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Dagli esordi realisti di matrice rosselliniana agli anni degli Oscar e della poesia. Ripercorriamo il mito di Federico Fellini, l'uomo che più di ogni altro ha saputo regalare all’arte cinematografica sogni, paure e ricordi della società italiana del ventesimo secolo

 

Daltonici, presbiti, mendicanti di vista 
il mercante di luce, il vostro oculista, 
ora vuole soltanto clienti speciali 
che non sanno che farne di occhi normali. 
Non più ottico ma spacciatore di lenti 
per improvvisare occhi contenti, 
perché le pupille abituate a copiare 
inventino i mondi sui quali guardare. 
Seguite con me questi occhi sognare, 
fuggire dall'orbita e non voler ritornare.
("Un ottico", Fabrizio De André)

Risulta alquanto pleonastico cercare di presentare al lettore la figura di Federico Fellini, l'uomo che unanimemente è considerato come il più grande regista cinematografico che l'Italia abbia mai avuto. Anche il cinefilo meno acculturato saprà infatti che sono molto nutrite le fonti che hanno descritto e ancor di più analizzato la vita, le opere e la weltanschauung del maestro riminese: l'onirismo e l'autobiografia, le luci e la fotografia, l'inquietudine e la fantasia che permeano i suoi capolavori sono solamente le caratteristiche più lampanti che lo hanno reso celebre a livello nazionale e mondiale.
Eppure il suo cinema, pur avendo sempre assunto connotati così inconfondibili e caratteristici, ha dovuto per forza di cose subire metamorfosi continue all'interno della sua lunga carriera registica, nata nel 1950 e terminata quarant'anni più tardi con il commiato poetico de La voce della luna.
Dopo essere entrato nel mondo del cinema come soggettista e collaboratore alla sceneggiatura, il giovane Fellini cambiò improvvisamente direzione nell'immediato dopoguerra dopo aver conosciuto Roberto Rossellini, che gli permise di scrivere il suo primo soggetto cinematografico (quello de "Il miracolo", episodio a basso costo ideato per Anna Magnani in L'amore). Il neorealismo del regista romano segnerà "il maggior debito da Federico riconosciuto per il suo futuro slancio creativo"¹ e i suoi primi film degli anni cinquanta non saranno altro che storie fortemente influenzate dai drammi di Roma città aperta e Paisà, capolavori in cui egli stesso collaborò alla realizzazione nelle vesti di sceneggiatore.

A scuola di neorealismo: quel mondo bizzarro di piccole vite

Luci del varietàLuci del varietà oltre a segnare il suo esordio alla regia, (meglio alla co-regia dato che la pellicola è diretta a quattro mani assieme ad Alberto Lattuada) delineava da subito l'interesse del regista riminese nel descrivere le sorti di un Paese ancora in ginocchio, sebbene sul punto di risollevarsi. Mentre il Piano Marshall cominciava anche in Italia a sortire i suoi effetti, Fellini concentrò la sua attenzione sull'avanspettacolo popolare, un ambiente non sempre ben conosciuto nei suoi retroscena e che faceva da preludio all'esplosione del varietà televisivo degli anni seguenti. In un quadro grottesco fatto di miserie, piccoli drammi e cocenti disillusioni, spicca la figura di Liliana, ragazza-tipo degli anni Cinquanta e gran divoratrice di fotoromanzi (al pari di Wanda, personaggio femminile del successivo Lo sceicco bianco), che fugge di casa desiderosa di entrare nel mondo dello spettacolo come soubrette (cfr. l'evoluzione di tale figura con la Donatella de La città delle donne girato dal regista trent'anni dopo).
Anche Ennio Flaiano, collaboratore alla sceneggiatura di Fellini, denunciava la tristezza e l'immoralità di una società che si stava via via orientando verso certi ideali: "La carriera coronata dal successo improvviso, la rinunzia all'amore per la carriera, la dura necessità di anteporre lo spettacolo agli affari privati"¹.
La prima tappa di Fellini era quindi volta allo smascheramento delle illusioni. Dietro ai contenuti manifesti edulcorati da amori, desideri e visioni oniriche/autobiografiche, il regista riminese rivelava alla radice un occhio beffardo e perplesso su una società i cui sogni e ambizioni venivano spazzati a poco a poco per far posto all'irrisolutezza e all'indecisione. Pur all'esordio dietro alla macchina da presa, il regista riminese si mostrava da subito a suo agio all'interno di quel mondo misero, stravagante, a tratti grottesco (le figure del trombettista, della zingara cantante, della coreografa). E la sequenza in cui l'intera compagnia, alle prime luci dell'alba, si avvia con passo dimesso su di una strada deserta ricorda molto (a ceti sociali invertiti, ovviamente) quello che diverrà il fotogramma più celebre nato dal genio di Buñuel, che più di vent'anni dopo dirigerà "Il fascino discreto della borghesia". Inutile sottolineare come la seminalità onirica di Fellini abbia influenzato il mondo dei più illustri cineasti europei che hanno fatto dell'impianto onirico uno dei cavalli di battaglia del loro repertorio: basti pensare solo a Ingmar Bergman, che conobbe di persona il maestro riminese e che da sempre lo ha reputato il regista a lui più vicino2.

Lo sceicco biancoIn collaborazione con Tullio Pinelli e sviluppato da un'idea di Michelangelo Antonioni, nel 1952 vede la luce Lo sceicco bianco, che come abbiamo già sottolineato, nutre una forte componente simbiotica con la pellicola precedente. Dal piccolo varietà si passa così al giornalismo popolare impregnato di fotoromanzi e di vignette caricaturali che il personaggio di Alberto Sordi rappresenta splendidamente. Wanda è un'ingenua, infantile e romantica ragazza di Falconara Marittima che insieme al marito Ivan approda a Roma in viaggio di nozze, ma finisce con l'innamorarsi del suo idolo dei fotoromanzi, lo "sceicco bianco" perfetto e inarrivabile. Scoprirà invece l'inganno e l'artificio del dietro le quinte, un mondo bizzarro e volgare che sembra essere l'opposto di quello che la sua immaginazione le aveva disegnato (e il cui climax si raggiunge al momento dello svelamento della vera moglie dello sceicco).
Di nuovo il provincialismo cede al fascino del mito e ne svela tutte le illusioni. E questa volta il tema tocca anche anfratti autobiografici perché la passione più grande del Fellini ragazzo e aspirante fu proprio quella della vignetta, del giornalismo satirico, dello "scarabocchio". Di nuovo scorgiamo la passeggiata notturna, portatrice di riflessione ed evasione (se a fare compagnia a Checco in Luci del varietà erano gli artisti di strada, qua a fare da compagnia a Ivan sono le prostitute). Ma soprattutto, di nuovo assistiamo alla medesima struttura circolare del tema amoroso: Checco e Melina --> Checco e Liliana --> Checco e Melina, da una parte, Wanda e Ivan --> Wanda e lo sceicco --> Wanda e Ivan, dall'altra. La prima regia indipendente di Fellini coincide altresì con l'inizio di una lunga intesa professionale con il musicista Nino Rota.

I vitelloniL'anno successivo fu la volta de I vitelloni, triste affresco sull'innocenza e sul ricordo della giovinezza, vero e proprio vestibolo all'Amarcord del ventennio successivo. Il vitellone descritto da Fellini è un ragazzotto ozioso e mantenuto, imprigionato dalla ragnatela della provincia e che aspira a una vita di maggiori fortune. Ma in fondo nessuno sa veramente cosa vorrebbe fare e dove vorrebbe andare. Prosegue come nelle pellicole precedenti l'intesa tra Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, che insieme tratteggiano cinque ritratti differenti della provincia riminese accomunati da una più che sottile vena malinconica e infantile, a tratti autobiografica (il personaggio di Montaldo), nonostante le peripezie siano votate, almeno a livello manifesto, all'ironia e alla risata. Alberto (Sordi) rappresenta in tal senso il vitellone che più è rimasto impresso nell'immaginario collettivo. Nella celeberrima sequenza in cui schernisce un gruppo di lavoratori con l'ausilio prorompente del gesto dell'ombrello e di una sonora pernacchia, Fellini trasmette allo spettatore tutta l'inadeguatezza e l'irresponsabilità di un volgare uomo di provincia; ma allo stesso tempo questa ridicolaggine, questo "vuoto" non fa altro che elevare una genuina semplicità che lo rende in pace con se stesso. Salvo poi consapevolizzarlo del fallimento della sua vita nella compassionevole sequenza del veglione, in cui la geniale allegoria del regista di nascondere la cocente illusione della realtà dietro alla festa in maschera si sgretola dinanzi al lamento doloroso di un uomo ebbro di vino. E se Alberto rappresenta il prototipo di quella sensazione di riso amaro che Monicelli farà sua in "Amici miei" e nelle sue "zingarate", il personaggio di Leopoldo (Trieste) è invece quello più fallace e tristemente ingannevole: "chi non ama l'arte non ama la vita" pronuncia il Commendator Natali, lasciando scorgere uno spiraglio di speranza nell'azione salvifica della letteratura, tanto amata dallo stesso Leopoldo. In realtà, l'unico in grado di salvarsi sarà Montaldo, che una mattina troverà la forza per salire sul treno, nella magnifica sequenza d'epilogo nella quale, in contemporanea con la sua fuga, Fellini inquadra i corpi immobili e addormentati dei suoi amici, destinati a un futuro dove la noia e l'abulia colmeranno quei corpi così affettuosamente descritti sino alla fine dei loro giorni.
"Può sembrare opera non compatta perché, per scelta di Fellini (e può essere anche una conseguenza della sua collaborazione con Rossellini, "episodico" per tendenza), procede per scene intrecciate e variamente articolate"³. In realtà Leone e Nastri d'argento confermeranno il carisma di un regista che cominciava ad avviarsi in direzione del mito. Indimenticabile la colonna sonora di Rota che aleggia scomponendo in minimi termini i toni del dramma e quelli della canzonatura.

Se da una parte Luci del varietà, così come Lo sceicco bianco e I vitelloni rappresentarono il naturale prolungamento del cinema neorealista influenzato da Rossellini, dall'altra evidenziavano le prime e nette prese di posizione di Fellini: "Ciò che più mi sta a cuore è la libertà dell'uomo, la liberazione dell'individuo dalla ragnatela di convenzioni morali e sociali nelle quali crede, o meglio nelle quali pensa di credere, e che in realtà lo serrano, lo limitano e lo rendono ristretto, più piccolo, talvolta addirittura peggio di quello che è"4.
Il suo cinema non intendeva fare altro che mettere per immagini una rappresentazione egocentrica e immaginaria che traeva ispirazione non solo dalle fantasie private del regista, ma anche dai grandi e piccoli dilemmi del mondo reale, quotidiano. D'altra parte i primi film di Fellini hanno continuato a essere apprezzati e visti non solo per i loro meriti artistici ma anche per quelli, definiamoli così, "pedagogici".

Sempre nel 1953 il regista riminese partecipa a quella che doveva essere la prima rivista cinematografica neorealista di nuovo corso, "Lo spettatore", ideata da Cesare Zavattini. L'amore in città costituisce la prima (e l'ultima) pellicola della rivista, un cinema-inchiesta a episodi diretta, oltre che dal Nostro, da Antonioni, Lattuada, Lizzani, Maselli, Risi e dallo stesso Zavattini. L'episodio di Fellini è "Agenzia matrimoniale" e per realizzare questi sedici minuti di cinema-verità si avvale del contributo di Tullio Pinelli. Ma contravvenendo all'idea di Zavattini che faceva del "vero" il suo messaggio, Fellini si inventa la storia grottesca di un giornalista che a sua volta si finge lupo mannaro in cerca di una moglie. È una parentesi che rafforza come la fantasia e il sogno siano elementi imprescindibili dell'autore romagnolo. Come un vasaio che plasma a proprio piacimento la sua argilla, il suo cinema stava lentamente trasformando le esperienze personali della vita in fiabe trasognanti e, allo stesso tempo, il modo convenzionale di girare stava mutando in favore di una visione puramente individuale, scollegata da qualsiasi punto di riferimento.

Apologo sull'illusione: verso la strada del riconoscimento internazionale

La stradaCome già accennato, senza Rossellini la carriera di Federico non sarebbe stata la stessa: "Rossellini è stato una specie di metropolitano che mi ha aiutato ad attraversare la strada. Non credo che mi abbia influenzato profondamente nel senso che di solito si dà a questa parola. Gli riconosco nei miei confronti una paternità come quella di Adamo: una specie di progenitore da cui siamo tutti discesi"5. Se glielo chiedessimo ora, da lassù, la voce (della luna) di Fellini non potrebbe esimersi dal non ammettere che proprio la pellicola che più si avvicinò al neorealismo disperato, malinconico e pregno di solitudine del regista capitolino, gli aprì quell'autostrada che lo portò dritto verso il circuito internazionale e mondiale. Lontano dal varietà più edulcorato ed elegante e appena un anno dopo aver ritratto la provincia e la gioventù smarrita del suo tempo, Fellini si getta nella drammaticità più cupa e tormentata con La strada, sintesi perfetta delle sue tre opere precedenti: di fatto lo smascheramento definitivo di un avanspettacolo fallace e illusorio (Luci del varietà, Lo sceicco bianco), e di una coscienza incapace di raggiungere i propri sogni di libertà (I vitelloni).
La storia è quella di un rude saltinbanco e di una ragazza dall'aspetto clownesco di nome Gelsomina, barbaramente schiavizzata ai voleri del diabolico Zampanò. Insieme, partono per un miserabile tour on the road alla ricerca di un pezzo di pane, per sopravvivere alla vita di tutti i giorni. L'incontro con il Matto, un giovane ragazzo scherzoso e pieno di vita, forse anche un po' squilibrato, aprirà un varco nella mente della giovane, fino ad allora inconsapevole della missione che il destino le aveva riservato.
Il film, oltre a essere insignito di numerose onoreficenze, tra le quali spicca il Leone d'Argento nel 1954, riesce nell'impresa di vincere per la prima volta la categoria dell'Oscar al miglior film straniero, istituito nel 1957, sbaragliando una concorrenza di tutto rispetto composta tra gli altri da Kon Ichikawa e da Renè Clèment. Ma la vera forza del nuovo progetto felliniano è la superba maschera dei volti, capeggiati da un Anthony Quinn in stato di grazia dopo il trasferimento agli studi di Cinecittà e dall'esplosione carnevalesca di Giulietta Masina, salita alle luci della ribalta dopo le prime apparizioni nelle pellicole dirette dal marito e ancor prima proprio da Rossellini nei capolavori Paisà e Europa '51.
Lo spirito puro, innocente e stravagante di Gelsomina, in contrapposizione al potere coercitivo di un padrone ignorante, amplifica il dolore generato dalla visione, un dolore che è poi quello di essere soli, abbandonati dal proprio destino e rassegnati da una vita che preclude qualsiasi flebile luce di speranza. Speranza che invece arriva, come un fulmine a ciel sereno, e porta le vesti di un deus ex machina buffone e disgraziato. Ma libero. La sua visione del mondo, priva da convenzioni e paure, e aperta a un movimento incessante, consapevolizzerà la ragazza nella sua missione: trasformare il cuore di pietra del suo protettore e scioglierlo dall'algidità della sua spietatezza ("Se non rimango io con te, chi può rimanere?", "Non c'è niente al mondo che non serve"). Perché tutti noi siamo venuti al mondo per compiere una missione, per quanto si possa essere poveracci, schiavi o pazzi.
Accusato da qualche critica insolente di essere oggi sopravvalutato nella sua facile morale, La strada si impone come il primo capolavoro assoluto del regista, magistralmente accompagnato da un Nino Rota in forma smagliante e da una coppia di attori pazzeschi, dotati di un espressionismo vivo da cinema muto. Ma soprattutto si rivela un apologo sulla solitudine e sul bisogno di percorrere la propria "strada" insieme, gli uni vicini agli altri, così come l'arte circense insegna ("Qua si lavora tutti insieme, la nostra è una famiglia"). Ed è proprio il circo, una tra le rappresentazioni portanti del cinema felliniano, a donare al film una compassione e una commiserazione che non solo si riallaccia al miglior cinema neorealista, ma che ancora oggi è altresì capace di conservare una poesia solenne e universale, a tratti onirica (l'espressione, i gesti e le movenze della Masina) pur nell'ossimoro che può legare l'arte neorealista ai tratti del sogno. Il risultato? Semplicemente quello che Rossellini non si era mai "sognato" di fare.

Il bidoneIl giovane e prolifico regista dirige appena un anno dopo, nel 1955, Il bidone, raffigurazione tragica e irriverente della Roma provinciale mascalzona e delinquente. Fellini prosegue il suo studio dei personaggi disegnando un trio di disonesti seriali, Augusto, Picasso e Roberto, che si divertono furbescamente a depredare i risparmi di una vita dei poveri contadini ignoranti. Focalizzando l'attenzione sul personaggio di Augusto (interpretato da Broderick Crawford) ben più stagionato degli altri due compari e anche padre di famiglia, la pellicola si riallaccia all'ingenuità inconsapevole de I vitelloni al pari di alcuni passaggi divertenti (seppure mascherati da un sottile velo di malinconia) come possono apparire un trio di cialtroni menzogneri travestiti da preti, pronti a prendere per i fondelli il credulone di turno, ma subisce un ritorno prepotentemente drammatico che ricorda per certi versi il lavoro precedente, dall'isolamento sociale, alla solitudine fino al rimorso che annienta l'anima del peccatore (Augusto come Zampanò, tra l'altro entrambi doppiati da Arnoldo Foà). Fino all'ultimo bidone inscenato ai danni dei suoi compari che ne decreteranno il tragico epilogo.
Scritto in collaborazione con i fedeli Flaiano e Pinelli, il quinto lungometraggio di Federico Fellini venne accolto in modo piuttosto indisponente al Festival di Venezia, avvenimento questo che lo rese freddo nei confronti delle prestigiose manifestazioni. Il bidone si rivela certo un film oggettivamente inferiore se rapportato a La strada e al suo capolavoro successivo, Le notti di Cabiria, ma rappresenta anche la degna conclusione di una trilogia ideale, che nella sua coerenza tematica e nella sua esacerbata rappresentazione di un'inquietudine profonda, pone le basi per confrontarsi sull'adeguatezza della propria esistenza, sulla ricerca della propria identità e libertà. Non è un caso che Alberto, Zampanò e Picasso vengano inquadrati ubriachi, in un pianto profondo, intenti a confessare tutta la loro inutilità e tutti gli sbagli delle loro azioni.
Da sottolineare la lunga e bellissima sequenza della festa di capodanno che anticipa di ben cinque anni la stagione de La dolce vita, mentre il sorriso della giovane Susanna, la ragazza storpia che scioglie in pochi istanti il cuore gelido di Augusto, rappresenta il primo grande accenno al tema religioso del "miracolo" che Fellini affronterà apertamente dall'opera successiva, creando così un punto d'incontro con il suo primo soggetto scritto, quel primo episodio contenuto in L'amore di Rossellini, del 1948.

Le notti di CabiriaIl cinema di Federico è un lungo fiume che in appena cinque anni ha già straripato in termini di contenuti ed emozioni, un fiume che zampilla di un cinema vivo, innovativo, umile. In mezzo a questa "inondazione" meravigliosa vede la luce nel 1957 Le notti di Cabiriamagnus opus di un decennio volto a denunciare l'illusione del povero cretino emarginato, portavoce di un cinema-verità che si maschera dietro ai lineamenti di una menzogna più grande. D'altronde era lo stesso Federico ad alludere alla "menzogna quale anima dello spettacolo. E io amo lo spettacolo"6.
Se la pellicola rappresenta l'acme del cinema felliniano degli anni 50, come dimostra anche il secondo Oscar consecutivo come Miglior Film Straniero, lo è allo stesso modo per la carriera di Giulietta Masina, finalmente protagonista assoluta di un film diretto dal marito. Il suo personaggio, già introdotto con la stessa goliardica ilarità e lo stesso accento romano di borgata ne Lo sceicco bianco (nella sequenza del giro di vite nella notte stellata, nella quale lo squarcio della poesia felliniana commuoveva e sollazzava allo stesso tempo), conquista meritatamente il Festival di Cannes, accaparrandosi il prestigioso Prix d'interprétation féminine. Il terzetto alla sceneggiatura (Fellini-Pinelli-Flaiano) si avvale anche del genio di Pierpaolo Pasolini che collabora ai dialoghi e dell'estro in ambito artistico di Brunello Rondi, già sceneggiatore di Rossellini. La pellicola vede anche l'inizio della lunga e proficua collaborazione con Paolo Gherardi alle scenografie, autore di una Capitale misera e affascinante, popolata da quei reietti simpatici e rozzi dei suoi abitanti.
Una squadra imbattibile che mette a punto l'apologo sciagurato della prostituta Cabiria, sfortunata e ingenua ragazza di Roma che sembra ereditare la stessa solitudine di Gelsomina. Sedotta e abbandonata, denigrata dalla celebrità, ignorata dalla Grazia e infine derubata dei risparmi di una vita, Cabiria è il prototipo di "una vita a cui l'esperienza non ha insegnato nulla"7.
Le notti di Cabiria è disseminato di sequenze magnifiche, dall'enigmatica presenza del benefattore misterioso (interpretato dal montatore Leo Catozzo) che rimanda alla poesia pasoliniana, al ritorno al varietà con lo spettacolo di illusionismo e ipnotismo intrattenuto incoscientemente proprio dall'innocente ragazza, ennesimo trampolino di lancio verso il fallimento e la caduta, come dimostra l'incontro predestinato con l'uomo dei suoi sogni, Oscar ("Allora mi vuole bene, è proprio vero. Non cerca di ingannarmi! Mi vuole davvero bene!"), re dei bidonisti, alter ego di Augusto. Immortalata in uno dei fotogrammi più belli della storia del cinema, Cabiria va ingenuamente incontro alla sua strada, quella verso la perdizione, ma al tempo stesso ne conserva la sua redenzione pronunciando una frase emblematica che di fatto la salverà nel finale di film, quel "non mi manca niente" e quel sorriso tra le lacrime che sopraffaranno l'istinto struggente del momento ("Ammazzame! Non vojo più vive!"). La purezza di Cabiria è più forte della fisicità di Zampanò e della scaltrezza di Augusto. Nella disperazione dei tre personaggi è proprio la ragazza romana a risultare "vincente", come dimostra il suo imponente sguardo rivolto verso la macchina da presa che ricorda vagamente il cinema di Charlie Chaplin. "L'amaro finale da cui Cabiria, scampata alla morte, si risolleva, l'incontro con i giovani studenti, la rianima dandole la forza di sorridere di nuovo. Maltrattata, derubata, ingannata, Cabiria torna ad essere Gelsomina, con, in sintesi, il segno supremo del suo carattere: l'accettazione nel bene o nel male, della vita così com'è"8.
Ne Le notti di Cabiria, Fellini amplifica il tema religioso del "miracolo" in contrapposizione allo spirito ingenuo e puro del "povero ignorante", concetto già inaugurato nel finale de Il bidone. Emblematica è la sequenza nella quale le prostitute si accodano in marcia verso la funzione religiosa, al fine di ricevere la Grazia dalla Madonna e l'esito amaro che ne consegue nei pensieri della povera Cabiria ("ndo annate con quello stendardo tra i prati, a cercà lumache?").

Nei due capolavori di caratura internazionale quali La strada e Le notti di Cabiria, "la libertà dell'uomo" così profetizzata da Fellini raggiunse l'acme. Eppure in pochi ricordano che alla loro uscita attirarono i giudizi più feroci da parte dei critici di sinistra. Proprio a partire dal 1954, infatti, era in atto un tentativo di incanalare tutte le tendenze artistiche verso quello che avrebbe potuto diventare una specie di realismo socialista, e dunque i critici di sinistra, italiani e francesi, bollarono in particolare questi due film come conservatori, incarnazione degli aspetti più reazionari della cultura italiana precedente la guerra. Davvero difficile, oggi, rivivere le peripezie di Gelsomina e Zampanò o scrutare la prostituta Cabiria fra le vie di Roma, adottando come chiave di lettura una prospettiva politica. Ecco perché nel corso dei decenni successivi La strada, Le notti di Cabiria ma anche il sottovalutato Il bidone sono stati collocati in un'ottica più ovvia, interpretati cioè come splendidi affreschi dissacranti sulla solitudine, sull'incomunicabilità e sull'alienazione, temi poi diventati centrali nella "riflessione dell'esistenzialismo europeo alla ricerca di risposte e alternative a una società che andava mutando i propri valori a fronte di una crescita economica che tutto travolgeva"9.
Fellini, da buon dissidente, ignorò la critica della sinistra e in maniera abbastanza indisposta non cercò mai di intavolare una discussione su siffatta questione (forse la sua mai negata antipatia nei confronti della politica cominciò da questo curioso fatto). Girò le spalle, improvvisamente, anche al pessimismo che in quel periodo stava lentamente strisciando fra le sue pellicole. Ne dava la prova la stessa Cabiria, che scampata dalla morte si risolleva dal vortice di disperazione che la attanaglia. È un messaggio importantissimo, chiaro ed esaustivo: nonostante la solitudine e l'inquietudine dei suoi film, nonostante le critiche politiche, nonostante i segnali di avviso che vedevano una società in pericolosa evoluzione, nonostante tutto Federico Fellini era ancora ottimista e sostanzialmente imperturbabile ai clamori dell'esterno. La sua figura ricordava molto lo stesso personaggio di Cabiria, che tra sé e sé ripeteva all'interno del film: "In fondo non mi manca nulla...".

Il connubio tra arte e società: le critiche alla "schifosa vita"

La dolce vitaCon La dolce vita, spartiacque imprescindibile della filmografia felliniana, non solo l'immagine si trasformava in arte ma si instaurò prepotentemente tra i pensieri del regista (ancora una volta) un profondo e latente bisogno di inquadrare la situazione di un Paese, di scavare a mani nude tra costumi, consumismo e stratificazioni sociali in un Italia che nel pieno del boom economico non accennava ad arrestarsi. Quella chiave di lettura che nei precedenti film poteva pur sembrare di troppo qui trovava finalmente una ineludibile collocazione (anche se l'esplorazione del ceto medio-borghese era già stata affrontata ne Il bidone, nella sequenza della festa di capodanno, qui evolutasi in salotti, night-club e feste vip). A più di cinquant'anni, La dolce vita conserva ancora intatto il suo "affresco anticipatore di quella nuova società ben conscia delle possibilità di sfruttamento offerte dai mass-media, che venne emergendo dalla sonnacchiosa e provinciale cultura degli anni Cinquanta"10.
Accostando all'immagine una componente pittorica, l'arte di Federico delineava una profetica ascesa socio-culturale incarnata da paparazzi (termine coniato proprio in questa pellicola) e splendide dive straniere, assorbita da un benessere illusorio che trovava il suo finecorsa nella dolorosa assenza di speranza, di rimorso, di redenzione. Lo sguardo di Fellini è implacabile: scatti fotografici ovunque, speculazioni dei primi media, orgiastici piaceri proibiti, tentativi mancati/riusciti di suicidio e omicidio, il bisogno di sfogarsi, di raccontare le prime trasgressioni in concomitanza col formarsi di un nuovo tessuto sociale dedito alla mondanità e al materialismo. Atteggiamenti insensati e tragedie per cui la logica non trova spiegazione, fino alla condanna conclusiva rappresentata da una società appena nata ma già in stato di putrefazione (la carcassa del mostro marino a bordo riva, inquadrato in modo impietoso in chiusura di film). Anche la religione è spacciata. Anzi derisa, tra bambini pseudo-miracolati che urlano "È lì la Madonna! No, è là!" e un Cristo trasportato in elicottero sotto gli occhi curiosi di raggianti ragazze in bikini.
La Palma d'Oro al tredicesimo Festival di Cannes è uno squarcio di "vita vera", ritratto di una Roma popolata da star, intellettuali e provinciali, ognuno disperso nella mestizia della propria sorte e nel paradosso del vissuto umano, come il sogno grottesco e pasoliniano della notte al castello, dove il misterioso e affascinante festino mascherato diventa il pretesto per l'ereditiera Maddalena di chiedere a Marcello di sposarla, per poi tradirlo già dopo pochi secondi ("Non sono che una puttana, lo sai. Non c'è rimedio, sarò sempre una puttana, e non voglio essere altro!"). O ancora come il collasso del padre di Marcello avvenuto all'interno del night, sequenza dal forte impatto malinconico ed esempio raggelante di un rapporto padre-figlio privo di valori e contenuti. Neanche l'arte ne esce incolume, perché se in qualche modo Leopoldo ne I vitelloni riuscì a seguire la flebile luce del Commendator Natali, qua il giornalista Marcello non può che arrendersi al tragico epilogo del mentore Steiner. Così l'aspirazione che accompagna il personaggio di Mastroianni a intraprendere la strada della letteratura e della poesia ("questa è proprio l'arte che preferisco, che penso servirà domani. Un'arte chiara, netta, senza retoriche, che non dice bugie, che non sia adulatrice") si rivelata fallimentare, col giornalista che ripiomba ben presto nell'ideale sgangherato di Luci del varietà, preferendo cioè il meglio remunerato mestiere di manager di attori e stelle dello spettacolo.
Il regista non uscì indenne da critiche e rimostranze. Questa volta gli si scagliò contro persino l'intera istituzione religiosa (che ridefinì la pellicola "la schifosa vita"11) guidata dall'Ufficio Stampa del Centro Cattolico Cinematografico, il quale dapprima emise un giudizio preventivo e provvisorio quale "sconsigliato", e in seguito bollò definitivamente il film come "escluso per tutti". Il povero Fellini ci aveva già lasciato da un paio di mesi quando il 14 gennaio del 1994 ne "Il Messaggero" la civiltà cattolica ammise per la prima volta che La dolce vita non rivelava nient'altro che "la Via Crucis di un peccatore che si confessa". E questo bastò per fargli ottenere la prima riabilitazione ufficiale. Anche le istituzioni governative italiane furono protagoniste di aspre critiche e censure nei confronti di Federico, soprattutto a nome di Luigi Scalfaro.

Anche a causa di questa ennesima critica, soprattutto in ragione di questo linciaggio gratuito12, Fellini cominciò a presentare le sue prime forme di insofferenza e di cambiamento. Non fu un caso che il "rivoluzionario" '79 di Prova d'orchestra assumesse per molti critici il naturale seguito di ciò che successe vent'anni prima. Scriveva a tal proposito Mino Argentieri: "Un cineasta non è un leader di un partito, nessuno gli chiede di essere un direttore di coscienza. Questa volta però è successo che in molti abbiano attribuito a Fellini questo ruolo come d'altronde era capitato quando 'La dolce vita' scosse l'Italia del boom economico, molestando bigotti e fascistelli, polverosi magistrati ed elettori democristiani, e sfrenando le erudite repliche di intellettuali, teologi, psicologi"13.
Fellini dimostrò ancora una volta come sapesse leggere in profondità e prevedere con un decennio di anticipo quello che sarebbe accaduto di lì a poco, con il trionfo della cultura di massa, tema che, come vedremo, sarà ripreso e affrontato dal regista anche nelle sue opere successive (Le tentazioni del dottor Antonio, Toby Dammit), fino al delirio della tv commerciale in concomitanza con gli ultimi anni del suo percorso artistico e professionale.

Le tentazioni del dottor AntonioSeppure in toni decisamente minori, i caratteri sociologici del regista si condensarono in film minori e soprattutto in modo maggiormente "protettivo", collaborando cioè in pellicole corali, scritte e dirette a più mani. Nel 1962 con l'episodio "Le tentazioni del dottor Antonio" (in Boccaccio ‘70, ideato da Cesare Zavattini) affioravano a galla i primi malumori verso stampa, magistratura e censure di vario genere, comunicando una coraggiosa rivendicazione per il rispetto del proprio lavoro creativo di artista. Boccaccio '70 è in generale un film collettivo anti-censura, in polemica col fronte della morale comune (in cui intervennero oltre a Fellini anche De Sica, Monicelli e Visconti) ma quello del regista riminese in particolare si rivelò una vera e propria vendetta personale verso Scalfaro e la comunità cattolica, a colpi di Anita Ekberg e trovate geniali, come il protagonista Antonio Mazzuolo interpretato da Peppino De Filippo, portavoce di una rivolta contro una popolazione senza ritegno e pudore, che intima direttamente in macchina rivolgendosi al pubblico: "Non la guardate! Uscite dal cinema!" in riferimento ad Anita Ekberg che minaccia un audace spogliarello. La vendetta alle critiche de La dolce vita è servita. Fellini lo fa con intelligenza, sfoggiando tutta la sua più grande dote: la fantasia. Le allusioni sono davvero tante, dalla presenza della Ekberg ai musicisti che suonano e cantano il tema del precedente film, sino al grido reiterato della parola "Basta!" (il titolo dell'editoriale de "L'osservatore romano" contro la pellicola).
A ben vedere, l'episodio ricorda molto "Simon del deserto" di Buñuel (La Pinal come la Ekberg, donne identificate come diavoli nelle loro tentazioni), girato tre anni dopo, nel 1965, con Simon che, alla stessa stregua di Antonio, cede alle lusinghe dell'immorale, dell'impuro. Per i più frivoli Le tentazioni del dottor Antonio rimane lo "scherzo" creativo di un grande regista alle prese con le sue prime riprese a colori, anche se a ricordarlo ancor di più è forse il celeberrimo motivetto del grande Nino Rota che proietta profeticamente con largo anticipo il Nostro nel campo dello spot televisivo.

Toby DammitLa seconda frecciata Fellini la scoccò sei anni dopo con "Toby Dammit", terzo episodio di Tre passi nel delirio, diretto assieme a Roger Vadim e Louis Malle. Anche quest'ultimo progetto, al pari de Le tentazioni del dottor Antonio, gode di una sceneggiatura quasi inconsistente, tutta giocata sui deliri granguignoleschi del regista, in un periodo in cui a scopo prettamente terapeutico Federico provò l'esperienza immaginifica dell'acido lisergico. Quaranta minuti di lugubre oniricità, di impalpabili luci, di concezioni felliniane e poeniane e che decretano, tra le altre cose, la lunga e fruttuosa collaborazione con il direttore della fotografia Giuseppe Rotunno. Il film, ispirato ai "Racconti straordinari" di Poe (in particolare l'episodio diretto da Federico si ispira a "Non scommettere la testa con il diavolo"), si prospettava come un'ottima occasione per "giocare" con la critica e schernire i censori puritani. Basti pensare che Toby Dammit altro non è che un giovane attore inglese drogato e alcolizzato che sbarca a Roma, tra la folla impazzita dei fan, per essere il protagonista del primo western cattolico! La pellicola, oltre a far scatenare di nuovo l'ordine ecclesiastico, sarà il punto di partenza per un nuovo stadio di denuncia, quello contro i meccanismi alienanti del mondo dello spettacolo (la sequenza negli studi tv). Se ci si pensa, infatti, in questi miseri quaranta minuti si compie la degenerazione evolutiva di Luci del varietà: se l'illusione di Liliana conduceva la ragazza a provare sentimenti di desiderio e felicità, la disillusione del giovane attore lo porta all'autodistruzione, all'odio ostinato verso tutto e tutti ("Perché mi avete chiamato? Cosa volete da me?"). Sono dunque questi gli effetti di una società adibita progressivamente alla bramosia di successo nel mondo dello spettacolo, al potere mediatico della televisione e del giornalismo più insensato e sfrontato? La risposta potrebbe arrivare dal primo ventennio di cinema felliniano, un magma in continuo evolversi di temi sociali che si sono inevitabilmente riversati in ambito istituzionale. Ma non con la solita prospettiva e l'abituale stile cinematografico che caratterizzavano l'approccio tradizionale al cosiddetto "film politico" in auge tra gli anni sessanta e settanta. Amarcord, in tal senso, rappresenterà il fenomeno più lampante e compiuto di questo modus felliniano che consisteva nel filmare la politica di un Paese senza che lo spettatore se ne accorgesse.

Come in uno specchio: visionarietà, estetica, autobiografia

Nel decennio successivo, mentre la profezia de La dolce vita investiva l'Italia creando i primi singulti che porteranno alle contestazioni studentesche e operaie del famoso '68, il cinema di Fellini raggiunge il punto culminante in tema di visionarietà, estetica ed autobiografia, i suoi caratteri più indiscussi. Sono gli anni di , Giulietta degli spiriti e Satyricon.

Otto e mezzo"Beh, che ci prepara di bello, un altro film senza speranza?". Visitato dal dottore che gli prescrive una cura a base di beveraggi di "acqua santa" e fanghi, il regista Guido Anselmi è visibilmente provato dallo stress e dai suoi sogni ricorrenti e cerca riparo tra le mura di un centro termale per ritrovare se stesso. Inizia così , capolavoro inarrivabile del genio felliniano, della cinematografia internazionale, della settima arte tutta. A dire il vero, l'incipit è quello di un silenzio penetrante, di sguardi che scandagliano l'animo, del traffico metropolitano, di soffocamenti, apnee, voli, catture, cadute nel vuoto. In una parola, il sogno. Questo è : collante ideale tra la natura critica e di denuncia e il tema onirico/simbolico, evoluzione di quella messa in scena propedeutica che è La dolce vita (lo si potrebbe intuire anche da piccolissimi particolari, come ad esempio le analogie che legano le figure di Marcello/Guido, i loro padri, le loro (pseudo)mogli Maddalena/Luisa, tutti interpretati dai medesimi attori, rispettivamente Mastroianni, Ninchi e la Aimèe). Ma come ripetere la perfezione, anzi superarla? è, come tutti sanno, opera intimamente autobiogafica a cominciare dal titolo, e non solo per l'interpretazione dell'alter ego Mastroianni: ripercorre altresì il suo rapporto con gli attori (si pensi a Sandra Milo e alla sua presunta vita privata), con i sogni (molti fotogrammi della pellicola non sono altro che immagini sognate da Federico e successivamente riproposte in disegni da lui stesso realizzati, oggi conservati alla Fondazione Fellini di Rimini) con la finzione (la traduzione metatestuale della sequenza dei provini, del film dentro al film, della vita come un continuo sogno a occhi aperti, lo splendido finale). Lo smarrimento e il patimento, entrambi causati dalle critiche piovute a La dolce vita, il bisogno di psicanalizzare i pensieri, i sogni, i ricordi, non sono altro che sensazioni vissute da Federico, prima che da Guido.
Accompagnati da reminiscenze wagneriane e rossiniane e dallo splendore altisonante delle marcette di Nino Rota, ripercorriamo lo stallo fisico e mentale del "vecchio Snaporaz", regista di mezz'età sposato con Luisa ma complice di un rapporto adulterino con Carla, seguace e vittima della canonizzazione della "dolce vita". La sua esistenza è risucchiata da un nuovo lavoro cinematografico, la produzione di un film incentrato sulla coscienza cattolica, dal quale però non riesce a trovare la capacità creativa che vorrebbe e che quasi lo trasforma agli occhi dei più in un abulico e solitario egoista (epifanici a tal riguardo i dialoghi con Canocchia nel corridoio dell'albergo e con Rossella ai piedi dell'astronave). La sua "crisi d'inspiration" è inframezzata da sogni cimiteriali che rievocano i suoi genitori (sogni nei quali Fellini esibisce tutto l'estro avanguardistico da Nouvelle Vague alla macchina da presa), da ricordi di infanzia grottescamente rimarcati da espressioni puerili alla Asa Nisi Masa e da avvenimenti vergognosamente proibiti (la Saraghina, prototipo della Gradisca di Amarcord) nell'ambiente religioso in cui è cresciuto. E proprio ora che il suo nuovo film riaffiora la fede cattolica, Guido ha quantomai bisogno dell'appoggio della Chiesa, un benestare che può voler dire tutto. Ma nell'infelicità e nell'inadeguatezza di Guido il cardinale lo invita a pensare ad altri compiti per la salvezza della sua anima. In fondo, "chi ha detto che si viene al mondo per essere felici"?
L'astronave, in origine unica via di fuga del protagonista, stenta a decollare e Guido comincia a gettare la spugna: "Mi sembrava di avere le idee così chiare. Volevo fare un film onesto, senza bugie di nessun genere. Mi pareva di avere qualcosa di così semplice, così semplice da dire. Un film che potesse essere utile un po' a tutti, che aiutasse a seppellire per sempre tutto quello che di morto ci portiamo dentro". E la sconfitta, la consapevolezza di aver macchiato di infedeltà e falsità la sua esistenza, arriva dal sesso femminile, dalla donna, epicentro di lealtà e verità che non potrà mai rispecchiare le tesi libertine e un pizzico maschiliste di Guido: "La felicità è dire sempre la verità senza far soffrire nessuno", che tradotto significa avere il desiderio di possedere un harem costituito da madri, mogli, amanti, attrici, soubrette, puttane e conoscenti. Tutti insieme appassionatamente. A differenza di Brassens, Guido/Federico non piange "le labbra assenti di tutte le belle passanti che non si è riusciti a trattenere"14 perché il suo film/mondo vive costantemente di appagamenti amorosi, in simbiosi col suo spirito, diciamo così, genuinamente immorale. Ci pensa l'angelica Claudia (Cardinale), sua ultima musa, a smascherare definitivamente la natura di Guido, ribadendogli più volte "non sai amare" alla sua disillusione che una donna possa mai cambiare un uomo.

Profondamente ironico, è anche l'ennesima occasione per prendersi la rivincita dei giornalisti inopportuni che realmente in quel periodo domandano a Fellini cose assurde, come ad esempio se il suo nuovo progetto fosse una fusione tra marxismo e cattolicesimo, o ancora se la pornografia per lui potesse mai essere la forma più intensa di spettacolo. Ancora più marcata è la figura paranoica e ampollosa del critico cinematografico che denigra qualsiasi cosa, per poi appoggiare in pieno la decisione del protagonista di abbandonare la regia del film: "Ha fatto bene, non c'è bisogno di aggiungere disordine al disordine". Figura che sarcasticamente finisce con l'essere impiccata nel bel mezzo di un auditorium dalle fantasie di Guido.
A pochi passi dall'astronave, Guido è attorniato da stampa estera, critici, e fotografi. Il caos regna, il silenzio di Guido anche. Il "suicidio" del film collima con la realizzazione personale che "questa confusione sono io!". Ormai priva di paure e sconvolgimenti, la mente di Guido troverà, seppur nel granitico e possente potere della fantasia, la sua via di fuga, la sua ispirazione che cercava da tanto tempo, il suo "lampo di felicità che lo fa tremare, che gli ridà forza, vita". In un cerchio di vite, nell'atmosfera circense che ci ricorda come la vita sia una festa e vada vissuta insieme, le luci si attenuano, l'immagine si dissolve.
No, non è un altro film senza speranza.

Giulietta degli spiritiGiulietta degli spiriti, rappresenta il naturale prolungamento del capolavoro intimista di Federico, un improntato sulla Masina, "nato su Giulietta e per Giulietta"15. Prima parte di una trilogia sull'universo femminile composta anche dai successivi Il Casanova e La città delle donne, il nuovo progetto del regista riminese ostenta in effetti l'ennesima "crisi", questa volta non di natura artistico/lavorativa ma di carattere prettamente privato: è di quegli anni infatti la voce che Fellini stia vivendo la sua crisi coniugale con la Masina. Solo un genio potrebbe fondere gli accadimenti della vita privata con la passione della sua professione: le bugie di Giorgio (Mario Pisu) sono le stesse di Guido e tra i personaggi di questo nuovo lavoro si rievoca più volte lo stesso harem che nel capolavoro precedente aveva messo a nudo la solidità dell'istituzione matrimoniale. Come conferma una smagliante Sandra Milo (che si scoprirà poi essere l'amante nascosta del regista per ammissione della stessa attrice), alias Susy, che nel film ammette: "Anche a me piacerebbe amare un uomo solo ma come si fa?!".
Ma andiamo con ordine. Nel film Giulietta è una scultrice che abita in una lussuosa villa frequentata da strani personaggi, in procinto di festeggiare l'anniversario di matrimonio con Giorgio. Influenzata da sedute spiritiche, voci e apparizioni, crisi di identità e dalla scostumata amica Susy, Giulietta è però convinta che il marito la tradisca. In una lotta personale che la tiene in un limbo tra fedeltà e insegnamenti morali che il passato le ha insegnato e l'impulso sensuale a cui sta per cedere, la donna cerca disperata la strada che possa porre fine ai suoi incubi e ritrovare l'agognata serenità.
Quella allestita da Fellini è una magnifica rappresentazione surrealista de La dolce vita influenzata dall'evasione verso la magia di quegli anni (l'incontro con Gustavo Rol che fa evolvere la sua già spiccata preponderanza per l'illusionismo e la magia come già visto ne Le notti di Cabiria), dai magnetismi della psicanalisi junghiana, dagli irrinunciabili rimandi al circo e alla Chiesa cattolica, come testimoniano le sequenze del collegio delle suore e della recita. E poi un erotismo elegantemente profuso a colpi di bordelli e orge, impreziosite visivamente da un esotico policromatismo e dall'imponente contributo scenografico e ai costumi di Gherardi. Se infatti si esclude il divertissement in Boccaccio '70, Giulietta degli spiriti è in fondo il primo vero lungometraggio felliniano a colori. "È qui, direi, il punto nevralgico del film. Come dentro una magnifica bolla d'aria, allo scoppio, cioè alla fine, non rimane niente; solo il ricordo dei colori dell'arcobaleno, ma non un'idea, non un senso. La storia di Giulietta rimane piccola piccola, insignificante"16. In fondo l'amante del marito neanche la vediamo e non sappiamo neanche se effetivamente esista! Giulietta degli spiriti rimane allora, tra l'intera filmografia felliniana, la pellicola con l'apporto più massiccio di materiale onirico: un flusso di sogni, colori e vita privata.

Fellini SatyriconEstetica e visionarietà proseguono il loro cammino con il pastiche di Fellini Satyricon, rielaborazione onirica e suggestiva del "Satyricon" petroniano scritto nel primo secolo d.C., dove veniva marcata la decadenza dell'antica Roma di Nerone attraverso la satira graffiante e indecorosa dei suoi personaggi. Fellini trova l'aiuto di Bernardino Zapponi per cercare di rispondere a una domanda che lo assilla: com'erano e come vivevano i romani di un tempo?
Titoli di testa. Il monologo del giovane Encolpio introduce lo spettatore tra i fumi di una Roma fatiscente e squallida, alla ricerca dell'altro protagonista, Ascilto. Insieme i due intraprendono bizzarre avventure, in una sorta di rito iniziatico alla vita. A tratti incomprensibile, avvezzo ad avvenimenti senza soluzione di continuità, il Satyricon felliniano mette a nudo la psicologia precristiana profondamente diversa dalla nostra, in un trionfo di approcci semiotici che esaltano gesti, simboli, sguardi. Non è un caso che Fellini abbia modificato l'ambientazione del suo personalissimo Satyricon nella culla di Roma, invece che rispettare il romanzo di Petronio che vede svolgere le sue peripezie tra le città della Magna Grecia. Come in un viaggio tra sogno e teatralità, con i personaggi che fissano e parlano alla macchina da presa, i temi trattati riconducono al nesso pasoliniano del nudo, dell'omosessualità, dell'impotenza e della necrofagia. Un'orgia di colori, volgarità e mestizie che accomunano la pellicola felliniana con la "trilogia della vita" (tra tutti "I racconti di Canterbury") realizzata successivamente dal poeta bolognese nei primi anni Settanta.
Anche grazie alla leggiadra scenografia di Danilo Donati, di primaria importanza nel film, Fellini Satyricon rievoca altre arti come la pittura orgiastica e informe di Bosch17, la Commedia dantesca nella sua volgare accezione (il banchetto di Trimalcione) e l'Odissea omerica in fatto di conquista e avventura (le navi sperdute tra i mari). La pellicola, altresì, celebra numerosi collegamenti con la filmografia passata del regista, a cominciare dall'ossessione della morte e della decapitazione in Toby Dammit, per poi sconfinare nell'esoterismo e nella magia di Giulietta degli spiriti (l'ermafrodita), fino al refrain reiterato del circo, questa volta rappresentato da nani, mutilati e ritardati, una sorta di riproposizione in chiave storicistica dei "Freaks" di Tod Browning.
E in un certo senso non potremmo dire che la cadente Roma Imperiale raffiguri la stessa caducità morale, la stessa crisi esistenziale e religiosa descritta ne La dolce vita? E il viaggio illogico di scena in scena, l'ossessione dell'impotenza, la ricerca di nuove sfide, la fuga in nave dell'epilogo come evasione dalle minacce della vita (il minotauro), non sono forse appunti autobiografici di un regista che dopo cerca disperato una via di uscita (l'astronave) per potersi muovere tra gli specchi del passato con le stesse fattezze di Encolpio?

Il cassetto dei ricordi: quando l'arte incontra la memoria (e la denuncia)

"Le credulità infantili del pubblico non esistono più". È il 1970 e Federico intuisce come la tappa evolutiva della sua carriera nutra l'esigenza di affrontare l'impronta del proprio trascorso. Così, nel giro di tre anni vedrà la luce quella che di fatto può considerarsi come la "trilogia del ricordo", tre lungometraggi che disseppelliscono la memoria del regista in una superba chiave onirica.

I clownsCon I clowns si materializza in modo concreto una delle fonti di ispirazione portanti del pensiero felliniano. Quello del tema circense è infatti una vera e propria ossessione che vede la nascita sin dall'esordio di Luci del varietà per poi ritornare con toni più marcati ne La strada e in . Ma a dispetto di questo minimo comun denominatore vi è un evento che attesta un cambio di rotta del regista verso nuovi territori inesplorati: è l'addio di Ennio Flaiano che, dopo un ventennio di collaborazioni col cineasta riminese, lascia il posto a Bernardino Zapponi (il quale diverrà un altro suo storico collaboratore alle sceneggiature). "A chi gli chiederà perché non collabori più con Fellini, Flaiano risponderà: 'A Federico ora interessa più il sogno'. Ma il sogno si sposa anche coi ricordi, tanto che non c'è più da capire se quel che racconta Fellini del suo passato è memoria autentica o realtà sognata"18.
Dal sogno alla memoria, fino alla menzogna fantasticata. Il passo insomma è breve, soprattutto se parliamo di Federico Fellini.
Il film, il primo realizzato per la televisione, (Rai Tv) si articola in tre parti: nella prima il bambino Federico fa la sua conoscenza del circo e scorge un mondo di "mostri" e vagabondi, di mutilati e dementi (cfr. Giovannone, la monaca nana, Cotechino, Giudizio). Giocando con alcuni scherzi del genere umano, caratteristica antesignana di Amarcord, Fellini rievoca un passato informe ma umile, oltre che incantevole nella sua ricchezza di colori e di personaggi. Nella seconda parte il regista, divenuto adulto, adatta a documentario le immagini sul circo, ponendosi l'interrogativo se l'arte del clown esista ancora oggi e se sia ancora intatta. Reportage che raggiunge il parossismo nella terza e ultima fase della pellicola, in cui si assiste a un vero spettacolo di clown. In un epilogo dolce e amaro, fragoroso e silente che non può che far tornare in mente la girandola finale di .
I clowns rappresenta effettivamente più un lavoro televisivo che non cinematografico (le numerose interviste alle più celebri famiglie circensi), un cinema di inchiesta e poesia che scava tra melanconia e ricordo. È soprattutto opera dalla massiccia componente autobiografica, una parentesi privata, confidenziale, nella quale Fellini riconosce con commozione e commiserazione un mondo che mai più gli si presenterà dinnanzi e che solo il fascino immaginifico e introspettivo della memoria può salvaguardare dall'incedere sostenuto della nostra esistenza.

RomaE poi Roma, quel bisogno vitale di celebrare vite passate e presenti della città eterna attraverso uno stile reiterato e inconfondibile, ma pur sempre unico nel saper approcciare alla realtà, ogni volta, inoculando finzioni oniriche e fantastiche. Con uno sguardo simil-documentaristico e autobiografico al pari de I clowns ma in maggior misura dilatato di lirismo poetico e satira ironica e volgare, Roma rappresenta sicuramente uno di quei film che Federico scrisse col cuore, cartolina nella quale Fellini commemora sé stesso e il cinema, in quella che per lui fu la città del successo e quindi della sua lunga carriera professionale, una "Mamma Roma", direbbe Pasolini, che lo ha cresciuto e maturato nella sua lunga e continua gestazione creativa, dopo essere stato cullato dal provincialismo della natia Rimini.
Per la seconda volta consecutiva, Fellini interpreta sé stesso e viene più volte immortalato dalla sua stessa macchina da presa, quasi a voler insistere sui connotati autobiografici improntati al film. Film che frammenta in brevi ritratti senza soluzione di continuità e senza nessun legame apparente, lo spirito aristocratico e grottesco della Capitale, tra il fascino della sua storia e del suo passato e l'amore verso i suoi abitanti espresso mediante cene improvvisate in mezzo alla strada, filastrocche, ballate scanzonate.
La ripugnanza e la grossolanità di Satyricon sono presenti anche qua, traslate nel presente (gli affreschi sotto la metropolitana ne sono il collegamento diretto), con i bordelli degli anni 30, il sudicio pubblico teatrale, e soprattutto con la gioventù di ladri, vagabondi, drogati che, come Encolpio (e Accattone, tanto per cercare un personaggio più contemporaneo), cercano risposte alla propria esistenza, bighellonando tra i vicoli della città.
E la Chiesa? Lo sberleffo definitivo al tema cattolico-religioso Fellini lo inscena attraverso un'irrefrenabile brama di genio e fantasia che culmina nella rassegna di moda ecclesiastica (dove svettano le scenografie e i costumi di Danilo Donati), rappresentazione che esaspera la sua graffiante ironia di minuto in minuto per fare poi spazio a un angosciante presagio di morte.
Ennesima dimostrazione di cinema multiforme la Roma di Fellini, dove dramma, commedia, grottesco, musical e documentario sguazzano tra le immagini ammaestrate dalla regia creativa di Federico. Roma non è "cinema verità", piuttosto ritrae un falso così vividamente reale da rimanerne sbigottiti e dove la "normalità" è sovvertita, come quando al teatro della Barafonda non si riusciva a capire se l'esibizione la facevano gli artisti sul palcoscenico o avveniva invece in platea, tra la maleducazione degli spettatori. Metafora di una realtà spesso molto più teatrale dello spettacolo. Così, tra i doverosi camei di Sordi e della Magnani (alla sua ultima apparizione) la pellicola termina come era iniziata, senza alcun filo conduttore ma con la certezza che un'altra poesia sia stata prontamente incisa nel cassetto dei ricordi, cinematografici e non. Compreso il suggestivo finale che ritrae un gruppo di motociclisti salire in sella e sfrecciare senza meta nella notte deserta e silenziosa della Capitale. Senza troppi perché. In fondo, "Io credo che si deve fare solo ciò che ci è congeniale"19.

AmarcordI clowns e Roma sono i manifesti anticipatori di una nuova tappa del cinema felliniano fondato sul ricordo, dove il pathos dell'arte si fonde con la suggestione della memoria. Nel giro di tre anni, la rievocazione del passato avvenuta nei due fiumi affluenti, per così dire, sfocia nel torrente in piena del celeberrimo Amarcord, la pellicola più autobiografica del regista e per questo maggiormente indiziata a rivelare la vera natura dell'ermetico Fellini.
Siamo nell'inverno del 1973 e, nelle sale cinematografiche del Belpaese, il regista fa ritorno da Roma alla sua Rimini, portando con sé alcuni personaggi che avevamo già intravisto nella sua pellicola precedente come la monaca nana, Giudizio e il preside della scuola. Amarcord ("mi ricordo" in dialetto riminese) è un itinerario senza meta tra fantasia e memoria, una sorta di rielaborazione de I vitelloni, ma con un registro maggiormente malinconico e solenne. E proprio come nel suo film di vent'anni prima, alcuni personaggi non realizzeranno mai i loro sogni, altri invece, come Morando, raggiungeranno la maturità, vedi il protagonista Titta, o il traguardo del matrimonio raggiunto dalla Gradisca, uno dei simboli indelebili di questo capolavoro (e la cui immagine femminile è contrapposta alla ninfomane Volpina, evoluzione della Saraghina di ).
Scritta in collaborazione con Tonino Guerra, la pellicola è la conclusione perfetta di una trilogia orientata sul ricordo, anche falso, immaginario e sulla genialità creativa di un artista dalla fervente prolificità. Sintesi perfetta del cinema felliniano, sia per il contenuto che per la forma, unanimemente considerata come il lavoro più autobiografico del regista, non solo per il ritorno di Fellini alla sua Rimini, disegnata come un mondo pregno di ricordi e immaginazione, quanto per la sua costruzione totalmente anarchica e priva di schemi. Eppure, in questa massa informe di sovversione e confusione, Amarcord uno schema ben preciso ce l'ha, e anzi il suo contenuto sarà capace di alterare il pensiero di "fare cinema" nell'ultimo arco di carriera del Nostro.

Mentre l'Italia del cinema sessantottino continuava a sfornare film propriamente "politici" diretti da grandi registi quali Marco Bellocchio, Pier Paolo Pasolini, Liliana Cavani, Elio Petri, Francesco Rosi e molti altri, questo ennesimo, ambizioso progetto non poteva e non può essere ricordato ancora oggi semplicemente solo in veste di film "felliniano". Tra l'altro, anche lo stesso Federico si era sempre rifiutato di considerare il film in modo strettamente autobiografico: "I miei film della memoria raccontano ricordi completamente inventati. E del resto che differenza fa?". E ancora: "Io mi offendo sempre un pochino quando sento dire di un mio film che è autobiografico: mi sembra una definizione riduttiva"20.
Sì, perché Amarcord è in primis un concentrato di psicoanalisi e denuncia. Opera che infonde la nostalgia di uno sguardo rivolto al passato con l'ambientazione storico-politica degli anni Trenta. Non di certo una novità, se pensiamo agli innumerevoli film che in questo periodo hanno avuto come soggetto il fascismo; inconfondibilmente unico, invece, se pensiamo alla rappresentazione, alla messa in scena di questa drammatica parentesi storica e politica. Quello che ne venne fuori fu un "ritratto della provincia italiana all'epoca di Mussolini, con episodi buffi, infantili, burattineschi, che coinvolgevano il potere, la famiglia, la società, in un quadro generale che rifletteva immaturità, credulità, ignoranza e comodi rifugi nel sogno"21.
Anche quando sembrava voler manifestare altri interessi, l'obiettivo primario del Maestro era sempre lo stesso: indagare sulle sorti di una popolazione (la sua), questa volta facendo un passo indietro, emigrando temporalmente sino alle origini del fascismo e della guerra. Come sottolinea lo studioso Peter Bondanella, mentre la lunga lista di registi sopra citati intendevano osservare la realtà politica da una prospettiva di tipo marxista, pensiero dominante di molti intellettuali italiani di allora (dipingendo cioè "il fenomeno fascista come il tentativo da parte dei ricchi proprietari terrieri e degli industriali capitalisti di porre un freno alla lotta di classe"22), il genio di Fellini stava nell'adottare il punto di vista della psicologia sociale di matrice junghiana, che inquadrava il fascista come l'insieme delle influenze negative personali avvenute nel corso dell'infanzia e dell'adolescenza, spesso di natura sessuale. Prova ne sia l'assenza della tensione, della paura, del sangue, della morte; non vi è nulla di tutto questo in Amarcord, seppur l'atmosfera che si respira sembra essere piuttosto inconsueta, quasi patologica. Non vi è nemmeno quel procedimento stereotipato nel dividere gli eroi buoni dai malvagi fascisti, proprio perché quello attuato da Fellini è un vero e proprio processo di colpa collettivo. Quel che più interessava era allora la maniera psicologica ed emotiva di essere fascisti, il che si traduceva in una sorta di blocco, di arresto alla fase dell'adolescenza, "questo restare, cioè, eternamente bambini, scaricare le responsabilità sugli altri, vivere con la confortante sensazione che c'è qualcuno che pensa per te, e una volta può essere la mamma, una volta il papà, una volta il sindaco, una volta il duce, una volta la Madonna, una volta il vescovo, insomma gli altri; e intanto tu hai questa limitata libertà giocherellona che ti consente soltanto di coltivare sogni ridicoli"23.
Fellini probabilmente desiderava sentirsi dire che il fascismo dominò l'Italia per più di venti anni esattamente perché fu in grado di sfruttare una debolezza archetipica degli italiani, ossia l'eterna adolescenza. Era proprio egli stesso a confermarlo in una delle tante interviste in cui cercava di difendersi dall'accezione di politico: "Riconosco che il mio può essere un atteggiamento nevrotico, di rifiuto a crescere, determinato, forse in parte, dall'essere stato educato durante il fascismo, e quindi diseducato a ogni partecipazione in prima persona alla politica che non fossero esteriori dimostrazioni e cortei; e di aver conservato, nel tempo, la convinzione che la politica è una cosa dei grandi, fatta da signori pensosi (...) Ecco, forse il limite nel quale sono costretto tutt'oggi è quello di non aver mai respirato, nell'età della formazione, il vero significato della democrazia"24.
Vivendo sotto questa specie di campana ciascuno sviluppava non virtù individuali ma solo anomalie patologiche, tic, manie, grossolanità (le burle ad opera dei compagni di scuola di Titta, la pedanteria di papà Aurelio, le morbosità sessuali del nonno...). Vi sono almeno tre sequenze in Amarcord che tendono a porre in rilievo come i falsi miti del fascismo avessero contaminato tutti gli strati della vita di provincia: il passaggio del Rex (il transatlantico voluto fortemente da Mussolini per rivaleggiare in quanto a potenze navali), invocato dai personaggi con trepidante attesa e ammirato tra pianti di commozione (simbolo di un'ignoranza e un'ingenuità dilagante) salvo poi scoprire improvvisamente che il mare è divenuto un artificioso telone di plastica; la nebbia che avvolge il nonno di Titta, allegoria ancora una volta di confusione e smarrimento; le patetiche urla di Teo, lo zio matto, alla ricerca disperata di una donna e salvato dal tempestivo intervento di una monaca nana, nitido esempio degli effetti devastanti prodotti da un'educazione sessualmente repressiva. In riferimento a quest'ultimo esempio, la sensazione che si viene a creare è paradossale e mette tutta la gente del paese dinanzi a due alternative: diventare matti come lo zio Teo (o comunque rimanere in quel limbo adolescenziale che imprigiona l'individuo e lo mantiene succube dei suoi sogni strambi), oppure indirizzare le proprie pulsioni sessuali su simboli politici abilmente manovrati dal regime.

Concludendo, se gli esordi dalla inconfondibile impronta neorealista aveva acceso da subito nel nostro il desiderio di indagare in un paese afflitto da incertezze e disillusioni post-belliche smascherandone la cruda realtà, se con la tappa fondamentale de La dolce vita aveva rivelato e ammonito allo spettatore le condizioni di una società appena risorta dalle ceneri e già in pericoloso stato di putrefazione, Amarcord descrive ancora oggi "la più complessa rappresentazione visiva di un tema politico da parte di Fellini"25 nonché un'opera dall'assoluto valore propedeutico in vista della metamorfosi attuata dal regista solo sei anni più tardi con l'attentato al cinema di Prova d'orchestra.

Curiosando in un mondo che ci sfugge: allucinazioni sull'universo femminile

Il Casanova di Federico FelliniNel 1976, (molto) liberamente ispirato dalle "Memorie di Giacomo Casanova" (1791-1798), Federico dirige uno dei suoi film più funerei di sempre: Il Casanova di Federico Fellini, primo di due progetti che il cineasta "dedica" al misterioso universo femminile, dopo l'excursus di Giulietta degli spiriti. La chiave del quattordicesimo lungometraggio del genio riminese è infatti da ricercare unicamente nel ruolo della donna, da sempre celebrata nella sua filmografia, che sia la clownesca Giulietta Masina, l'immagine sacra di Anita Ekberg, la seduttrice Sandra Milo, o i numerosi personaggi femminili che hanno caratterizzato la sua prima fase post-neorealista (Gelsomina e Cabiria su tutte), per poi giungere all'intermezzo onirico dove il gentil sesso di Giulietta è tentato dai piaceri proibiti indottrinati dall'amica Sandra, e alle figure quasi caricaturali della Saraghina, della Gradisca, della Volpina, della formosa e prorompente tabaccaia di Amarcord, universi femminili potenzialmente traboccanti di carica sessuale ma che al tempo stesso evocano un sottile velo di malinconica complessità e delicatezza, tale da provare per queste macchiette un'empatica sensazione di umana indulgenza.
E quale miglior occasione di approfondire il discorso sulla donna se non quello di riesumare il corpo del seduttore settecentesco Casanova? Interpretato dalla star americana Donald Sutherland, quello creato da Fellini è forse il personaggio più disperato e compassionevole, ancor più della trasognante Cabiria. Cialtrone nell'arte, ridicolo nella sua professione amatoriale, con un vissuto da sconfitto e perdente: sicuramente non è questa l'immagine che abbiamo del vero Casanova. L'onirismo anarchico di Fellini scardina, allora, anche la realtà storica, come già avvenuto con Satyricon: Federico sembra quasi fregarsene del personaggio realmente esistito e della Storia, riadattando una celeberrima figura dell'immaginario collettivo a propria immagine e somiglianza (come sottolinea il titolo, del resto). Pur essendo il protagonista indiscusso della pellicola, la funzione del Casanova nel film, in termini semiotici, è la stessa del canale che mette in comunicazione mittente (regista) e destinatario (lo spettatore) e il cui messaggio è inoppugnabilmente la donna. È qua che succede l'irreparabile, perché Federico descrive un universo femminile davvero mostruoso: gigantesse, gobbe, monache assatanate, vecchie rivoltanti. E quando la bellezza diventa un dono intrinseco della donna, ecco che questa è in realtà una traditrice (Herriette). Allorché al povero Giacomo, "incapace di riconoscere il valore delle cose e che esiste soltanto nelle immagini di sé riflesse nelle varie circostanze"26, non rimane che innamorarsi di una bambola priva di vita.
Ne Il Casanova di Federico Fellini, il sesso è l'epicentro dell'opera ma è scandito da una meccanicità e da una reiteratività quasi impressionante, ritmato splendidamente dalle note di Rota (l'uccello che porta sempre con sé), così come la scenografia di plastica e cartoni contribuisce non poco a raggelare il sangue dello spettatore con la sua atmosfera funebre. Girato interamente in spazi chiusi e ristretti, la pellicola vinse l'Oscar per i costumi di Danilo Donati ed è considerata uno dei migliori risultati del genio riminese per compattezza e forma. Ma l'ambigua descrizione della donna, con l'automa ritratto quasi a donna ideale, creerà i primi malcontenti nel movimento femminista italiano dell'epoca.

La città delle donneNiente di che, comunque, se si pensa a cosa successe all'indomani dell'uscita de La città delle donne, prolungamento naturale del progetto sulla donna che dovette subire un rinvio nella fase di pre-produzione per far posto a Prova d'orchestra e che venne distribuito un anno dopo, nel 1980. "Ma perché stai curiosando in un mondo che ti sfugge, che non ti appartiene?", chiede uno dei volti femminili al personaggio di Mastroianni, il vecchio Snaporaz riapparso improvvisamente da dove lo avevamo lasciato, in quel '63 di . "Sono sempre stato attratto dai sogni", ha dichiarato lo stesso cineasta, "ma di tutti i miei film solo La città delle donne è quasi interamente un sogno. Ogni cosa nel film ha un significato nascosto, proprio come in un sogno, tranne l'inizio e la fine, quando Snàporaz è sveglio nel vagone letto. E' il risvolto da incubo del sogno di Guido in "27.
In effetti La città delle donne si presentava gli occhi dello spettatore come un viaggio surreale, anello di congiunzione ideale del capolavoro felliniano del '63. Ma se allora il tema era quello della crisi esistenziale e di ispirazione, qua il contesto è di natura prettamente sessuale. C'è un tentativo di riflessione totale sulla donna, su "quell'oscuro oggetto del desiderio", per parafrasare un famoso film dell'amato Buñuel. Oggetto si, perché Fellini voleva far credere di sapere, utilizzando pensieri sornioni e goliardici, cosa fosse l'universo femminile: "La donna è stata per secoli quello che noi uomini volevamo che fosse. Ce la inventavamo noi. Facevamo le nostre proiezioni sulla donna, le davamo un ruolo, le assegnavamo una parte: angelo del focolare, oppure bella e perversa, oppure casta sorella, oppure amazzone volitiva, oppure puttana. Noi, sempre noi: e lei ci stava. Era contenta delle nostre proiezioni, le accettava... Ora che avviene nel mio film adesso? Che Marcello/Snàporaz, il protagonista, si accorge che a un certo punto le donne rifiutano le sue proiezioni, non sanno che farsene, gliele rilanciano dietro"28.
In realtà Fellini, nel suo discorso volutamente maschilista ed egoista, era il primo a rendersi conto che si stava intrufolando in un campo che non lo riguardava. E come era prevedibile, soprattutto dopo la miccia accesa dal Casanova, la polemica scoppiò subito. La città delle donne era un film femminista o anti-femminista? Inutile negarlo, dalle immagini fuoriescono messaggi chiari ed espliciti come il no definitivo al matrimonio-schiavitù (già accennato in e soprattutto in Giulietta degli spiriti), la donna come mistero e oggetto sessuale (la sconosciuta del treno) addirittura come mostro (il viaggio notturno in auto). Non bastò che Fellini proclamasse che molte femministe avevano collaborato con consigli, appunti e piccole memorie, e che il suo rapporto con alcune di esse era stato elegante e civile; che Natalia Ginzburg avesse trovato il film bellissimo senza interessarsi se era pro o contro le donne. No, una giovane insegnante asseriva che era "il film di un giovane sporcaccione e che le donne presentate erano appunto quelle immaginate da un vecchio sporcaccione"29. Chi seppellì letteralmente di critiche Fellini fu però la scrittrice Adele Cambria, in un articolo esposto nella prima pagina di un famoso quotidiano nazionale dal titolo "No, caro Federico, la donna non è il concime dei tuoi vizi"30.
Le immagini non mentono. In questo film, le cui atmosfere assumono le nefandezze proprie degli inferi danteschi, il sorriso di una donna diviene smorfia demoniaca, una voce un lamento di animalità. Ma a voler ossevare più a fondo, l'autore non esitava a riservare frecciate anche all'altro sesso. L'ironia beffarda appartiene anche al personaggio di Katzone (la pronuncia del nome è tutto un dire), maniaco tanto innocente quanto sadico, mammone deluso che nel suo santuario del sesso si circonda di donne provocanti (emblemi della donna-oggetto), con una spensieratezza da far rabbrividire. È altresì il giudizio verso questo tipo di uomo a dover essere cinico e spietato. Non si doveva parlare dunque di film maschilista o femminista, casomai di un film palesemente felliniano che cercava di studiare il fenomeno e il mistero della donna (e quello dell'uomo, di riflesso). La verità era che Fellini non ne voleva sapere di trascurare i temi sociali, non perdeva tempo a ritrarre con tempismo impeccabile le prime scosse di assestamento, quelle che poi nel futuro si sarebbero trasformate in violenti terremoti. Fu così con La dolce vita che anticipò il boom economico e il cambiamento sociale e mass-mediatico, fu così per Amarcord e, come vedremo, per Prova d'orchestra che profetizzavano il timore di una società non immune da colpe e debolezze, e così fu anche per La città delle donne, dove, nonostante il tentativo di ridurre (volutamente) l'universo femminile a una serie di prostitute seminude e condiscendenti, il regista anticipò il movimento femminista in Italia e gettò le basi per cominciare ad analizzare il tema del divorzio (ricordiamo l'abito da sposa in catene e gli inni "matrimonio-manicomio" in Giulietta degli spiriti). Nondimeno Fellini riuscì a descrivere in maniera rigorosamente critica l'abitudine dell'uomo di proiettare i propri desideri sulle donne. Emblematica, in tal caso, è la figura della soubrette Donatella, salvatrice/dannatrice della figura maschile, evoluzione diabolicamente impudica di Liliana in Luci del varietà.
Tra le critiche, positive o negative che fossero (quella francese lo trovò affollato di idee, non tutte pienamente realizzate), vi fu un'opinione comune e inequivocabile che consolidò il destino della pellicola. Ossia la conferma di un pessimismo sempre più radicale nell'ideologia felliniana di fine carriera, l'immagine sempre più impressa di una "chiaroveggente angoscia"31, con Fellini che riprendeva la "progressiva perdita delle illusioni sul ruolo dell'uomo nel mondo contemporaneo"32.

Senza ombra di dubbio, il 1979 presentò allo spettatore un nuovo artista, sempre meno assorto nella meraviglia del sogno e dei ricordi e, per contro, sempre più capace di elevarsi, ideologicamente e come moralità di significati, verso un orizzonte di tenebre. Il Fellini giunto alle soglie degli anni Ottanta rappresentava un punto di non ritorno nelle sue vesti di artista e di uomo; annunciava un modo nuovo di osservare il mondo, caratterizzato da un profondo allarmismo su certi aspetti che coinvolgevano l'uomo e la donna, all'interno di una continua quanto pericolosa evoluzione sociale e del costume. Evoluzione che proseguiva (e prosegue a oggi) velocissima, senza fermarsi. Lina Wertmüller, una delle paladine del sesso femminile in ambito cinematografico, celebrava con magnificenza l'ultima opera di Fellini e insieme onorava così le gesta di un grande maestro: "Attraverso le donne, le sue storie e se stesso, Federico ci ha regalato le tracce e i graffiti più significativi della nostra storia degli ultimi vent'anni. Dichiara di non occuparsi di politica, di non interessarsi a tematiche fisse o a tracciati ideologici, ed è in fondo il più politico e sociologico, penso, dei nostri autori"33.

L'attentato al cinema: smascheramento di un homo politicus

Prova d'orchestra"Ma ti sembra davvero che fino ad ora io mi sia soltanto divertito a raccontare favole o a scaricare sugli altri i miei complessi e le mie emozioni? La strada, Le notti di Cabiria erano solo storie patetiche di anime impaurite dalla vita o non potevano piuttosto essere immagini emblematiche dello sfruttamento della miseria? E i ruffiani che sguazzano dappertutto in quei film non erano anche espressioni di una società che continua a creare sbandati? Il bidone con tutte le sue tresche non diceva proprio nulla della mafia morale che caratterizza il costume pubblico e privato del nostro paese? E La dolce vita e Amarcord non denunciavano le spavalderie politiche, economiche e religiose di allora e di oggi, la sorte sgraziata di una società che paurosamente impoverita in se stessa era costretta a bruciare i suoi istinti solo al calore delle illusioni, mai per crescita spontanea e mai al di là del sogno e della paura?"34.
Con questo clamoroso sfogo, Fellini smascherò la sua occulta vena ermetica e il suo animo solo all'apparenza fiabesco, inoltrandosi a testa bassa verso il suo ultimo, oscuro, decennio.
La città delle donne, era stato bloccato in pre-produzione il 30 marzo, data in cui Fellini si esprimeva così nei quotidiani nazionali: "Non faccio più il film. Voleva essere un film femminista... Ci sono di mezzo gli avvocati... È meglio che non ne parliamo"35. La verità è che la questione femminista nascondeva una verità di natura ben più grande: il primo ciak di Prova d'orchestra fu girato solo due settimane dopo l'omicidio di Aldo Moro, scansando quello che doveva essere il film originariamente in lavorazione. Davvero bizzarro pensare che la sua trasformazione più allarmante e misteriosa, quella che il regista porterà con sé dentro la sua tomba, arrivò in concomitanza con una tragedia di matrice politica, lui che in più circostanze aveva avuto la premura di ribadire di non essere un homo politicus, che gli affari pubblici e le ragioni di Stato lo lasciavano completamente disinteressato. Fellini, per contro, cominciò proprio in quei giorni a girare un "filmetto" che in poco tempo si rivelò essere sulla bocca di tutti, politologi, sociologi e osservatori del costume. Un'opera che lascerà una traccia profonda nella cultura e nella società italiana di oggi e che rappresenta per il regista un punto di non ritorno, uno smascheramento chiaro e ineccepibile, finalmente una presa di posizione nei riguardi del mondo sociopolitico contemporaneo.

Prova d'orchestra, che parafrasando il regista poteva essere sintetizzato come "una cosina economica per la tv" da realizzare per l'allora democristiana Rai Uno, fu girato in sole quattro settimane, con un budget ridotto all'osso. A rafforzare ulteriormente l'impressione di un film costruito con una semplicità disarmante contribuisce la scenografia (l'unica) progettata da Dante Ferretti e realizzata in un angolo di Cinecittà, oltre alla scelta di non utilizzare né attori professionisti né casting alcuno. Insomma, sembra si tratti proprio di un "filmetto". Vai a vedere che a distanza di pochissimi anni quello stesso filmetto contribuirà a porre le basi sull'improvvisa e radicale metamorfosi che interesserà le abitudini, i costumi, le mode di una nuova società, un humus su cui troverà linfa la formazione sociale e collettiva che dagli anni Ottanta è giunta sino ai giorni nostri.
Nei piani originari il film doveva essere dedicato all'orchestra allo stesso modo in cui I clowns era dedicato al circo, ma gli avvenimenti politici di quei giorni presero il sopravvento in questo pseudo-documentario travestito da film. Fellini riusciva comunque a "sollevare un'importante serie di questioni filosofiche relative alla relazione tra individuo e la società in cui questi vive e lavora"36. Una relazione che sin dagli esordi era stata oggetto indiscusso delle attenzioni del regista, ma che mai come in questo film riusciva a raggiungere l'acme in quanto a semplicità del messaggio che ne scaturiva.
Il film fu visto in anteprima nella sala di proiezione della presidenza della Repubblica del Quirinale, giovedì 19 ottobre 1978. Si trattò di una data storica visto che per la prima volta le più alte cariche dello Stato si riunivano per visionare insieme un film; Pertini raccontò ai cronisti che fu sua l'iniziativa di ospitare l'anteprima del film al Quirinale e che il maestro riminese si era solamente avveduto dall'accettare questa prestigiosa convocazione. Paradossalmente, Fellini ebbe altresì modo di individuare nel mestiere di politico una rara tristezza, quasi una sorta di miserabile pietà: "Ormai gli uomini politici sono come delle maschere, sono come delle proiezioni di noi stessi. Siamo tutti sulla stessa barca [...] È incredibile la giornata di un uomo politico, sotto la psicosi del terrore. Un cosmonauta proiettato nello spazio è molto più padrone di sé e meno isolato di quanto non lo sia un uomo politico"37. E ancora: "Gli uomini politici oggi sono in condizioni disastrose. Sono sottoposti a uno stress psichico sconosciuto agli analisti e per il quale non esiste una terapia. È un attacco nevrotico nuovo, che li minaccia nella loro integrità, nella loro vita privata. Regrediscono a uno stadio infantile e le guardie del corpo che li proteggono si trasformano in balie. Come si può sperare che uomini ridotti in queste condizioni controllino la minaccia che ci viene dai conflitti sociali, dalla violenza, dal terrorismo? Come si può sperare che risolvano i problemi che ci assillano?"38. Secondo i pareri espressi dei politici in sala, la pellicola era il risultato di una denuncia bella e buona: mettiamo che i musicisti siano i contestatori del '68, che il direttore sia il governo o il capo del governo che cerca di far funzionare il Paese. I sindacati sono già rappresentati manifestamente. Ora il caos sollevato dai musicisti/contestatori rivendica parzialmente i diritti di un uomo semilibero, e riesce più che altro a scatenare l'incubo delle bombe (la palla demolitrice) e a minare il repentaglio della sicurezza dei cittadini innocenti (l'arpista ferita). Senza aver ottenuto alcun miglioramento effettivo, l'unico risultato, alla fine, è il ritorno dell'autorità, più forte di prima.
Come sosteneva Giulio Andreotti, proprio gli eccessi rivoluzionari sono all'origine delle svolte autoritarie e delle dittature. Essenzialmente furono queste le prime sensazioni che suscitò Prova d'orchestra all'indomani della prestigiosa anteprima. Il regista, dal canto suo, spingeva piuttosto sul significato etico e morale della pellicola: "Tutti i fatti orrendi che viviamo non sono mica politica, sono confusioni, disastri, squarci più profondi. Io non so cosa si può fare per cambiare la società, il mio discorso riguarda sempre l'individuo"39. Ciò che è immediatamente riconoscibile è allora la rappresentazione della confusione, dello sbigottimento, della non risposta sociologica; se l'orchestra nel film rappresenta davvero l'Italia, chi ci vive dentro vede intorno a sé tanta paura e sente dentro di sé tanta angoscia da sentirsi spinto a gridare al bisogno di un recupero di equilibrio per evitare uno scisma che il film non annuncia e non denuncia, ma teme. Prova d'orchestra è in definitiva un apologo sull'uso che l'uomo può fare della libertà. Una riflessione incondizionata che mira all'indipendenza e all'emancipazione della persona e che può benissimo fare a meno di contaminazioni sociopolitiche. D'altro canto "è nei momenti di crisi più profonda che gli uomini avvertono sino in fondo il rischio disperato e supremo del loro essere liberi"40.

L'Italia affonda... E la nave va: genesi del riflusso tra simbolismo e televisione

Mai nessun altro come Fellini fu in grado di prevedere con così netta limpidezza la situazione sociale e culturale dei primi anni Ottanta. Il riflusso in Fellini era quanto mai delineato da quell'orchestra impazzita e da quel crollo generale, allegoria di una speranza ormai svanita nel nulla; da quelle immagini materialiste e tenebrose della donna e dell'uomo contemporanei, prove tangibili di un sogno divenuto incubo. La metamorfosi nel regista era compiuta definitivamente e nel modo peggiore. Certo, il suo cinema perseguirà ancora una ricerca poetica coerente e personale, nella perfetta elaborazione del proprio stile, ma (esclusa la commovente preghiera evocata in La voce della luna) l'ultimo, triste decennio del maestro riminese collimerà con i fantasmi di E la nave va e con lo sfogo patetico di Ginger e Fred. La lungimiranza di Fellini e delle sue pellicole di fine 70/inizio 80 è proprio quella di aver filmato una triste realtà che abbraccia ancora oggi le sorti di questo paese.
Così, a quattro anni dall'apologo di Prova d'orchestra, Fellini aveva ancora molto da dire sulla nostra società. Il 10 settembre 1983 presentò a Venezia l'ennesimo progetto dal forte impatto civile, un film tetro, artificioso, ideale proseguo degli sviluppi del '79 (soprattutto a livello manifesto).

E la nave vaTutto in E la nave va è dichiaratamente falso, dalle visioni oniriche, alla meta del viaggio, dal mare di plastica e le navi di cartone al finale in cui assistiamo ai lavori all'interno degli studi di Cinecittà. È tutto falso, come lo è il cinema, del resto. A volte però la finzione può trasformarsi in una verità ancora più acuta della realtà quotidiana e apparente. Prova d'orchestra ne costituiva la prova più tangibile. Non è necessario che le cose che si mostrino siano autentiche, come sosteneva lo stesso regista, ciò che deve essere autentica è l'emozione che si prova nel vedere e nell'esprimere quell'immagine.
Su questa premessa essenzialmente felliniana il film srotola un messaggio di grande profondità, che emoziona in modo autentico; il presentimento (l'ennesimo) è quello di una catastrofe inevitabile, di un naufragio collettivo: sulla nave di Fellini affonda, infatti, tutta l'Italia.
La prima cosa che colpisce è senza dubbio l'ambientazione: la fantasia dell'autore, infatti, non accede più ai sogni sdolcinati degli anni Sessanta pur conservandone il fascino dell'onirismo, bensì trova espressione di nuovo nella Storia, in quel fatale luglio del 1914 dal clima di spensieratezza irresponsabile (la stessa del post-‘79) che causerà lo scoppio della Grande Guerra. E in ogni sogno (seppur tenebroso) che si rispetti se ne tacciono i sottofondi politici, economici, sociali "che tuttavia ci sono e vengono via via fatti sentire"41: e allora chissà se quel rinoceronte rappresenti il nuovo mostro degli anni Ottanta dopo quello mostrato ne La dolce vita? E il rito funebre che si compie sulla nave non sarà mica quello di un'Italia dilaniata dall'immoralità appena entrata in piena era del riflusso? I profughi serbi non ritraggono forse l'inettitudine di un popolo sovrastato da un potere che si diletta in canti e urla?
Di E la nave va colpisce la perfetta simbiosi che si viene a creare con l'orchestra felliniana del '79; entrambe, difatti, si istituiscono come profonde metafore della società contemporanea, a cavallo tra l'estetismo dell'arte e la denuncia del potere. Il pessimismo, va detto, si espande qua come una macchia d'olio inarrestabile che colpisce un po' tutti. Bei tempi quelli in cui il sorriso di una ragazzina ne La dolce vita o la visione di un bel pavone tra la neve in Amarcord trasmettevano allo spettatore un finale meno amaro, un grido di speranza e fiducia. La nave che il maestro riminese fa affondare è costituita da direttori d'orchestra e orchestrali (guarda caso), cantanti, ricchi benestanti e giornalisti (cfr. l'evoluzione della figura del giornalista-intervistatore in Toby Dammit, passando per Prova d'orchestra, sino a Ginger e Fred. In questo caso la pochezza dei media è raggiunta da Orlando, interprete che in fondo non spiega niente, non capisce nulla o addirittura distorce la reale natura dei fatti ubriacandosi). L'attacco allo "stile borghese" del film coincide invece con il menefreghismo e l'irresponsabilità del riflusso, attacco che Fellini incornicia alla perfezione nella bellissima scena dove "i cantanti si esibiscono affacciati alla sala delle macchine. E allora, invece dello scontro di classe, vediamo tutti quegli uomini che penano davanti alle caldaie, applaudire entusiasti come se fossero all'opera"41.
Se la società europea della Belle Èpoque si era privata di ogni contenuto che non fosse quello di un artificioso ed esausto formalismo, Fellini mostrava allo spettatore quello che all'indomani sarebbe potuto succedere alla società europea contemporanea, incosciente e gonfia di benessere, anche se molto meno elegante di quella del 1914. L'insegnamento di Amarcord era stato piuttosto chiaro: è difficile parlare del passato senza alludere al presente. Soprattutto in un film del genere "con tanti cassetti segreti, pieno di doppi fondi e di sorprese, immediatamente moltiplicabile in un'estrema varietà di suggestioni e significati"42. Già, perché un altro carattere fondamentale della trasformazione di Fellini risiede nell'arte dell'ermeneutica e della semiologia: come descrivere altrimenti la figura del giornalista Orlando, perduto in mare, solo in una barca con un rinoceronte, che rema e dichiara compiaciuto: "Lo sapevate che il rinoceronte dà un ottimo latte?". Perché il latte? Forse un richiamo, a distanza di vent'anni, alla maestosa figura femminile di Anita Ekberg che infestava i sogni del protagonista ne Le tentazioni del dottor Antonio. O forse, semplicemente, rappresentava una geniale porta d'ingresso per entrare nel mondo della televisione e della pubblicità, al grido di: "Bevete più latte, il latte fa bene, il latte conviene a tutte le età!".

Ginger e FredE infatti tv e pubblicità ebbero un impatto devastante nell'ultimo periodo di carriera di Fellini. Ancora una volta, le rivelazioni delle sue ultime opere avevano contribuito a far partorire l'ennesimo effetto contestatorio nei confronti di una società sempre più sconsiderata, votata al consumismo e al rifugio nella presunta educazione televisiva, che prontamente si adeguava all'ondata di menefreghismo generale. "L'attento telespettatore Fellini, raramente vedeva un intero programma: ad un tratto, obbediente ad un tacito richiamo, si ritirava in camera con un buon libro. Quando qualcuno chiedeva ingenuamente a Federico se aveva visto la tal trasmissione televisiva, la risposta era sempre simile a questa: non mi sembra, non so, non ricordo. E invece, oltre a ricordare benissimo, aveva pur fatto tante considerazioni al riguardo e forse era giunto a delle conclusioni"43.
Non si trattava di semplice odio o indifferenza, quanto di una strana relazione fatta di respinte e attrazioni;  in qualche occasione si faceva strada in lui l'ipotesi che questa fosse semplicemente un mezzo d'informazione e d'intrattenimento (come dimostrava il suo rapporto passato con la tv e con il suo ingresso nel mondo della pubblicità nel 1984 per Campari), il più delle volte, invece, pensava che il quadro della vita quotidiana fosse dominato da un nuovo potere ineliminabile, quella televisione che rappresentava l'involgarimento attuale della società italiana. Da questa seconda prospettiva nasceva Ginger e Fred, ultimo, inascoltato appello di Fellini al popolo italiano. Il caos degli orchestrali non c'era più, ma a destare scalpore questa volta era la maleducazione, l'incompetenza e la mancanza di rispetto che Fellini ritraeva tra le immagini del suo ultimo film.
La gestazione del nuovo lavoro risale agli albori del cinema felliniano, con Luci del varietà che apriva le danze al mondo della televisione (nonostante questa cominciò a entrare stabilmente nelle case degli italiani solo due o tre anni dopo il film), con i primi spettacoli e le prime soubrette che in poco tempo avrebbero affollato il varietà televisivo.
"Questo occhio grigiastro spalancato sulla casa, l'occhio di un animale extraterrestre, mi ha sempre affascinato. Un giorno ho voluto provare e allora ho realizzato Block-notes per la tv americana e I clowns per la Rai. Vidi la possibilità di un'esperienza nuova, ma giudico questa esperienza televisiva un errore, deludente e singolarmente mediocre: da una parte la televisione ti preclude di fare del cinema o perlomeno ne riduce notevolmente le possibilità sia espressive sia produttive di organizzazione; dall'altra ti si offre come un mezzo dai connotati e dalle finalità indistinti, esitanti, imprecisi, per cui l'esperimento non ha neanche la seduzione e l'interesse della novità, di una qualsiasi ricerca (...) Aveva ragione Rossellini quando diceva che la tv ha una funzione didascalica. Ma per chi come me crede nell'espressione e non nell'informazione, la televisione pare che abbia limiti troppo imprigionati"44.
La televisione è il linguaggio della contemporaneità, dell'eterogeneità. E della volgarità. Sì, perché nella metaforica e preveggente pellicola felliniana del '79, è altresì la cialtroneria della troupe televisiva a contraddistinguersi per la mancanza di rispetto del suo occhio indiscreto. "Una volgarità che Fellini sente sulla pelle e che, certo presente anche allora, emerge e si consolida piuttosto negli anni successivi, caratterizzati dall'avvento di Craxi e Berlusconi, e da un generale ingaglioffirsi della vita nazionale politica e culturale"45. Ecco, dunque, come nasceva Ginger e Fred, in radici ben profonde e ideologie ben salde nella testa dell'autore. Non doveva essere solamente la piccola storia di due ballerini di tip tap (e del loro amore passato) che si ritrovavano dopo un quarto di secolo in un programma televisivo. Ma doveva mostrare al pubblico la degenerazione incessante del mezzo televisivo, che dopo l'arrivo del "Cavalier Fulvio Lombardoni", si avvantaggiava dell'ignoranza e dell'infantilismo di una notevole percentuale di pubblico. L'universo televisivo di Fellini ritraeva così un ambiente soggetto a confusione e a deformazione culturale (lo stesso effetto che nel film compare sulle tv inquadrate dalla sua mdp, uno strano effetto che, di fatto, altera l'immagine proiettata), mostrava le follie e le superficialità dell'intrattenimento commerciale e televisivo (ingigantito negli anni Ottanta, ma che soprattutto oggi rappresenta una delle maggiori cause di alienazione umana), in generale un mondo di matti (il dietro le quinte, chi lavora per la tv), di "pecoroni" e teledipendenti. Universo che lo stesso Fellini confermava anche a pochi giorni dall'uscita del film, nel dicembre del 1985: "Il gusto del pubblico verso il cinema è cambiato a causa della televisione che ha creato uno spettatore impaziente, febbrile, diseducato, cioè tutto il contrario dello spettatore riflessivo che vuole assaporare, assimilare, capire, ripensare"46.
Il mutamento nel mutamento che contraddistinse Ginger e Fred dalle pellicole del post-'79 fu quello sfogo definitivo, quella rabbia mai pronunciata così prepotentemente con cui il genio riminese si abbatté contro una cultura italiana che non vedeva più sua e che osservava in modo nettamente distaccato, appunto, come una nave in lontananza.

La voce dell'incomunicabilità: commiato e ritratto di un poeta

Ginger e Fred testimoniava quindi un cambiamento radicale della televisione italiana che si verificò negli anni Ottanta, l'ultimo sfogo di un uomo scosso indelebilmente dal riflusso culturale, annichilito da una società senza più anima né poesia, capace di contaminare anche la luna, trasformata da oggetto magico e fantastico in un gigantesco spot televisivo.
La nebbia che avvolge le strade riminesi in Amarcord, il blackout che si abbatte nell'antico auditorium di Prova d'orchestra, il tunnel buio che imbocca il treno ne La città delle donne, l'altro blackout che colpisce lo studio televisivo in Ginger e Fred. In quarant'anni di cinema e in particolar modo nell'ultimo ventennio, Federico Fellini ha sempre avuto la necessità di infondere nello spettatore una pausa di riflessione, affinché questo potesse consapevolizzarsi a rimuovere dai propri occhi quella patina che quotidianamente gli ottenebra la vista. Affinché potesse difenderlo dagli effetti dannosi che le cattive ideologie e i falsi miti producevano e producono ancora oggi sull'individuo.
Era parte irremovibile del credo felliniano, infatti, l'idea che il ruolo dell'artista nella società dovesse essere quello di smascherare pensieri collettivi immorali, impegno che, come abbiamo visto, è stato profuso nella quasi totalità delle pellicole del regista, dalle prime tappe neorealiste agli anni d'oro dall'impronta onirica e autobiografica, dai progetti nati per la televisione sino all'ultima esperienza con la pubblicità.

La voce della lunaNel 1989 Federico dirige il suo ultimo lungometraggio, un lavoro di luci e ombre che si ricollega all'incomunicabilità, al disordine e alla volgare insensibilità degli anni Ottanta. La voce della luna trae spunto da un componimento letterario di Ermanno Cavazzoni ed è un elogio alla pazzia, all'irrazionale, uniche vie di salvezza da un mondo artificioso, la cui verità è ormai corrosa dagli strascichi del tempo ("è finto, tutto finto, non è vero niente!", dichiara l'ex prefetto Gonnella). E poi il ricordo. Ancora il ricordo. Per sempre il ricordo. Le parole del sognatore Salvini sembrano pronunciate di getto dallo stesso regista: "Come mi piace ricordare! Più che vivere... Del resto, che differenza fa?". Intorno a questa atmosfera dove il sogno si mescola alle reminiscenze passate e dove pazzia e diversità rimangono gli ultimi valori di un genere umano prossimo all'emancipata autodistruzione (la nave è ormai ben lontana e non si scorge più all'orizzonte), due uomini cercano riparo dall'insensatezza del loro presente. La festa della gnoccata unisce tutto il cattivo gusto e la volgarizzazione di un popolo piacevolmente insensito, così come la discoteca sovrasta col suo impatto sonoro un mesto valzer e lo sparo di una pistola fredda niente meno che la luna. La televisione assiste a tutto ciò e non si esime da mandare in onda, di tanto in tanto, uno spot pubblicitario. "Sembra un racconto confuso ma è proprio per descrivere la confusione. Un racconto senza racconto, ha detto Fellini"47.

Considerando le dinamiche e gli sviluppi più recenti della nostra società, una figura come quella di Fellini manca eccome all'immaginario collettivo italiano ed è doloroso constatare come ancora oggi, tra le tante cose ancora da capire, il sentimento sia quello di un buio in cui stiamo lentamente sprofondando. Rincresce constatare come non siano (tuttora) state udite con dovuta attenzione le sue ultime parole, quel testamento che di sicuro non alludeva a sintomatiche visioni di luce e felicità ma nel quale, perlomeno, si rifiutava di dissipare gli ultimi aneliti di speranza: "Eppure io credo che se ci fosse un po' più di silenzio, se tutti facessimo un po' di silenzio, forse qualcosa potremmo capire"48.

Nel 1992, Fellini dirige la sua terza pubblicità per la Banca di Roma, un concept spot suddiviso in tre parti e improntato (neanche a dirlo) sul sogno. Sarà la sua ultima esperienza con la cinepresa prima che il tragico destino lo consegni alla Storia il 31 ottobre 1993. Non prima però di ricevere l'Oscar alla carriera, primo regista italiano a raggiungere la massima onoreficienza, seguito due anni dopo da Michelangelo Antonioni. Oscar che Fellini dedicherà alla moglie Giulietta Masina, sua compagna di viaggio per più di mezzo secolo.
I ritratti che meglio rappresentano la figura di Federico Fellini, oltre naturalmente alle sue numerose creature prodotte su celluloide, sono costituiti da due semi-documentari che lo stesso regista ha girato nell'arco di un ventennio. In Block Notes di un regista, girato nel '69 per un'emittente americana e nato grazie alla collaborazione di Bernardino Zapponi, si ripercorrono i vecchi progetti caduti nel dimenticatoio (compreso il famoso "Viaggio di G. Mastorna", detto Fernet, storia di un clown che incappa in un incidente aereo) e quelli all'epoca in produzione (nella pellicola sono presenti alcune fasi della lavorazione di Satyricon). In un disordine volutamente preparato, trovano spazio gli strambi personaggi felliniani di una vita e un autoritratto apparentemente distratto e vacuo del cineasta riminese alle prese con la preparazione dei suoi progetti e di irriverenti casting. Quasi vent'anni dopo, nel 1987, Intervista è l'ennesima improvvisazione destinata alla tv sulla vita professionale del regista, un "diario di lavorazione" che spazia dal set, al trucco, alle scenografie, interamente girato negli studi di Cinecittà. E il finale con "gli indiani armati di antenne che sembrano scatenare la decisiva carica per abbattere l'ultima roccaforte del cinema"49, sembra voler rivelare che il mondo della settima arte non è più come quello di una volta.
Si scorge tra i fotogrammi un sentimento, quello del tempo che cambia (in peggio) e un presentimento, quello di un futuro avvolto da molte ombre. Sergio Zavoli, un anno dopo la sua morte, realizzerà "In morte di Federico Fellini", documentario prodotto dall'Istituto Luce sull'allestimento della camera ardente nello storico studio 5 di Cinecittà, mentre nel 2001 il regista canadese Damian Pettigrew realizza "Fellini: sono un gran bugiardo", dove si alternano interviste e testimonianze inedite e making of dei suoi lavori.

Nell'universo dei personaggi da lui partoriti e che comprendono le figure di Gelsomina, Cabiria, Marcello, Guido, Casanova, il giovane Titta e molti altri, il più affascinante rimane proprio quello di Fellini. Si, perché Federico è egli stesso un personaggio del suo cinema, un omone buffo e sensibile, dotato di una lungimiranza eccezionale, capace di vedere davvero "oltre". Il suo stile e la sua poesia lo hanno reso il cineasta più influente e più grande della storia della cinematografia del nostro paese, l'uomo che più di ogni altro ha saputo regalare all'arte cinematografica sogni, paure e ricordi della società italiana del ventesimo secolo. Un genio inarrivabile, dall'ispirazione poetica e trasognante, che ancora oggi fatica a essere pienamente compreso proprio a causa del suo intelligente e affascinante ermetismo, dove realtà e verità si sgretolano per far posto a sensazioni uniche, immaginifiche, a emozioni indescrivibili, le cui parole non possono nulla.
"Come mai ad un film, e quindi al suo autore, si attribuisce il dovere carismatico di risolvere questioni che non hanno niente a che fare con il suo lavoro? Perché da un film si pretendono risposte chiare, nette, definitive sulla vita, sul mondo, sui grandi problemi? Un film invece, se è un prodotto artistico, non ha intenzione di indicare le strade nelle quali il mondo dovrebbe muoversi"50.

Fellini aveva ragione, perché mai si chiede tanto al cinema mentre non lo si chiede a un quadro, a un libro o alla musica?

 

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Note

 

¹ E. Flaiano ne Il Mondo n. 18 del 5 maggio 1951
² S. Trasatti, Ingmar Bergman, Il Castoro, Milano, 2005, pp. 5-6
³ M. Verdone, Federico Fellini, Il Castoro, Milano, 1994, p. 36
4 F. Fellini in Epoca del 11 febbraio 1952
5 M. Verdone, Federico Fellini, Il Castoro, Milano, 1994, p. 6
6 F. Fellini in Federico Fellini di Fabrizio Borin e Carla Mele, Gremese Editore, 1999, p. 45
7 P. Mereghetti ne Il Mereghetti, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2007
8 M. Verdone, Federico Fellini, Il Castoro, Milano, 1994, p. 49
9 P. Bondanella, Il cinema di Federico Fellini, Guaraldi, Rimini, 1994, p. 282
10 Ibidem, p. 282
11 Si parlò anche di "offesa alla sacralità di Roma". Il direttore dell'organo vaticano, conte Giuseppe Della Torre, dichiarerà che si guarderà bene dal vedere quella "porcheria", i vescovi veneti proclameranno invece che non assolveranno in confessione i fedeli che oseranno vederlo, le associazioni cattoliche chiederanno che il film venga sequestrato e il negativo dato alle fiamme.
12 Ricordando la serata di gala al cinema Capitol di Milano, il 5 febbraio del 1960, Federico Fellini ha raccontato al giornalista Costanzo Costantini di come quella sera rischiò il linciaggio insieme a Marcello Mastroianni: "Se io mi presi uno sputo in faccia, lui si prese insulti come vagabondo, vigliacco, debosciato, comunista".
13 M. Argentieri in Rinascita del 9 marzo 1979
14 Cfr. la poesia di George Brassens, "Les passantes"
15 M. Verdone, Federico Fellini, Il Castoro, Milano, 1994, p. 69
16 Ibidem, p. 73
17 Il "Trittico del Giardino delle delizie" sembra proprio essere il soggetto da cui trae ispirazione il Satyricon felliniano
18 M. Verdone, Federico Fellini, Il Castoro, Milano, 1994, p. 82
19 Ibidem, p. 88
20 F. Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 2006, p. 41
21 M. Verdone, Federico Fellini, Il Castoro, Milano, 1994, p. 90
22 P. Bondanella, Il cinema di Federico Fellini, cit. p. 283
23 G. Angelucci e L. Betti, Il film "Amarcord" di Federico Fellini, Cappelli, Bologna, 1974, p. 101
24 F. Fellini in Intervista sul cinema, a cura di G. Grazzini, cit. p. 15
25 G. Angelucci e L. Betti, Il film "Amarcord" di Federico Fellini, Cappelli, Bologna, 1974, p. 104
26 F. Fellini in Set in Venice, a cura di L. Damiani, Electa, Milano, 2009, p. 211
27 C. Chandler, Io, Federico Fellini, Mondadori, Milano, 1995, p. 226
28 F. Fellini in Federico Fellini, di M. Verdone, cit. pp. 99-100
29 Ibidem, p. 99
30 Adele Cambria ne Il Corriere della Sera del 30 marzo 1980
31 Appunti di Brunello Rondi scritti nel 1980 dal titolo Come nasce La città delle donne. In sala di proiezione con Fellini
32 T. Kezich, Il nuovissimo Millefilm - Cinque anni al cinema 1977-1982, Mondadori, Milano, 1983
33 L. Wertmüller in L'avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, di F. Faldini e G. Fofi, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 275
34 F. Fellini ne Il Tempo del 5 novembre 1978, intervistato da G.L. Rondi
35 F. Fellini, Fellini: la tv è un animale extraterrestre, ne Il Resto del Carlino del 30 marzo 1978
36 Peter Bondanella, Il cinema di Federico Fellini, cit. 1994, p. 301
37 F. Fellini in Fellini. Raccontando di me, di C. Costantini, Editori Riuniti, Roma, 1996, pp. 144-145
38 Ibidem, pp. 146-147
39 F. Fellini ne Il Corriere della Sera del 20 ottobre 1978, articolo di M. Porro
40 G. Pampaloni, Nel cuore di Babele il rischio della libertà, ne Il Tempo del 3 dicembre 1978
41 A. Moravia, Cantami o diva l'Europa che affonda, ne L'Espresso del 30 ottobre 1983
42 T. Kezich ne La Repubblica del 7 ottobre 1983
43 E. De Castro, Fellini in cento pagine, cit. pp. 123-124
44 F. Fellini, Fellini: La Tv è un animale extraterrestre, ne Il Resto del Carlino del 30 marzo 1978
45 G. De Vincenti in Dancing days. 1978-1979, i due anni che hanno cambiato l'Italia, di P. Morando, cit. p. 290
46 F. Fellini in Ci ammazza a colpi di spot, ne Il Resto del Carlino del 11 dicembre 1985, articolo di F. Rinaudo
47 M. Verdone, Federico Fellini, Il Castoro, Milano, p. 112
48 F. Fellini, La voce della luna, cit. p. 136
49 M. Verdone, Federico Fellini, Il Castoro, Milano, p. 110
50 F. Fellini ne Il Tempo del 5 novembre 1978, intervistato da G. L. Rondi


Un ringraziamento particolare alla Fondazione Fellini di Rimini senza la quale questa monografia non sarebbe mai stata realizzata





Federico Fellini