rovescio di una busta, doveva essere da me riveduto e battuto a macchina in cinque o sei copie. Quando? Ma subito. Il film cominciava quel giorno stesso, anzi la troupe era già pronta, e gli attori si stavano truccando, e tutti ci aspettavano in esterno". Regnava sul set l'abituale disordine, cui solo la risolutezza e l'intelligenza di Rossellini potevano infondere un barlume di metodo.
Ben presto, comunque, la routine del lavoro gli venne a noia e sul set cominciò a vedersi sempre meno. Telefonava, si racconta, per sapere come fossero i giornalieri, ma il minimo impedimento era sufficiente a distoglierlo dal film, rapito com'era da nuovi interessi, discorsi, invenzioni. Infine Dov'è la libertà? fu completato da Mario Monicelli, che girò nell'estate del 1953 le scene del processo, e da Fellini, che aggiunse la sequenza finale per far uscire il film nelle sale.

A dispetto dell'incresciosa accoglienza critica - che proclamò in toni apocalittici il definitivo sfacelo dell'artista - l'opera può vantare una insospettabile coerenza formale e una straordinaria precisione nel mettere a fuoco, già dal titolo, l'interrogativo portante del cinema rosselliniano. A domandarsi dove sia la libertà non è solo il protagonista, ma noi spettatori, che vediamo dibattersi Totò nella gabbia dell'inquadratura e ci chiediamo se quella scoperta neorealistica di un attore, la sua liberazione dagli schemi del personaggio non sia già una nuova prigionia.
Viene da chiedersi come una domanda tanto cruciale abbia potuto trovare un così preciso sviluppo, se il film fu davvero quella babele che i racconti testimoniano. La questione è delicata e rimanda all'epifania che fonda il grado zero del cinema di Rossellini: la rivelazione del suo automatismo. Come prima di lui Fritz Lang - che, pure, all'opposto, ne inseguiva il controllo sino all'ossessione - Rossellini aveva compreso quanto il cinema fosse ingovernabile, una enorme fabbrica di materiale didattico, che funziona senza che noi ne afferriamo la dinamica. E a nulla valgono le etichette degli analisti, che con l'insieme dei loro "totali" e "primi piani" non comprendono del cinema più di quanto un grammatico possa intendere dalle preposizioni circa la natura del linguaggio. Da ciò quel disinteresse per la tecnica che gli fu sempre rimproverato, nonché la rinuncia alle usate norme estetiche, tese a lusingare gli industriali con l'illusione di un controllo.
Nella sua reazione agli accademici e ai ragionieri dello schermo, nella scandalosa anarchia di raccordi proibiti e soggetti fuori fuoco, Rossellini seppe origliare il battito autonomo del cinema fino a imitarne la frequenza. È in questa scelta, nella misurata follia di assecondare un movimento spontaneo e frenetico, che si svela l'intensità senza pari del suo cinema, la natura travolgente di capolavori che si imprimono a fuoco nella memoria, pur senza meriti estetici. Lo scandalo di Rossellini è, in fondo, tutto qua, nella ribelle intuizione che il cinema sia oltre le parole dei drammaturghi e le illustrazioni dei pittori, non più una somma di maestranze ma un'arte indomita, che ha le forme e il respiro della vita.

rossellini_viaggio_in_italiaLasciato Zavattini a struggersi sul progetto mancato di "Italia mia", Rossellini inaugurò il 1953 con un fitto calendario di impegni, fra i quali la regia dell'Otello di Giuseppe Verdi per il Teatro San Carlo di Napoli, che gli permise di accostarsi alla messa in scena di un melodramma e fu scaturigine di un legame duraturo con l'opera lirica. Ma il 1953 fu soprattutto l'anno di Viaggio in Italia, quella sferzante incursione nello spettro di  una modernità ancora da costruire, che finì con l'imprimere un marchio indelebile alla storia del cinema. Con un vivo intrecciarsi di entusiasmo e malinconia, Jean-Luc Godard nel 1985 così commentò l'uscita del vertice rosselliniano: "Ricordo la scoperta di Viaggio in Italia. Mi sono detto: bene, non ho fretta, ci sono tante automobili, tanti innamorati e vedo che un film sono due persone in un'automobile, questo posso farlo con quattro soldi [...] Era bellissimo, pienamente rassicurante, come un messaggio di pace. Eccovi il pane, basta dividerlo, ce n'è a sufficienza per due. Roberto era un apostolo del cinema". Per i giovani turchi dei Cahiers du Cinéma fu una rivelazione; si comprese che una breccia, come scrisse Jacques Rivette, aveva d'un tratto squarciato le muraglie fatiscenti del cinema tradizionale e che tutti i film  vi sarebbero dovuti passare per non perire all'istante di vecchiezza. Ma qual è, in definitiva, la rivoluzione praticata da questo film quieto e raccolto, da questa storia esile, insignificante - un uomo e una donna scoprono di non amarsi più durante una vacanza in Italia - in cui divampano d'un tratto, con l'ardore e la violenza di una profezia, i fuochi della modernità? Si è già detto del ridicolo di voler ridire a parole un film di Rossellini e l'inanità dello sforzo è, qui, ancor più netta. Accostiamoci, allora, con garbo al cuore del film, per provare a intercettarne il ritmo misterioso, quel palpito in cui si cela il suo fascino imperituro.
L'inizio è già una vertigine. Precipitati da una soggettiva fibrillante nel mezzo di una corsa in auto fra stradicciole partenopee, sentiamo, in un attimo, l'ispirazione rivoluzionaria che muove il film. Nessun prologo a introdurre il contesto, né un carrello a lenire i sobbalzi di quell'inquadratura così schietta, dal sapore amatoriale. Con il vigore e la fierezza che gli appartengono, Rossellini scardina d'un colpo il galateo del buon cinema e oppone alla pulizia di immagini seriali la vivacità di uno sguardo pronto a interrogare le cose del mondo, a spiare la loro verità. Senza, con questo, scivolare nella pretesa obiettività del cinéma-vérité, verso il quale manterrà sempre un atteggiamento severo, quasi a fugare ogni fraintendimento: il contenuto morale del realismo, il suo assumere con precisione un punto di vista ne fa un modo di essere non dell'oggetto, ma del soggetto. Per questo alla chiarezza espositiva di una panoramica subentra, in incipit, quell'occhio amatoriale, che esagera la nostra confusione di spettatori nel momento stesso in cui esalta, con la precisione di una sinestesia, l'impressione di una realtà pronta a balzarci in grembo. Da qui il paradosso dell'inquadratura rosselliniana, tanto povera di informazioni - chi siano i protagonisti, dove si trovino, tutto ci è nascosto - quanto intrisa di uno smisurato contenuto espressivo, al punto che Henri Langlois, direttore della Cinémathèque, lamentava l'assenza di uno schermo più grande per contenere i film di Rossellini (e Jean Renoir), che parevano sempre eccedere i margini, pronti a espandersi in ogni direzione.
Le prime, incerte righe del dialogo accrescono il nostro imbarazzo. "Dove siamo?", domanda, destatosi dal sonno, Alexander (George Sanders) alla moglie. "Non te lo so dire", risponde Katherine (Ingrid Bergman), seguitando a guidare. Più avanti il marito le confida, sovrappensiero, la sua noia per la lontananza dal lavoro; la replica di lei è poco più di un'osservazione lasciata cadere, uno di quei pensieri che d'un tratto ci sorprendiamo a pronunciare, ma secca e affilata: "Da che siamo sposati non eravamo mai stati soli tanto tempo". In pochi tratti nitidi e precisi Rossellini ci dà il ritratto di una crisi familiare, ma, anziché cedere al facile biasimo dell'ipocrisia borghese, ne fa il sintomo di un più acuto malessere. Ogni gesto della coppia svela il consapevole annullarsi della loro individualità, il crescente rifiuto della vita nelle sue più energiche manifestazioni; lei disgustata dagli insetti sul parabrezza, lui offeso dalla velocità di un sorpasso. Avvertiamo sottopelle l'intollerabile disagio di chi, arreso per scelta ai riti delle istituzioni e ai miti della società, si scopre attorniato da un mondo di vigoria primigenia e irrazionale, che ne minaccia d'improvviso la misurata apatia. Estinta, ormai, negli animi dei protagonisti, la vita brulica nei luoghi che essi abitano e in questo conflitto lacerante, nel preciso contrasto tra l'obbligata formalità dei gesti e il nerbo di un'emotività istintiva, risiede la tensione che anima in ogni istante questo film senza storia.

Nulla accade in Viaggio in Italia, se non le persone, col loro intimo logorio. Mentre la cinepresa di Rossellini, portando all'apice la libertà di Europa '51, indaga con crudezza le microfratture che si aprono a ragnatela sull'involucro coriaceo delle coscienze. Più fragile - o, meglio, più consapevole - del marito, Katherine soccombe alla vitalità dei luoghi, alla sensualità di corpi fissati nel marmo, al risveglio delle fumide rocce vesuviane, alle ceneri di Pompei che chiudono due antichi amanti in un abbraccio eterno. Toccata da questa spiritualità diffusa, che intreccia cose e persone ed è l'altra faccia del mondo come l'energia lo è della materia, Katherine si allontana sempre più dalla rigorosa indifferenza del marito, che, ravvisato lo stallo del proprio matrimonio, propone con efficienza un rapido divorzio. In un finale tra i più memorabili della storia del cinema, travolti letteralmente da una fiumana accorsa durante l'annuale processione, i due finiranno col riconoscersi parte l'uno dell'altra e consacrare una nuova unione. Come scrisse François Truffaut, "Viaggio in Italia è un film sulla difficoltà di essere insieme che diventa infine, per forza delle cose, la dignità di essere, in maniera pura e semplice".
Sorprende, allora, che dalla metà degli anni Sessanta si sia voluto forzare il senso di un finale così limpido sino a scorgervi un cinismo sotteso, quasi l'autore avesse voluto, sotto le spoglie di un esagerato melodramma, suggerire la falsità di una riconciliazione indotta dalle circostanze e incapace di resistere alla prova del tempo. In una conversazione del 1965 con Adriano Aprà, Rossellini in persona volle sostenere una simile interpretazione: "Certo, è un finale amarissimo, no? In fondo. Si rifugiano l'uno nell'altro con lo stesso atteggiamento di chi è sorpreso nudo e si stringe, si stringe nell'asciugamano, si stringe a chi gli sta vicino, si copre, in un certo senso. Questo è il valore che doveva avere il finale".
Per quanto l'ipotesi sia suggestiva, crediamo che il senso di un'opera vada cercato nell'opera stessa e non necessiti di alcun adeguamento all'ideologia del tempo. Cosa ci mostra il finale? Due sposi in procinto di divorziare intenti a ferirsi a vicenda, nel mezzo di una processione. Lui guarda il corteo con biasimo trattenuto: "Come possono credere a queste cose? Sembrano tanti bambini", lei chiosa in un singhiozzo: "I bambini sono felici". Poi un infermo getta le stampelle, la folla accorre per lodare la grazia e trascina via Katherine, che, spaventata, chiama a gran voce il marito. Lui si volta, la cerca nella ressa, vi si tuffa per raggiungerla in un abbraccio. Attorno a loro la gente si inchina e i due rimangono d'un tratto isolati. Lì riconoscono di aver ciascuno bisogno dell'altro, confessano di amarsi e si uniscono in un bacio, mentre la banda continua a suonare e la folla prosegue soddisfatta il suo cammino.
Come sempre, in Rossellini, tutto è limpido, perché i suoi teoremi procedono dalla vita e non necessitano di astratte dimostrazioni, ma solo di essere guardati. Non per un attimo dubitiamo di ciò che accade sullo schermo, perché è in esso infusa la luce del vero e ciò che è reale non ha bisogno di essere verosimile. Chi gli rimproveri una conclusione sbrigativa applica al film le stesse norme drammaturgiche che esso si impone per principio di negare. Il senso del finale è, allora, tutto lì, in quell'abbraccio di riconciliazione, nella tensione spirituale che l'attimo del miracolo induce nella coppia. In questa prospettiva è, forse, più comprensibile il disagio di chi, negli anni a venire, disarmato di fronte a tanta semplicità, ha sentito il bisogno di scovare nelle immagini un valore implicito. Quanto alle parole di Rossellini, spesso mosso, nelle interviste, da una vis polemica che lo portava a dichiarazioni contraddittorie, va notato come esse si inseriscano nel contesto di una più generale messa in discussione del proprio cinema precedente, che negli anni Sessanta lo spinse a giudizi piuttosto severi. Erano, del resto, gli anni dell'incomunicabilità e del trionfo di Michelangelo Antonioni, il cui film del 1961 "La notte" si conclude con Jeanne Moreau e Marcello Mastroianni che fanno disperatamente l'amore su un prato, mentre lei gli confessa di non amarlo e lo sprona ad ammettere altrettanto. Viaggio in Italia termina, invece, sulla gioia di Ingrid Bergman: "Dimmi che mi ami".

Dell'impatto che il film ebbe sui giovani critici dei Cahiers si è già detto. Rapiti dalla forza dirompente di questo cinema energico e sgraziato, riconobbero in esso i germi di una vicina rivoluzione ed elessero Rossellini a loro maestro. Ci si potrebbe legittimamente chiedere la ragione di una tale scelta, considerato che i grandi autori certo all'epoca non difettavano e, anzi, alcuni di essi dovevano proprio agli ammirati articoli dei seguaci di André Bazin il diffuso consenso critico di cui iniziavano a beneficiare. Ma, del resto, cos'altro avrebbero potuto suscitare gli astratti teoremi di Alfred Hitchcock, le rigorose fatalità di Fritz Lang, il dolente umanesimo di Jean Renoir se non pallidi e confusi epigoni? Il loro cinema, già da tempo, aveva lasciato le peregrinazioni, i disordini, le intemperanze, per abitare il terreno stabile della maturità artistica. Al contrario, a dispetto dei traguardi conseguiti, ogni opera di Rossellini pareva fremere di un'insopprimibile urgenza espressiva e, anziché darsi nella precisione inamovibile dell'opera compiuta, denunciava con orgoglio i suoi squilibri, il suo farsi nel momento della visione. Erano in essa le tracce di uno spirito indomito e sovversivo, i segni di una scommessa smisurata. Si comprende, allora, quel che in Rossellini risultava esemplare: non tanto una poetica o un'invenzione di stile, quanto l'intero suo approccio all'arte cinematografica.
Viaggio in Italia è, in tal senso, l'emblema di uno scardinamento dall'interno delle usuali modalità produttive. Contro le regole della drammaturgia tradizionale, Rossellini dà vita a un nuovo modo di raccontare per immagini, impressionista e modernissimo. Anziché soffrire la prigionia del testo, l'opera deve mostrarsi aperta, germinare spontaneamente dalle fondamenta di una precisa situazione. È, in sostanza, la prima affermazione formale di quel cinema-saggio, che sarà poi sviluppato nell'esperienza televisiva del regista e troverà in Godard e Rivette due attenti discepoli.

rossellini_giovanna_rogoMentre i critici d'Oltralpe salutavano con gioia questa ribellione agli usati schemi della cinematografia, in Italia la rivista "Cinema Nuovo" passò addirittura sotto silenzio l'uscita del film. Senza, con ciò, scalfire in alcun modo le certezze di Rossellini, che nel 1954 proseguì, dopo Otello, l'incursione nel mondo del teatro e portò a termine il suo film più anomalo, Giovanna d'Arco al rogo.
Su testo di Paul Claudel e musiche di Arthur Honegger, l'opera aveva debuttato, con regia di Rossellini e protagonista Ingrid Bergman, nel dicembre dell'anno precedente al San Carlo di Napoli, per poi fare il giro d'Europa, da Barcellona a Stoccolma. Fu un trionfo per la Bergman e l'occasione di nuove polemiche per Rossellini, che volle smuovere l'abituale fissità dell'oratorio, volgendolo in azione scenica, con maschere, proiezioni scenografiche, incendi di carta ed elaborati movimenti di massa. La sua visione del testo, lungi dal tradurne il rigore giansenista, era drammatica, emotivamente coinvolgente e nutrita dall'immaginario delle pitture medievali - nello stesso modo in cui "La carrozza d'oro" di Renoir guardava alle forme della commedia dell'arte.
Il medesimo approccio accompagnò Rossellini nella produzione dell'omonimo film, che fu girato tra gennaio e marzo del 1954 negli interni del teatro partenopeo. Opera bizzarra e disorientante, Giovanna d'Arco al rogo si propone di esplorare le opportunità di rappresentazione di un testo e riscoprire, al contempo, la purezza espressiva del cinema delle origini. Con un occhio a Méliès e un altro a Murnau, Rossellini libera l'inquadratura dal peso di una griglia prospettica ed elabora un incedere sinuoso di figure sospese, la cui relazione definisce lo spazio. Il coro angelico, che all'inizio veleggia in un confuso firmamento privo di coordinate, si raccoglie pian piano sulle linee di forza di una spirale. Un'inquadratura dall'alto - lo sguardo di Dio? - ne scopre la geometria e pone al centro della vertiginosa figurazione il rogo della Pulzella d'Orléans. Assunta in Cielo da una dissolvenza, Giovanna d'Arco incontra San Domenico, che con intuizione freudiana le fa percorrere a ritroso in quattro fatti salienti - quasi vere proiezioni mentali - la sua vita, dal processo animalesco cui fu sottoposta sino alle memorie giovanili. Confermata nella propria Fede, tornerà nel mondo per adempiere al suo destino.
Sebbene a uno sguardo superficiale possa apparire un'ingiustificata incoerenza nel percorso di Rossellini, l'esperimento di Giovanna d'Arco al rogo non solo conferma la tensione tra il realismo degli interpreti e la veste spettacolare del racconto come motivo dinamico del suo cinema - e si veda quanto la verità dell'interpretazione di Ingrid Bergman tragga forza, per contrasto, dall'esibita finzione di maschere e costumi parrocchiali - ma ne anticipa perfino il ricorso a soluzioni tecniche - quali l'effetto Schüfftan - che tanta parte avranno nella futura produzione televisiva.

Se del film si disse ogni male, sino a deprecarne "i risibili effetti da cartone animato", le coeve rappresentazioni teatrali riportarono la Bergman a un successo personale che non le arrideva da anni. E mentre in lei avanzava il sospetto - più volte insinuato dalla critica e ribadito dagli amici - che l'assoluta dedizione all'arte del marito ne avesse, in qualche modo, fiaccato il talento, Rossellini non si peritava certo di nascondere il disagio per questa inattesa affermazione della moglie. Non era, però, l'invidia a morderlo, quanto l'impressione sempre più nitida di una divergenza inarrestabile. Sola sul palco, Ingrid incantava il pubblico con l'eleganza della propria arte, con la medesima intensità che in lei avevano scorto e valorizzato Alfred Hitchcock, George Cukor, Victor Fleming, con l'esattezza del mestiere che aveva sedotto Humphrey Bogart in "Casablanca". Non c'era più Rossellini, coi suoi improvvisi e le invenzioni estemporanee, a tradurre la verità delle sue incertezze in materia filmica, a piegarne le resistenze sino a farne un "suo" personaggio. Riaffioravano in lei i segni di un'educazione sopita, il pungolo di un'arte drammatica alla quale sentiva di aver rinunciato forse troppo presto.

rossellini_pauraDi questi squilibri, pure indirettamente, ci parla La paura, film tratto dall'omonimo racconto di Stefan Zweig che Rossellini girò nella tarda estate del 1954, durante una pausa dalla tournée teatrale. La storia è quella di Albert Wagner (Mathias Wieman), un illustre chimico, che, scoperto il tradimento della moglie Irene (Ingrid Bergman), persuade un'attrice a inscenare un ricatto per spingere la consorte a confessare la colpa. Tornato in Germania dieci anni dopo il suicidio di Edmund, il regista muove la cinepresa per le strade monegasche: alle macerie berlinesi si oppone, ora, il fermento del capitale, le conquiste di una borghesia industriale inquieta e sospettosa, che ha preferito interrare le proprie colpe sotto il peso del vetro e dell'acciaio.
A Eric Rohmer e François Truffaut, che lo intervistavano per i Cahiers du Cinéma, Rossellini rivelò: "Voglio mostrare l'importanza della confessione: la donna è colpevole e non può liberarsi che confessando". Coerentemente il film si chiude su un'ammissione di colpa, cui segue la riconciliazione della coppia sul lirismo di note sognanti. Eppure, in questo lieto fine avvertiamo una stonatura. A dispetto - ancora una volta - delle confidenze del regista, il film sembra andare in un'altra direzione. Nel racconto di Zweig la donna, atterrita dalle conseguenze della colpa, tenta il suicidio e il marito, giunto al capezzale, le rivela in lacrime il suo piano. Riavutasi, comprende di essere stata perdonata e sorride sognando la futura felicità familiare. In Rossellini i fatti si ordinano diversamente: venuta a sapere dell'inganno di Albert, Irene cede alla vergogna. La perfidia dello stratagemma non la tortura più dell'improvvisa nudità che la coglie, del pensiero che negli sguardi incrociati col marito sempre covava un verdetto di cui non era al corrente. La macchina da presa la segue in questi pensieri, ne rivela il contenuto dall'osservazione dei comportamenti, come indagava il dolore di Anna Magnani in Una voce umana o la confusione di Edmund in Germania anno zero. Nel dibattersi di Irene tra le fiale del laboratorio chimico leggiamo i sintomi di un dolore al di là di ogni nomenclatura e partecipiamo intimamente del suo tormento. Non è l'ordinaria paura della protagonista di Zweig a indurla al suicidio, ma una sincera e incredula disperazione. Sentiamo d'un tratto quanto povera sia la colpa di Irene, a fronte delle meditate crudeltà del marito. Che accorre, in un insolito montaggio alternato, appena in tempo per impedire il suicidio e, chiedendole perdono, sostiene la moglie, ormai priva di forze, tra le braccia. Il finale arriva inatteso, come la cesura all'apice di un crescendo. Sul reciproco imbarazzo si erige la nuova stabilità coniugale dei Wagner, ma il conflitto morale suggerito dal film è ben lungi dal trovare una risoluzione.
Quanto al contenuto autobiografico de La paura, se ne è a lungo discusso in infinite pagine - dove la critica cede, talvolta, al pettegolezzo - fino a leggere nelle meschine crudeltà di Albert Wagner, nel suo meticoloso tessere una prigione attorno alla moglie, il preciso riflesso dell'atteggiamento possessivo di Rossellini verso la Bergman, che, del resto, confessò più avanti: "Purtroppo nella mia interpretazione non riuscii a nascondere i sentimenti che provavo in quel momento. In fondo non ho mai perdonato completamente a Roberto la sua proibizione di lavorare con altri registi". Curioso sintomo di questo disagio - che non stentiamo a credere palpabile sul set - è che la Bergman, nelle sue libere passeggiate per le strade di Monaco, è ripresa di spalle, a ridurre il peso di una comunione emotiva ormai sfiancante.

I due anni successivi furono di sofferta inattività. E mentre le divergenze artistiche con la Bergman acuivano la crisi coniugale, i produttori, snervati dai magri incassi al botteghino, avevano ormai cessato di dar credito alle fantasie di Rossellini (che vide rapidamente svanire l'ipotesi di filmare in Spagna una Carmen dal testo di Mérimée). Sebbene provato da un simile groppo di concause, non si può dire che quel periodo sia stato infruttuoso ai suoi occhi. Nel 1954 le pagine dei Cahiers du Cinéma ospitarono una lunga intervista al maestro romano, cui seguirono la Lettre sur Rossellini di Jacques Rivette e la celebre Défense de Rossellini, che André Bazin scrisse in forma epistolare a Guido Aristarco. Si andava inaugurando, in Francia, un dibattito culturale che vedeva riaffermata, dieci anni dopo Roma città aperta, la centralità dell'opera rosselliniana, pur senza ricadute di rilievo sulla pervicace indifferenza della critica italiana.
In pochi mesi - e un consistente numero di articoli - Rossellini si vide assegnato il ruolo di mentore del gruppo di giovani cinefili che gravitavano attorno a Bazin e sognavano a loro volta il passaggio dietro la macchina da presa. Le interviste, gli incontri, le discussioni fino a notte fonda si avvicendavano senza sosta in quegli anni parigini e non mancarono di suscitare, nella mente attenta e ricettiva di Rossellini, nuovi spunti, idee, invenzioni.

rossellini_india_matri_buhmiDi questo clima così fertile troviamo tracce nel progetto - a lungo vagheggiato, tra ritardi, formalità burocratiche e sorrisi di scherno - di un film sull'India, che avrebbe dovuto rendere conto dei modi e delle forme di una cultura particolarmente affine al sentire di Rossellini, col suo compiuto intrecciarsi di istanze spirituali e concretezza del vivere quotidiano. L'idea è semplice e la sua esecuzione procede con l'ammirevole rigore di un sillogismo. Dall'enorme mole di pellicola impressionata tra febbraio e ottobre del 1957 dall'operatore Aldo Tonti - il cui libro Odore di cinema è una gustosa fonte di aneddoti sui travagli della trasferta - il regista trasse sufficiente metraggio per un documentario televisivo in dieci puntate dal titolo L'India vista da Rossellini (trasmessa in Francia come J'ai fait un beau voyage) e per un film che restituisse in sintesi poetica le impressioni raccolte sul continente.
India, Matri Bhumi (cioè "l'humus della terra") è l'esito di questo compendio sentimentale. In quattro storie indipendenti - il matrimonio di un conducente di elefanti, l'addio al cantiere di un operaio, i rituali quotidiani di un vecchio che salva la vita a una tigre, le vicissitudini di una scimmia dopo l'improvvisa morte del padrone - Rossellini ci dà non tanto il profilo etnografico di una cultura estranea, quanto l'immagine precisa di un mondo, al di là dei suoi costumi. Quale sia la religione di questi uomini, quali i cibi o il folclore, nulla di tutto questo traspare dal film, che è centrato, una volta di più, sul ritratto lirico-drammatico di un'umanità  restituita nel più ampio spettro di forme e gradazioni. Non come un antropologo si muove Rossellini in questo viaggio nell'anima di un paese; piuttosto come un ramingo, confuso dalle barriere linguistiche e sprovvisto di una guida, ma attento ai fatti e ai comportamenti, consapevole di quanto scrutare a lungo il mondo sia la maniera migliore per accedere alla sua verità. Nel primo episodio poca cura è riservata agli aspetti formali del matrimonio; ben più importante la ritualità del lavoro, la dedizione del protagonista al suo elefante, di cui saggiamo la circolarità dei ritmi vitali. E similmente nell'episodio della tigre, dove la visione del felino ha più un valore descrittivo che narrativo. Quel che conta è il quieto aderire del vecchio contadino alla prassi quotidiana, il succedersi di piccoli gesti che si raccolgono in silenzio sino a costruire innanzi a noi il dramma dell'uomo.
Non sono cambiati i protagonisti di Rossellini, ancora perduti nei labirinti dell'esistenza e abitati da un'ancestrale dimensione tragica. Ma l'agnizione del proprio stato non procede più dal contrasto tra il mondo e l'individuo, né è il portato di un climax, dell'ordinato succedersi di eventi a significare uno sviluppo. Assistiamo, in India, Matri Bhumi, al dissolversi della storia. I fatti si raccolgono, certo, e da questa antologia del reale procede la nostra comprensione degli eventi, ma il percorso interiore che muoveva Katherine in Viaggio in Italia viene qui meno e, con esso, il ricorso al melodramma. Anziché inscenare un racconto - che, coi suoi nodi, le svolte e gli apici procede dal prima al dopo secondo uno sviluppo, cioè una storia - Rossellini modella il film sulle cicliche armonie di un tempo eterno. La rivelazione che scuote il racconto, che devia bruscamente il tracciato di un personaggio non è circoscritta in un momento, ma diffusa in ogni istante o persino - il che è la stessa cosa - fuori campo.
Nel suo sforzo teso a estrarre ogni orpello, capriccio, artificio sino a esporre la nudità dei fatti come veicolo di verità, Rossellini seppe intercettare il valore immanente della sensibilità indiana, che, anziché discendere dal progresso storico, ne è la scaturigine. Nei riflessi di questo presente eterno si muove l'opera, che rimane una delle più dense e pregnanti del regista.
Col piglio laconico che gli compete, Enrico Ghezzi ha scritto che con questo film Rossellini scopre che il Cinema non è il cinema - e, forse, non lo è mai stato. Al di là del gusto da boutade, l'osservazione è, al solito, molto acuta. Nulla, in India Matri Bhumi, sovrasta i fatti, né la cura dell'inquadratura, né la grana della fotografia, né lo studio della messa in scena; nessun intervento di forme spettacolari a lenire il rigore della visione. Brilla, il film, dello splendore del vero ed è in questo senso che Godard ne salutò l'uscita con le parole "c'est la création du monde!". Quel che scopre Rossellini è che il Cinema è una forma del mondo, un modo di essere che è già nelle cose e non necessita, per essere rivelato, di alcuna gabbia stilistica, ma solo di sincera curiosità e di una forte disciplina dello sguardo.

La partecipazione ai film antologici

Una parte spesso trascurata, quando non apertamente screditata, dell'opera di Rossellini comprende la partecipazione a film antologici. Pur senza troppo esaltare queste operine spesso nate su commissione, realizzate in pochi giorni - quasi per estinguere un impegno - si sbaglierebbe a passarle sotto silenzio. È in esse una libertà ricca di sperimentazioni linguistiche, di sfide al mezzo cinematografico, di curiosi stimoli ed esaltanti soluzioni tecniche, alcune delle quali avrebbero trovato una matura applicazione nei successivi lungometraggi. Si veda, come esempio, L'invidia, episodio del film "I sette peccati capitali", realizzato in undici giorni nell'ottobre del 1951 nello studio romano dell'amico scenografo Antonio Valente. Adattamento di un breve romanzo di Colette, il cortometraggio racconta le vicende di una donna che, invidiosa dell'affetto che il marito (interpretato dal pittore Orfeo Tamburi) tributa alla propria gatta, tenta di ucciderla, incurante delle proverbiali sette vite. Ma l'agile felino sopravvive e per la donna, scoperta dal coniuge, potrebbe essere la fine del matrimonio. Descritto da Ezio Colombo come "una digressione arbitraria e sconnessa sui motivi dell'invidia", il film è soprattutto un esempio di quel cinema della crudeltà borghese che sfocerà anni dopo nell'esperienza de La paura. Pochi minuti e un angusto appartamento bastano a Rossellini per dipingere le meschinità in cui si consuma il rapporto tra marito e moglie, mentre la macchina da presa scopre negli sguardi, nella tensione dei corpi, nei silenzi, nelle labbra serrate - in una parola: nel comportamento - i segni dell'emotività dei protagonisti. Aspetto peculiare de L'invidia fu, inoltre, l'utilizzo, per la prima volta in Europa, di lampade photoflood a luce diffusa, che permettevano di ammorbidire i contorni e ottenere ombre soffuse. Ritroveremo in "Viaggio in Italia" la medesima tecnica, che, per la sua semplicità esecutiva, diverrà poi il marchio della Nouvelle Vague.

Per quanto estemporanea, dunque, l'occasione di realizzare questi brevi frammenti non era avvertita da Rossellini come una futilità, tanto che in essi spesso appaiono i riverberi degli interessi approfonditi nei film coevi. È il caso, tra gli altri, di Napoli '43, un feuilleton che vide la luce tra Napoli e gli studi di Cinecittà nell'autunno del 1953, mentre il regista era impegnato con le prove di "Giovanna d'Arco al rogo". Girato in uno stile da fotoromanzo, il cortometraggio appartiene alla raccolta "Amori di mezzo secolo" e narra le vicende amorose di una corista del teatro San Carlo e un aviere in licenza sotto i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Ci si potrebbe sorprendere della curiosità di Rossellini per questa storiella rosa in perenne odore di leziosità, ma solo a patto di trascurare il simultaneo lavoro che egli andava sviluppando sull'oratorio di Claudel e Honegger. In effetti Napoli '43 può essere considerato come il primo tentativo di estendere al cinema quel lavoro sullo spettacolo, il colore, la messa in scena, le coreografie di massa che interessavano all'epoca le sue sperimentazioni teatrali e avrebbero trovato, di lì a pochi mesi, una più compiuta espressione nella resa cinematografica della Giovanna d'Arco al rogo.

Si vede, allora, quanto la produzione destinata a film antologici possa essere usata come cartina al tornasole per saggiare lo stato dell'arte rosselliniana. Emblematico, in questo senso, l'episodio Illibatezza, dal film "Ro.Go.Pa.G" del 1963. Nel narrare la storiella di una hostess, che, per dissuadere un corteggiatore ossessionato dal suo aspetto virtuoso, accetta di esibirsi in pose provocanti, il regista inscena un mondo di carta, dichiaratamente falso, in cui Bangkok è ricostruita a Cinecittà con l'uso di trasparenti. In questo modo le figure - anch'esse bidimensionali - paiono correre su un fumetto, dibattersi sulla superficie di una fotografia, senza che mai ci colga anche solo un sospetto vago di realtà. È, in fondo, poco più di una strizzata d'occhio al pubblico, un gioco, con cui Rossellini, all'alba della conversione televisiva, sembra suggerire, scrive Gianni Rondolino, che "la sua attività cinematografica non aveva più ragion d'essere se il cinema spettacolare continuava a proporre storie di questo tipo".

Una confessione intima, dunque, come lo fu, dieci anni prima, il ritratto dedicato a Ingrid Bergman per il film "Siamo donne". Promossa da Cesare Zavattini, la raccolta antologica avrebbe dovuto costituire il vertice del neorealismo inteso come "pedinamento". Invece Rossellini inseguì il proprio personale concetto di realismo sino a darci, senza pose o infingimenti, il ritratto rapido e preciso dell'amata coniuge. Sguardo in macchina, immersa nella quiete domestica della villa a Santa Marinella, la Bergman racconta - e inscena - l'episodio reale del diverbio con una vicina a causa di un pollo, che, valicato il confine, aveva distrutto il roseto dell'attrice. Nella forma del divertissement privato - quando non del filmino familiare - Rossellini costruisce una veloce storia di imbarazzo e confessione, in cui la Bergman brilla per forza di carattere, affettuosa, timida e irrequieta come doveva essere nella vita quotidiana. All'epoca molto criticato, rimane  il migliore tra gli episodi antologici; un'operetta agile e sincera, di vivissima intelligenza, che merita di figurare tra i risultati più alti di Roberto Rossellini.

Parte terza - Oltre il cinema, la metamorfosi inaspettata

Al ritorno dal suo viaggio in India, Roberto Rossellini è prima che un uomo diverso, un cineasta trasformato. È curiosa questa metamorfosi, se riferita a uno dei simboli del Neorealismo. Ma la realtà è proprio questa: il Dopoguerra cominciava ad allontanarsi, le pulsioni imprescindibili di raccontare l'Italia e il suo tentativo di rialzarsi andavano placandosi. Ecco allora che Rossellini è più attratto dall'individuo che dal collettivo, vuole raccontare mondi nuovi, lontani. Ma i produttori non sono d'accordo, lo continuano a vedere come narratore della Storia, della società in continuo cambiamento. Frutto di un compromesso per mettere da parte quei finanziamenti che gli avrebbero magari permesso nuove scorribande all'estero, il regista romano accetta di girare, in brevissimo tempo per poter concorrere alla Mostra di Venezia, Il generale Della Rovere, dramma sulla Resistenza che costituisce un ritorno alle origini.

generale_della_rovere_monoSono molti, in verità, i motivi di interesse: il soggetto di Indro Montanelli, la collaborazione con l'amico-nemico Vittorio De Sica, l'ambientazione genovese. Ma il motivo per cui il pubblico attende al varco questa pellicola è, essenzialmente, il ritorno del Maestro alle storie resistenziali, nel pieno della seconda parte del conflitto mondiale. L'opera sembra girata da un altro regista rispetto alla mano che si nascondeva dietro i titoli miliari del passato, Roma città aperta in testa. Sì, perché stavolta viene completamente a mancare quel rapporto miracoloso che Rossellini riusciva a rappresentare così nitidamente fra le vicende minuscole dei protagonisti e gli eventi storici, bellici e politici che li avvolgevano tutt'intorno. Stavolta della Storia c'è ben poco, se non una coreografica, e come sempre elegantissima, messa in scena. Il resto è una classica vicenda di redenzione, di un piccolo truffatore che coglie sul finire della sua vita l'importanza dell'impegno civico, fino a sacrificarsi per esso. Pur lontano dalle vette raggiunte con i capolavori che lo hanno consacrato a livello internazionale, Il generale Della Rovere è un avvincente dramma carcerario, un teso racconto morale sulle possibilità di rimediare a una vita fatta di sotterfugi.
C'è poi un contributo tecnico nuovo da parte di Rossellini: da sempre un esteta dell'inquadratura, cosa che lo ha contraddistinto nel panorama neorealista italiano, c'è ora un'esibizione ancora più evidente della perizia tecnica con cui viene gestita la messa in quadro. Le possibilità nuove, date ad esempio da un uso spregiudicato dello zoom, permisero al Maestro un continuo cambio di registro visivo, passando da visioni di insieme, di una città particolarmente devastata fin nel profondo dalla Guerra, a primi piani insistiti sui protagonisti. Vale la pena, qui, soffermarsi proprio sulle interpretazioni di Vittorio De Sica e della sua nemesi, l'ufficiale tedesco impersonato da Hannes Messemer. Entrambi eccezionali, sono riusciti ad arricchire di sfumature e imprevedibili momenti di tangibile umanità i protagonisti, creati da una sceneggiatura non particolarmente brillante dal punto di vista della coerenza narrativa. Viene poi da fare una considerazione, andando a sottolineare che nel 1959 il film vinse il Leone d'Oro, in ex aequo con "La grande guerra" di Mario Monicelli: davvero una sorta di passaggio di consegne, attraverso un film-ponte, che potremmo definire il capostipite di una sorta di post-neorealismo, e uno dei titoli fondativi della Commedia all'Italiana.

era_notte_roma_monoUn americano, un inglese e un russo aiutati da una popolana a sfuggire ai nazifascisti. I detrattori della "tetralogia storica" di Rossellini hanno sempre fatto pesante ironia sullo spunto di partenza di Era notte a Roma, film praticamente contemporaneo a "Il generale Della Rovere", uscito al cinema un anno dopo e girato anche questo in poco tempo, circa 45 giorni. I critici scimmiottavano le solite barzellette con protagonisti uomini di diverse nazionalità per manifestare il loro disappunto sulla piega vagamente moraleggiante che il cinema bellico del Maestro aveva preso.
In realtà, per questa pellicola datata 1960, valgono le argomentazioni fatte per l'opera precedente: è un autore cambiato quello che affronta questi nuovi sforzi. L'approccio alla Roma in attesa dell'arrivo degli Alleati è una città senza un cuore pulsante: è mera scenografia, cornice dentro cui ambientare la storia di Esperia, la popolana che sopravvive grazie al mercato nero e che da un giorno all'altro si trova a dover dare rifugio a tre soldati fuggiti da un campo di prigionia tedesco. La guerra e la distruzione della Capitale fanno da mero sfondo alla vicenda umana della donna e dei fuggiaschi, come dei personaggi di contorno che ben delineano una variegata umanità, in pericoloso equilibrio tra il rigore morale e la ferrea disciplina dei propri valori e i sentimenti di debolezza più comuni, quali la paura o l'angoscia.
In realtà, non è che ci sia da stupirsi granché: Rossellini, come dicevamo, è un intellettuale che modifica il suo approccio all'arte in continuazione e in questa nuova età della sua carriera ha bisogno di guardare all'essere umano più che al gruppo sociale in cui egli è inglobato. Il cinema, inizialmente mezzo di riflessione politica e d'impegno civile, ora è una possibilità per sfogare la propria voglia creativa, la propria curiosità, l'intenzione di sperimentare, sia a livello tecnico sia a livello narrativo. Sotto il primo punto di vista, già un film come Era notte a Roma permette al regista un certo margine di libertà: c'è quasi un abuso del pancinor, quel particolare obiettivo fotografico di lunghezza focale variabile che permise al Maestro di avventurarsi in riprese lunghissime, evitando un eccessivo lavoro di montaggio e potendosi così concentrare al meglio sulla direzione degli attori, sul loro processo di immedesimazione nei personaggi.
Dal punto di vista narrativo, però, Rossellini non è soddisfatto, i produttori lo controllano, gli dettano una linea che possa portare i nuovi lungometraggi a un sicuro successo commerciale. Diceva del dittico bellico di cui stiamo parlando: "Credo, anzi temo, che i film andranno bene". Viveva quasi come una condanna la categoria professionale all'interno della quale era ormai implicitamente inserito da chi aveva il compito di finanziare i suoi film. Per questo non metterà mai particolare enfasi nel commentare questi lavori: per Rossellini resteranno sempre una sorta di "pedaggio obbligatorio" da pagare prima di guardare oltre e lanciarsi verso nuovi orizzonti.

Anche se meno riuscito dei due titoli precedenti, Viva l'Italia!, del 1961, rappresenta forse un passaggio più importante nella produzione rosselliniana: è con questo lavoro, infatti, che il nostro si accosta definitivamente a quell'universo televisivo che rappresenterà il suo vero habitat naturale sul finire della carriera. Didascalico fino all'eccesso, purificato da qualsiasi fronzolo estetico o narrativo, il film ostenta uno scopo didattico. Nella messa in scena dei Mille e della loro Spedizione, Rossellini mette la sua tecnica cinematografica, ormai giunta a livelli di padronanza del mezzo stupefacenti, esclusivamente al servizio della fedeltà alla ricostruzione storiografica. Il suo Garibaldi non è romantico, né tantomeno un personaggio particolarmente sfaccettato. Ciò che conta è il susseguirsi degli eventi, dallo sbarco fino all'incontro con il re e alla "consegna" delle Due Sicilie ai Savoia.
Una scelta che, certo, un po' delude gli affezionati del Maestro, abituati a vederlo piegare la Storia alla sua personale visione della Settima arte. Stavolta, questa visione è come purificata, esternalizzata. Il regista non fa mistero del suo intento: riportare il Risorgimento alla sua vera natura, alla crudezza e alla violenza del contesto storico. Dunque i tentativi elegiaci spesso difesi negli ambienti intellettuali italiani degli anni 50 sono banditi, ciò che resta è l'avventura nuda e cruda. Trascurabile da un punto di vista strettamente cinematografico, l'opera è invece degna di nota per l'esibizione di una padronanza scenica fuori dal comune nel panorama nazionale.
Rossellini si esibisce in riprese in esterna di ampio respiro, in scene corali grandiose e mai raffazzonate. Basti andarsi a rivedere la sequenza della spettacolare battaglia del Volturno, gestita con una serie di panoramiche eccezionali, che esaltano proprio la realtà di ciò che vediamo. Ha quasi un taglio documentaristico, questa rievocazione risorgimentale agli occhi di Rossellini. Purtroppo a mancare è un afflato coinvolgente della narrazione, un reale sentimento di partecipazione di un cineasta ormai troppo concentrato su ben altri progetti artistici per poter davvero mettere chissà quale entusiasmo in un film di mera ricostruzione d'epoca, per quanto tecnicamente difficoltosa, data la complessità della scenografia.
Piccola nota a margine: a voler mettere l'accento su un ritorno alle origini, che magari avrebbe potuto far piacere ai produttori, Rossellini voleva chiamare il film "Paisà 1860", un titolo "piacione" che avrebbe dovuto strizzare l'occhio al capolavoro del periodo neorealista. L'idea fu affossata proprio dai finanziatori della pellicola, ma fu difesa dallo storico sceneggiatore Sergio Amidei, sodale del Maestro, che insistette su una certa analogia fra la liberazione da parte degli Alleati dell'Italia occupata dai nazisti e quella da parte dei garibaldini del Regno delle Due Sicilie.

Il Rossellini tornato dall'India, che sognava una parte finale della sua carriera fatta di documentari esotici e sperimentazioni visive, è un artista insoddisfatto della piega che invece ha preso la sua vita professionale. Aveva accettato di tornare a girare un film sulla Resistenza, che poi diventarono due, nella speranza di ottenere quei finanziamenti e quella fiducia dei produttori che gli avrebbero permesso, appunto, di coronare un suo desiderio legittimo. Ma questi nuovi lavori ebbero, come era d'altronde scontato, un successo di pubblico importante e questo finì per imprigionare il cineasta romano in un beffardo destino. Ma realizzando invece l'opera sull'impresa di Garibaldi, Rossellini ebbe un'altra illuminazione, quella decisiva. E lo spunto si rafforzò definitivamente proprio con la lavorazione di Vanina Vanini, film coevo, molto sfortunato e che fu alla fine detestato dal suo stesso autore fino al punto da indurlo a disconoscerne la paternità.
Ma andiamo per ordine: negli accordi seguiti al successo de Il generale Della Rovere rientrava anche un'altra pellicola di impianto storico da ambientare nell'Ottocento. Il soggetto originario era un racconto di Stendhal e si trattava di una tormentata e disgraziata storia di amore e passione tra una giovane aristocratica, interpretata da Sandra Milo, e un rivoluzionario affiliato alla carboneria e ricercato dalle forze dell'ordine, impersonato invece da Laurent Terzieff. Il motivo del contendere fra Rossellini e Moris Ergas, il suo produttore di questa fase di carriera, fu sulle decisioni di montaggio. Rossellini voleva concentrarsi sulle vicende di Pietro il carbonaro, sui moti rivoluzionari e voleva appunto indagare come un vero storico sui profondi malesseri di fine Ottocento. Ergas voleva un melodramma in costume, un film dominato dal sentimentalismo e dalla figura di Vanina. Fu quest'ultimo alla fine a prevalere, spingendo il regista a intentare un procedimento di fronte a una commissione ad hoc per chiedere di essere eliminato dall'opera.
La volontà di Rossellini era quella di concentrarsi sugli aspetti più didattici e accademici dell'opera, per spingersi a verificare le possibilità che il mezzo audiovisivo forniva a chi voleva impegnarsi in una missione di divulgazione culturale, che fosse storica, geografica, letteraria o politica. Se in Viva l'Italia! egli aveva deciso di ripulire la retorica del Risorgimento da qualsiasi romanticismo per mostrarne le effettive dinamiche sul campo di battaglia, grazie a una pellicola "minore" come Vanina Vanini, frutto di compromessi malriusciti tra autore e produttore, Rossellini capì finalmente che c'era un altro mezzo di comunicazione che gli avrebbe permesso di sfogare la sua infinita vena creativa: la televisione.

Mentre il Maestro elaborava il suo addio al cinema, almeno per come lo aveva sempre vissuto nei decenni addietro, arrivò un'altra di quelle offerte su commissione cui è difficile dire di no, soprattutto se si sta attraversando un periodo di non particolare brillantezza creativa. Con un soggetto di Giuseppe Patroni Griffi e con la possibilità di dirigere Vittorio Gassman, Rossellini accettò distrattamente il copione di Anima nera, opera che realizzò con la mano sinistra mentre nei teatri di posa utilizzati dalla tv di Stato era già impegnato con i suoi primi lavori pensati per il tubo catodico. Il regista era totalmente preso dalla nuova esperienza e la lavorazione di questo film lo lasciò pressoché indifferente.
Anima nera
è un dramma sentimentale basato su un'omonima commedia di Patroni Griffi che, nella sua versione cinematografica, assunse i deliranti contorni di un melodramma trasgressivo. Rivisto ora, pare faccia addirittura il verso alle future soap opera sudamericane. Un uomo dalla vita dissoluta decide di legarsi a una donna di estrazione alto-borghese, ma in realtà nasconde una serie di segreti inquietanti e ambigui sul suo passato sentimentale e sessuale.
A parte la stroncatura unanime dei critici, può valere riesumare le parole dello stesso Gassman che, nelle interviste degli anni successivi, tornava spesso con grande severità sulla pellicola. La descriveva come un'indecenza, un obbrobrio, girato soltanto per la possibilità di lavorare con il simbolo del neorealismo. Lui, poi, veniva da "Il sorpasso", aveva già sfondato nella Commedia all'Italiana. È stato come un compromesso al ribasso per entrambi, Gassman e Rossellini. Entrambi erano andati già oltre, l'uno divenuto un divo a tutto tondo, l'altro impegnato nell'ennesima rivoluzione artistica di una carriera imprevedibile. Ebbene, decisero di riavvolgere il nastro e incontrarsi su un set posticcio, fatto di finte emozioni, messe in scena con svogliatezza e sciatteria. Racconta sempre Gassman che, addirittura, Rossellini passava per poco tempo sul set, dava indicazioni di massima e poi si affidava un po' ai collaboratori fidati e un po' al talento del Mattatore.
Oltretutto, le innovazioni tecniche e visive che avevano risollevato anche le opere meno convincenti dell'ultimo Rossellini qui non si vedono mai. Come se il cineasta avesse semplicemente deciso di regalare la possibilità di utilizzare il suo nome a qualcuno che aveva bisogno di un supporto in fase di promozione. Forse il punto più basso di una filmografia fuori dal comune.

Il Rossellini televisivo, di cui parleremo a breve, intraprese una strada spinto dalla voglia di sperimentare un mezzo di comunicazione che potesse concedere allo spettatore il tempo necessario per assimilare non solo sequenze recitate o immagini di vario tipo, ma anche le nozioni che l'opera voleva comunicare. Insomma, la trasformazione da regista cinematografico a moschettiere della divulgazione culturale si compì proprio con il trasferimento dal grande al piccolo schermo. Come al solito, anche questa storia ha un'eccezione che conferma la regola. E che eccezione!

presa_del_potere_parte_luigi_xiv_monoInfatti, la produzione televisiva più riuscita, e che per questo merita una trattazione a parte, era tutto fuorché un mero adattamento con piglio didascalico. Parliamo ovviamente de La presa del potere da parte di Luigi XIV, realizzato nel 1966 per conto della tv pubblica francese, recitato in presa diretta in francese, con attori pressoché sconosciuti al grande pubblico e girato quasi completamente in interni nell'arco temporale di meno di un mese. Un progetto nato quasi per caso, senza la preparazione "scientifica" che accompagnerà i successivi documentari e sceneggiati rosselliniani, caratterizzati invece da un meticoloso studio accademico della materia, cui seguirà la fantomatica rappresentazione didascalica degli eventi depurati da qualsiasi artificio di finzione.
Il Luigi XIV del cineasta romano è invece tutto fuorché un mero esercizio didattico. C'è piuttosto un recupero di quella vocazione umanista del suo secondo periodo, che aveva poi trovato l'esaltazione con il viaggio in India e la successiva frustrazione per l'impossibilità di proseguire quel lavoro di ricerca. Il Re Sole di Rossellini è un'esplosione di concetti, di spunti narrativi ed esaltazione scenica. C'è sì la volontà di erudire il pubblico sulla figura del sovrano francese, ma c'è anche un gusto estetico sensazionale che riproduce la corte del re, oltre che una profondità di riflessione politica che va ben oltre la pura e semplice rappresentazione del verosimile.
Il film si divide in due parti, così diverse sia per ritmo sia per stile, eppure così prodigiosamente amalgamate fra loro. La prima è incentrata sul versante politico, sulla morte del cardinale Mazzarino e sulle preoccupazioni del giovanissimo sire riguardo il regnare senza più la presenza del primo ministro che lo aveva aiutato a tenere a bada la nobiltà. Qui si respira un'atmosfera da cinema politico, con un Rossellini che usa, come al solito, pochissime inquadrature, ponendo sempre nella stanza interessata la sua cinepresa in luogo appartato e lasciando in questo modo che i personaggi diano il massimo peso alla parola, all'esposizione delle proprie strategie diplomatiche. In realtà, la scelta di una regia molto statica era dovuta anche a un'indiscrezione, mai realmente confermata: Jean-Marie Patte, l'interprete di Luigi XIV, non riusciva a imparare a memoria tutte le sue battute e così pare si avvalesse di un gobbo piazzato a non troppa distanza. Da qui, la decisione di non indugiare troppo su primi piani o movimenti di macchina che avrebbero reso le riprese molto più complicate.
L'ispirazione del Maestro è massima: i movimenti, le camminate, i rituali della vita cortigiana vengono esaltati dalle sue indicazioni dietro la macchina da presa. Ogni singola vicenda "fisica" assomiglia a una piccola coreografia, suggestiva e ammaliante. Il tutto si ripete con maggior enfasi nella seconda parte della pellicola, allorché il sovrano, ormai annullata l'opposizione della Fronda e pronto a fare il bello e il cattivo tempo a corte, decide di trasferire la sua residenza e quella di tutti i nobili che da lui dipendevano a Versailles. Qui motivando le scelte con questioni di logica politica, alla fine emerge la vocazione edonista di Luigi, e l'obiettivo di Rossellini si concentra, con un occhio più documentaristico, ma senza rinunciare alle suggestioni visive, sulle abitudini, i protocolli, le vacue movenze della reggia: dal risveglio al pranzo, dalla musica alla scelta degli abiti sfarzosi.
La presa del potere da parte di Luigi XIV, che visto l'incredibile successo sia di pubblico sia di critica, venne poi presentato anche alla Mostra di Venezia e poi distribuito al cinema in Italia, è una gioia per gli occhi di chi guarda e per la mente di chi lo ascolta. È un compendio delle diverse anime di Rossellini, ancora una volta ispirato come nelle migliori sue scorribande di epoca neorealista. È, in assoluto, la miglior rappresentazione cinematografica della Francia monarchica.

Addio grande schermo, benvenuto piccolo schermo

Il padre del neorealismo, uno dei nobili fondatori del cinema italiano contemporaneo tradì, a un certo punto, la Settima arte con il "volgare" piccolo schermo. Di come sia stata complessa e tormentata la gestazione di questo passaggio abbiamo già detto. A ciò va anche aggiunto che, a quel tempo, ovvero verso la metà degli anni 60, Rossellini non era più sulla cresta dell'onda: i suoi film incassavano poco e per giunta venivano spesso bistrattati dalla critica. Insomma, continuare a ottenere fondi per girare lungometraggi diventava impegnativo. In più, il cinema italiano proprio in quei periodi si orientava verso altre "mode", c'erano correnti lontane dal Maestro che avevano finito per relegarlo ai margini della vita produttiva di Cinecittà.
Ed ecco che tutto ciò messo assieme fece maturare in lui la convinzione che un'altra via per l'espressione creativa fosse possibile. Lo stesso Rossellini spiegò in più interviste che, per compiere davvero una corretta missione divulgativa, la televisione, mezzo di comunicazione "freddo" e "passivo", era l'ideale, perché permetteva allo spettatore di assimilare nozioni e immagini con calma e senza l'oppressione di dover apprendere tutto prima dei titoli di coda. La sua intenzione di trasformarsi in un autore enciclopedico fu quasi ossessiva negli anni a seguire: Rossellini, in poco tempo, metterà in cascina puntate di programmi tv per complessive trenta ora di messa in onda. Uno sproposito.

Due furono i canali su cui si mosse. Da una parte insistette su quell'umanesimo che ne aveva caratterizzato gli ultimi film: i suoi documentari prima e le sue miniserie poi vedevano sempre l'uomo singolo, o piccoli gruppi di uomini, protagonisti delle vicende. La sua voglia di erudire e di trasformare in immagini il sapere doveva sempre partire dall'essere umano come centro focale del tutto. Dall'altra parte, c'è un termine che abbiamo già menzionato: enciclopedismo. Sì, perché lo scopo ultima del regista di Roma città aperta era quello di abbracciare tutto il possibile dello scibile umano: la storia, la geografia, l'arte, la filosofia, la letteratura. Tutte le materie, come in una specie di università visiva, vennero affrontare da Rossellini in meno di vent'anni. Si cominciò con un soggetto che conosceva benissimo, l'India, su cui realizzò una serie di dieci documentari che andarono in onda su Rai Uno. Poi, anche aiutato dal figlio Renzo, si passò alle origini dell'uomo moderno, poi i grandi personaggi della Storia e della filosofia.
C'era un'alternanza di vero e di fiction, come a voler mantenere costantemente un continuo collegamento con le sue origini cinematografiche. La sua versione da documentarista rivelò, oltretutto, una spiccata curiosità giornalistica, che sfogò nel suo utilizzare la telecamera come una lente di ingrandimento nei luoghi che andava a scoprire, come ad esempio la Cappella Sistina in Vaticano o il Centro Pompidou a Parigi. Ma era altrettanto meticoloso quando si trattava di fare luce sull'essenza di alcuni personaggi che metteva al centro del suo reportage umanista. Pensiamo ai due lavori portati a termine entrambi nel 1971, l'inchiesta sui ricercatori della Rice University o l'intervista a Salvador Allende.

Tutti questi lavori, articolati dal 1959 al 1977, avevano in comune elementi tecnici di non poco conto: da una parte l'uso ormai spregiudicato di alcuni obiettivi focali che permettevano a Rossellini lunghe sequenze senza tagli e che non facevano altro che amplificare l'effetto-verità che andava così pervicacemente ricercando. Ma d'altra parte c'era una coerenza impressionante nel tentare di scarnificare le sceneggiature al punto tale che dovesse essere palese la formula "ciò che state vedendo è ciò che è realmente accaduto". Una filosofia di pensiero e una poetica dell'immagine che si rivelarono particolarmente rivoluzionarie per il linguaggio televisivo. Il nostro applicherà le medesime regole anche alle sue ultime scorribande cinematografiche, ma in quel caso il risultato finale non avrà lo stesso effetto straniante.

Di seguito, l'elenco delle produzioni televisive:

- L'India vista da Rossellini (1959)
- Torino nei cent'anni (1961)
- L'età del ferro (1964)
- Idea di un'isola (1967)
- Atti degli apostoli (1969)
- Socrate (1970)
- Rice University (1971)
- Intervista a Salvador Allende - La forza e la ragione (1971)
- Blaise Pascal (1971)
- Agostino d'Ippona (1972)
- L'età di Cosimo de' Medici (1973)
- Cartesius (1974)
- Concerto per Michelangelo (1977)
- Beaubourg, centre d'art et de culture Georges Pompidou (1977)

Con ancora molti progetti per la tv ancora in cantiere, all'età di 68 anni, Rossellini tornò al cinema e, crediamo, si sarà pentito di averlo fatto per tutta la parte finale della sua vita. Anno uno, del 1974, non solo andò malissimo al botteghino, tanto da venire ritirato dalle sale dopo qualche settimana, ma venne affossato dalla critica progressista con un'accusa che mai il cineasta romano avrebbe immaginato di subire: quella di fare propaganda politica. Il suo biopic su Alcide De Gasperi, infatti, venne stroncato con l'obiezione che si trattasse di pamphlet travestito da pellicola cinematografica, che aveva come unico scopo quello di rilanciare l'immagine della Democrazia Cristiana, compiendo un ritratto agiografico di uno dei suoi padri nobili.
La realtà, vista con occhio freddo e relativo esclusivamente al risultato filmico, è purtroppo molto più complessa. Il punto è che Rossellini ormai aveva abbracciato la poetica enciclopedista e divulgativa della sua produzione televisiva, non solo come mezzo per trasmettere determinati messaggi e contenuti, ma anche come filosofia intrinseca alla sua professione di regista. Gli era ormai impensabile scindere questo taglio documentaristico dalle sue opere e Anno uno non fece eccezione. Affidandosi pedissequamente alle tappe degli ultimi dieci anni di vita di De Gasperi, il regista ripercorre freddamente l'incedere compassato dell'uomo e del politico: dall'attesa per l'arrivo degli Alleati al congresso Dc che lo vedrà sconfitto e che lo indurrà a ritirarsi a vita privata in Trentino fino alla morte.
Fervente cattolico, De Gasperi viene messo in scena attraverso le sue stesse parole, i testi dei suoi discorsi, le frasi più significative delle sue dichiarazioni pubbliche: ne viene fuori un compendio asettico, il cui intento estremo di voler istruire lo spettatore limitandosi all'esibizione audiovisiva di materiali realmente esistenti finisce per impoverire la pellicola di ogni consapevolezza drammaturgica. Che paradosso: la debolezza del film, la sua aridità, l'impossibilità di girare un lungometraggio per il cinema sulla vita di un leader politico con lo stesso registro narrativo con cui per la televisione si narrava delle gesta di Cartesio o di Pascal venne dai critici oppositori di Rossellini scambiata per una cattiva intenzione; quella, cioè, di rinunciare a un diritto di cronaca oltre le righe, a favore di una messa in scena propagandistica di parte di un decennio di vita politica italiana.

messia_monoL'anno dopo, arrivò l'epilogo. O, meglio, il congedo da quello che era stato il primo amore. Il Maestro decise di affrontare una sfida impegnativa, quella di girare un film su Gesù di Nazareth, pur non rinunciando al suo percorso e allo stile maturato nell'ultimo decennio di carriera. Per questo, partendo dai quattro vangeli come materiale cui attingere, Il Messia rosselliniano diventa un ritratto umanista come non se ne erano mai visti: nella parabola terrena del Cristo vengono tenuti fuori i momenti meno empiricamente dimostrabili. Dunque non ci sono i miracoli, né tantomeno le apparizioni o le profezie. C'è il figlio di un falegname che in Palestina diventa un predicatore dall'efficacia incredibile.
Rossellini cercò di riportare l'attenzione su ciò che più gli premeva della storia di Gesù, ovvero l'importanza storica della sua figura, la potenza carismatica della sua predicazione, che andò via via moltiplicando nemici e odio. In alcune interviste, lo stesso cineasta aveva sentenziato su come troppo spesso la rappresentazione artistica del Messia si fosse concentrata eccessivamente su aspetti fantasy della sua vicenda umana.
Con una messa in scena elegante e raffinata, Rossellini, che scrisse anche la sceneggiatura insieme a Silvia D'Amico e a Jean Gruault (che curò anche l'edizione francese), decide di guardare a un personaggio universale per portare a termine la sua ricerca sul potere divulgativo e di erudizione del cinema. Accusato di aver tradito il suo nuovo ruolo da educatore, abbandonando l'aspirazione al ritratto storico per fare politica filo-democristiana con il suo titolo precedente, con Il Messia il regista si lancia senza paura in un'impresa ambiziosa, ma difficilissima da portare a termine: "spiegare", "illustrare" la vita del Nazareno attraverso un incedere narrativo volutamente didascalico, didattico, a tratti spogliato persino di un minimo di epicità biblica.
Accolta leggermente meglio rispetto ad Anno uno, la pellicola ci lascia la testimonianza di un intellettuale che fino alla fine ha combattuto per difendere la propria coerenza, la propria utopia, si potrebbe dire. La sua svolta "enciclopedica", pur con tutte le incertezze di un percorso che probabilmente neanche lo stesso Rossellini sapeva bene dove doveva condurre, resta tuttora una delle più imprevedibili scelte artistiche che un grande autore abbia mai fatto. Riguardando ora Il Messia, fra le righe delle falle di una storia talmente estremista nella sua realizzazione da risultare contraddittoria, restano negli occhi elementi indimenticabili: l'accuratezza della ricostruzione, l'attenzione al dettaglio scenico, dai costumi alla scenografia perfettamente attinente alla realtà da riprodurre. Per non parlare dell'amorevole benevolenza nei confronti degli interpreti, non solo gli attori professionisti, ma anche i dilettanti, scelti magari per un particolare fisico o caratteriale che permetteva loro di essere decisamente adatti alla parte che andavano a mettere in scena.

Dopo Il Messia, Rossellini girerà un paio di documentari per la televisione cui abbiamo accennato prima, probabilmente dispiaciuto per i giudizi severi ricevuti nella fase finale della sua produzione. Il padre del Neorealismo aveva abbandonato consapevolmente da tempo la sua creatura per esplorare nuovi orizzonti, senza mai voltarsi indietro. Avrebbe potuto continuare a realizzare film che scimmiottassero quel periodo irripetibile, ma che avrebbero contribuito a consolidare l'idea di mito vivente attorno a sé; e invece no, sfidando tutti, anche a quasi settant'anni, trovò la forza e il vigore per proseguire su strade nuove e impensabili. Se un attacco cardiaco non lo avesse stroncato, probabilmente, avrebbe proseguito in questa direzione, senza timori o rimpianti.

Bibliografia

Prima di tutto, un'avvertenza: avremmo dovuto riempire il testo di note a pie' di pagina, data la complicatissima vicenda umana e l'intenso dibattito critico attorno alla figura di Rossellini, che ovviamente non abbiamo potuto fare a meno di citare più e più volte. Dato che ci sarebbe sembrato un inutile appesantimento di una monografia già lunga e impegnativa, preferiamo rimandare qui di seguito a una breve bibliografia, dove troverete tutti i nostri spunti.

André Bazin, Che cos'è il cinema?, Garzanti, Milano 1999
Gian Piero Brunetta, Il cinema neorealista italiano. Da "Roma città aperta" a "I soliti ignoti", Laterza, Bari 2009.
Tag Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini, Da Capo Press, New York 1998
Enrico Ghezzi, Paura e desiderio, Bompiani, Milano 2011
Stefania Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Marsilio, Venezia 2014
Gianni Rondolino, Roberto Rossellini, Utet, Torino 1989
Roberto Rossellini, Adriano Aprà (a cura di), Il mio metodo. Scritti e interviste, Marsilio, 2006
Roberto Rossellini, Addio al passato. Racconti ed altro, Rizzoli, Milano 1968

N.B. Sabrina Crivelli ha curato la prima parte, Matteo Pernini la seconda, Giancarlo Usai la terza.





Roberto Rossellini