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Intervista a Matteo Fresi, per parlare di cinema e del proprio film d'esordio: "Il muto di Gallura". Una chiacchierata che ci permette di fare il punto sul cinema e sull'esperienza registica dell'autore

Matteo Fresi è un regista torinese originario della Sardegna. Il suo primo lungometraggio, "Il muto di Gallura", è stato l'unico film italiano in concorso al TFF39. La pellicola è l'esito della trasposizione dell'omonimo romanzo, scritto da Antonio Costa nel 1884. 

Quali aspetti sono stati importanti per la tua formazione e il tuo stile di regia?

Non saprei dire quali sono stati i film o gli autori più importanti per la mia formazione, anche perché sono convinto che tutte le storie che leggiamo e vediamo si sedimentino in noi e contribuiscano poi a formare il gusto, senza che gli esiti artistici migliori siano per forza più importanti di tutto il resto. Penso che sia il blob di tutto ciò che abbiamo visto e sentito che in qualche modo lavora dentro di noi e diventa qualcosa di diverso e, almeno spero, degno di essere raccontato. Nel mio piccolo, ritengo inoltre che non sia tanto importante ricercare uno stile, ma cercare di stare dietro alla storia. Se riusciamo a stare dietro alla storia e a sentirla nostra, lo stile ne scaturirà spontaneamente.

Ci puoi dire come è maturata la scelta del soggetto de "Il muto di Gallura"?

Essendo gallurese, conosco la storia del muto di Gallura fin da bambino; l’ho sentita raccontare tantissime volte e ne sono sempre stato affascinato. Quando poi da adulto ho riletto il libro e ho scoperto che l’intreccio narrativo poteva essere accattivante e trasponibile sullo schermo, visto che c’erano tutti gli ingredienti narrativi per girare un film, grazie all’interesse di Fandango, nella persona di Domenico Procacci, mi sono messo di buona volontà a tradurre il libro in un soggetto. Soggetto in realtà piuttosto esteso. Da lì poi, grazie a chi ha creduto nel progetto, siamo giunti al traguardo.

Parlaci del passaggio dal romanzo omonimo di Antonio Costa al trattamento e alla sceneggiatura. A quali criteri ti sei attenuto?

Non ho stabilito dei criteri precisi a cui attenermi, perché sono andato dietro alla storia in maniera un po’ istintiva, intuendo che c’erano episodi del romanzo che sarebbero stati intraducibili e sarebbe stato difficile riassumere tutte quelle pagine nell’arco della durata del film. Perciò abbiamo poi fatto delle scelte, soprattutto nell’intreccio, per cercare di amalgamare quelle che potevano sembrare quasi due storie diverse: la faida e la storia d’amore con Gavina. Lo sforzo maggiore è stato proprio quello di fonderle armonicamente. In più abbiamo anche cercato di tenere un piede nella storia vera e l’altro nel romanzo e, idealmente, un terzo nella leggenda, cioè nella dimensione e fruizione orale che è diventata importante per la popolazione della Gallura. L’idea è stata un po’ quella di tenere insieme queste tre anime del film: quella storica, quella del romanzo e quella della leggenda popolare.

Se nel cinema il rapporto tra personaggi e ambiente è importante, in molti film sulla Sardegna lo diventa a maggior ragione: come ti sei regolato su questo punto?

Più che esserci un rapporto privilegiato tra personaggi e ambiente, ritengo che sia il paesaggio a privilegiare le storie. Ecco perché, dal nostro punto di vista, lo abbiamo trattato come un personaggio. Ciò perché la storia assume i tratti, le caratteristiche del paesaggio in cui è ambientata. Per noi, quindi, l’ambiente circostante non doveva limitarsi ad essere un osservatore esterno, quindi con caratteristiche in qualche modo già antropomorfe, in quanto il punto di vista è proprio di un esistente animato, ma doveva contribuire allo svolgimento delle vicende. Così, proprio l'ambiente aiuta il protagonista a nascondersi, o segna in maniera evidente il confine con l’altrove, o anche con la speranza.

Parlaci del casting del film: è stato lungo? Cosa cercavi soprattutto?

Per la ricerca degli attori sono partito con una base già molto solida, perché avevo visto uno spettacolo teatrale, intitolato "Machbettu" (e che non smetterò mai di ringraziare), e sapevo che molti degli attori di quello spettacolo li avrei voluti nel mio film. Poi abbiamo fatto dei provini, grazie alla casting director Orghelina De Petris, prima a Cagliari, poi a Nuoro e Tempio, cercando contemporaneamente attori capaci e che sapessero anche mettersi in bocca il gallurese, cosa che non così semplice per tutti i sardi. Il criterio è stato quello di cercare una squadra di attori che potessero amalgamarsi, tra i quali non ci fossero ruoli principali o secondari e altri meno importanti rispetto allo spirito di collaborazione e di squadra nel raccontare tutti insieme una storia.

Per la caratterizzazione del muto, il protagonista, su cosa hai puntato?

Per costruire il personaggio di Bastiano Tansu, il muto, insieme ad Andrea Arcangeli ci siamo orientati sulla sottrazione, sulla qualità dello sguardo, alla ricerca dell’espressione di quest’anima ferita. Dal mio punto di vista, il muto doveva assomigliare a una fiera, a un animale selvatico, che di fatto non è né buono né malvagio, ma agisce secondo regole di natura. E questo è stato un po’ il motore di quel personaggio.

Nel tuo film si nota una coincidenza dal punto di vista scenografico con la robusta tradizione pittorica sarda di autori come Antonio Ballero o Carmelo Floris, e in un caso dal punto di vista tematico, nella sequenza del fidanzamento, con "Il matrimonio sardo" di Filippo Figari. Qual è il tuo rapporto con la pittura?

Avendo io una formazione storico-artistica, nel senso che mi sono laureato in storia dell’arte moderna, sicuramente il rapporto con la pittura è mio e lo sento importante, per esempio nella costruzione di un’inquadratura. Detto questo, non abbiamo utilizzato dei riferimenti precisi ma, esattamente come accade per i registi e le storie che più mi hanno influenzato, di certo la pittura ha sedimentato a lungo nel mio intimo e quello che ne è scaturito ha sicuramente a che vedere con l’arte pittorica, anche senza un riferimento dominante.

Il 2022 è stato per l’universo cinematografico un anno di ripartenza, condito dalle inevitabili discussioni: sale o piattaforme? Dicci il tuo pensiero in proposito.

Personalmente non credo nella dicotomia tra sala e piattaforma. Ciò detto, sono anche sicuro che il cinema è quello della grande sala, o dell’arena estiva, ma comunque con una fruizione collettiva, rispetto invece alla comoda visione domestica, utile semmai per recuperare film che in sala non ci sono più da tempo, oppure per rivedere qualcosa che abbiamo già visto. Il cinema in quanto tale, insomma, è quello della sala. Ripeto, in ogni caso non ho un pensiero netto al riguardo, anche perché ci sono tanti aspetti di cui bisogna tener conto. Ci sono ad esempio piattaforme virtuose, come MUBI, che propongono cinema d’essay, che altrimenti andrebbe perso o finirebbe per essere visto troppo poco, e altre piattaforme più grandi che sarebbe bene aspettassero un po’ più di tempo rispetto all’uscita del film in sala per far si che possa prolungarsi proprio quel tipo di programmazione.





Intervista a Matteo Fresi