Venerdì 28 novembre, ottavo giorno di festival: l'aggiornamento quotidiano della trentaduesima edizione del festival di Torino da parte degli inviati di OndaCinema
Venerdì 28, ottavo giorno
Infinitely Polar Bear
di Maya Forbes, Usa, 2014
Un marito e padre bipolare, due bambine, una moglie che cerca di migliorare la condizione economica della famiglia andando lontano da casa. Quella firmata da Maya Forbes è la tipica commedia leggera americana, di quelle con il retrogusto lievemente (lievementissimo non è italiano altrimenti ci stava) amaro. Non che sia un male di per sé; se si ha voglia di un prodotto del genere si troveranno tante cose belle. Prima di tutto Mark Ruffallo qui davvero bravo e, considerando che è presente praticamente in ogni inquadratura, tiene sulle sue spalle larghe tutto il film. La sceneggiatura nella sua semplicità riesce a evitare le tipiche banalità di un plot simile con piccole ellissi (come nel finale) che giovano assai alla struttura. La regia è di quelle quasi invisibili. Nell'insieme dunque Infinitely Polar Bear è innocuo ma ottimo per una giornata odiosamente piovosa. (A.V.)
Voto: 6
Nova Dubai
di Gustavo Vinagre, Brasile, 2014
Devo fare una premessa: non sapevo cosa stavo per guardare. Sono entrato in una sala a caso. Quindi credo che di avere da elaborare ancora un po' di questioni su questo mediometraggio.
Il film inizia con una scena di rimming esplicito fra due uomini (se non sapete cosa è il rimming non cercatelo su Google immagini durante i pasti) e poi inizia il porno gay vero e proprio. Vinagre racconta, con uno stile a modo suo pure interessante, la perdita di certi spazi urbani per far posto a enormi palazzoni e alla speculazione edilizia selvaggia utilizzando i codici del film porno, ma di quelli senza trama.
Paradossalmente non scandalizza (anche se alcune signore al primo dettaglio di una penetrazione anale hanno lasciato la sala) e dice qualcosa. Forse utilizzare un poco di più il tono leggero e disorientante del personaggio che racconta ogni tanto le trame dei film dell'orrore avrebbe aiutato. Come anche usare il livello metaforico, che ben funziona nella scena dello stupro con tanto di schiaffi usando il pene ai danni dell'agente immobiliare. Un film per gli amanti del genere. (A.V.)
Voto: 5
Giovedì 27, settimo giorno
As You Were
di Jiekai Liao, Singapore, 2014
Il singaporiano Jiekai Liao mira ad un affresco sentimentale incredibilmente ambizioso e ricco di misteriose simbologie, nel raccontare l'amore tra un ragazzo e una ragazza che si snoda attraverso il tempo (senza soluzioni di continuità utili allo spettatore per ambientarsi). A tratti affascina e convince, con scorci naturalisti e poetici che richiamano nientemeno che Terrence Malick, in altri momenti l'insieme è troppo estetizzato e arty per emozionare chi non è già fan di questo tipo di cinema. Il classico prodotto da festival che rischia di non trovare un pubblico. (A.P.)
Voto: 5.5
The Drop
di Michael R. Roskam, Usa, 2014
Più o meno tutto quello che ci si aspetta da un adattamento da Dennis Lehane (qui, per la prima volta anche sceneggiatore di una pellicola tratta da un suo romanzo): non c'è Boston ma i sobborghi di Brooklyn con tutto il corollario di piccola criminalità, immigrati e anime in miseria. Il buon Bob Saginowski (Tom Hardy) vorrebbe solo condurre in pace la propria attività di barman e accudire il cucciolo che ha trovato abbandonato in un bidone della spazzatura, ma verrà coinvolto in un losco intrigo a base di mafiosi ceceni, rapine a mano armata, omicidi, ricatti e una donna misteriosa (Noomi Rapace). L'impianto è classico e professionale, e la sceneggiatura mostra mano a mano le sue carte, mostrando che tutti i personaggi, anche quelli apparentemente più puri, hanno qualcosa da nascondere, e che la violenza, alla fine, è l'unico mezzo per regolare i conti. Ma l'assunto pessimistico, nonostante qualche tocco di humour nero, non possiede la statura tragica che Eastwood aveva donato a "Mystic River", né la tensione di "Gone Baby Gone", e tutto si risolve in un esercizio di stile che si dimentica in fretta. E il cast, se si esclude l'ottimo James Gandolfini, nell'ultimo ruolo della sua carriera (nei panni dell'ambiguo cugino Marv), per quanto di buon nome, è di cagneria rara. (A.P.)
Per Ninotchka all'epoca si usò la frase di lancio "La Garbo ride!!"; oggi per lanciare questa serie televisiva si dovrebbe scrivere "Dumont fa ridere!!". "P'tit Quinquin" è una serie in quattro episodi esilaranti, questo va detto subito. Specie nel primo episodio il regista ha calcato la mano sull'aspetto comico con momenti addirittura da slapstick comedy. Non parrebbe vero se si raccontasse superficialmente la trama: in un paesino rurale del nord della Francia un omicidio (seguito da altri più il suicidio di un ragazzino) fanno partire le indagini della polizia. I corpi delle vittime inizialmente vengono trovati all'interno di vacche, anch'esse morte e forse affette dal morbo della mucca pazza. Per dire.
I due poliziotti che portano avanti le indagini sono una coppia comica perfetta. I ragazzini che fanno da corollario tutti meravigliosi e Quinquin ha una faccia indimenticabile (e che tenerezza la storia d'amore!). Casting perfetto (bello che Dumont abbia tenuto pure i take dove si vede che gli attori non riescono nemmeno loro a non ridere), tensione, dramma e demenzialità.
Il film, perché visto tutto di fila è un film con un ritmo preciso e molto calibrato e appare assolutamente compatto, ha inoltre la capacità di raccontare la vita in campagna con un realismo davvero raro (l'aia, gli animali, il letame, i vestiti etc). Da testare anche a casa, se lo manderanno in onda, con la possibilità di allungare le gambe sul divano. Ma viene il dubbio regga di più tutto di fila, senza distrazioni.
Dumont, mi avrebbe stupito di meno avesse girato un film di supereroi spaziali della Marvel. (A.V.)
Voto: 8
20.000 Days on earth
di Iain Forsyth e Jane Pollard, UK, 2014
Raccontare il ventimmilesimo giorno di Nick Cave rendendolo una sintesi esplicativa del suo genio. Questa l'idea avuta dai due registi/artisti. Il Re Inchiostro si sveglia a fianco della moglie, suona e registra, vede l'ormai inseparabile Warren Ellis, va dallo psicanalista poi nell'archivio a lui dedicato e poi torna a casa. Nel frattempo nei viaggi in macchina incontra Ray Winstone, Blixa e Kylie Minogue. Compattare tutto in un'ora e mezza deve essere stato molto difficile e il trucco narrativo poteva essere anche interessante. Ma i registi commettono un errore madornale: mostrano in chiusura un video di un concerto dal vivo di Nick Cave con i Bad Seeds e l'emozione esplode. E allora ci si domanda cosa sarebbe potuto essere un film su Nick Cave se non si fosse pensato troppo ad avere un'idea e si fosse lasciato tutto all'energia spaventosa del protagonista. Più selvaggio insomma.
Viene in mente quel pedalino presente esclusivamente nei pianoforti verticali, quello che schiacci e poi incastri con un movimento della caviglia verso sinistra. Ecco quel pedale che aziona una striscia di feltro che si interpone tra i martelletti e le corde. Si chiama sordina. Ecco schiacciare quel pedale quando hai per le mani Nick Cave è francamente una mossa imperdonabile. (A.V.)
Voto: 6
Voto a Nick Cave: 10/10 Cum Laude
Mercoledì 26, sesto giorno
Whiplash
di Damien Chazelle, Usa, 2014
Il provetto batterista di una jazz band alle prese con il suo irascibile, perfezionista e violento insegnante. Il plot di "Whiplash", opera seconda da regista di Damien Chazelle (anche sceneggiatore di brutti film di genere come il recente "Il ricatto"), sta tutto qui, eppure è un film che in soli centocinque minuti ci parla di tanto altro. Dell'ossessione per il successo degli americani, del mito dell'autorealizzazione, della pressione a cui sono sottoposti i giovani nelle prestigiose scuole private. Lo fa con una messa in scena tesissima più vicina all'impostazione di un thriller che a quella di un dramma psicologico, dove i rapporti di potere si scambiano in continuazione, e dove uno dei più classici temi del cinema americano, il rapporto allievo-insegnante, è scombussolato a dovere e rivisto in chiave ambigua e pessimista (il fine, far emergere il vero talento, giustifica i mezzi, spregevoli, con cui l'insegnante pungola il suo timido allievo?). Il regista dimostra un'abilità straordinaria nel creare tensione (il catartico crescendo del finale è da antologia) ma il peso del film è quasi tutto sulle spalle del giovane Miles Teller, e del burbero J.K. Simmons, che con i suoi metodi da sergente Hartman di "Full Metal Jacket" si prenota direttamente per l'Oscar. (A.P.)
Voto: 8
The Canal
di Ivan Kavanagh, Gran Bretagna, 2014
Horror che mescola senza ritegno duemila modelli di riferimento (da "Shining" a "Sinister", passando per "Rosemary's Baby" e via dicendo). Non sarebbe nemmeno un problema, se il crescendo drammatico in cui sprofonda il protagonista (archivista cinematografico che scopre che la sua casa è stata scena di un atroce crimine oltre un secolo prima) è troppo repentino e assurdo per suscitare l'empatia o l'inquietudine dello spettatore. Qualche effettaccio splatter è ben piazzato, in un paio di momenti si balza sulla sedia (colpa soprattutto di un utilizzo criminale del sonoro), ma in confronto a pellicole come "The Babadook" e "It Follows" è robetta dimenticabile, nata vecchia. (A.P.)
Voto: 4.5
The Disappereance of Eleanor Rigby: Him & Her
di Ned Benson, Usa, 2013
L'idea del regista Ned Benson è inedita e vincente: narrare la fine di una storia d'amore in due film separati, prima dal punto di vista di lui, poi da quello di lei. Piccoli importantissimi cambiamenti di percezione (le parole dette da uno vengono riproposte in maniera diversa nella memoria dell'altro), differenti substrati sociali e famigliari. Entrambi i protagonisti hanno torto e ragione allo stesso momento. Funziona meglio la prima parte, "Him", dedicata a lui, Conor (James McCavoy) allegerita dai toni brillanti a cui consente l'uso di una spalla comica come l'amico Bill Hader, e dove il rapporto con il padre-rivale tocca corde sincere e toccanti. Meno riuscita "Her", dove la pur sempre ottima e stupenda Jessica Chastain non riesce a risollevare un quadro psicologico convenzionale e prevedibile, dove gravano troppe macchiette (Isabella Huppert, madre artista col calice di vino sempre in mano, il padre-William Hurt, psicologo) e dove gli esiti sono prevedibili (la fuga in un altro paese). Resta un'opera comunque interessante e coraggiosa, che purtroppo nel nostro paese rischia di non essere mai distribuita (i produttori Weinstein per il mercato internazionale hanno realizzato un nuovo film, "Them", che spezza e rimonta intere sequenze dei due film cercando di creare un'opera unica della durata di due ore). (A.P.)
Voto: 7
Mange tes morts
di Jean-Charles Hue, Francia, 2014
In una comunità nomade in Francia, tre fratelli, di cui uno ritornato in libertà dopo quindici anni di carcere, organizzano un colpo. Tutto andrà come deve andare.
Jean-Charles Hue dimostra di essere un regista con le idee molto chiare e di saper fare il proprio lavoro. Prima di tutto dirige gli attori in maniera magistrale, tanto più se si considera che non sono professionisti. E, cosa non da poco, è evidente che studia le inquadrature in funzione della narrazione, per esempio si veda l'inseguimento in macchina: il dinamismo controllato che ne viene fuori è notevole. Insomma un regista da segnare sul taccuino.
I protagonisti del film sono dirompenti e chiassosi, non dialogano ma si scontrano sempre; la tensione si accumula e diventa un moto ondivago narrativo. "Mange tes morts" è un film anche sulla redenzione. E ognuno la redenzione la trova a modo suo. (A.V.)
Voto: 7
Force Majeure
di Robert Ostlund, Svezia/Danimarca/Norvegia, 2014
Film nordico senza dubbio ma non glaciale, freddo nel tipo di inquadrature (bravo a evitare simmetrie ridondanti ma a essere preciso nei tagli) ma caldo in certi colori, drammatico ma a tratti divertentissimo.
Insomma potrebbe essere un film dicotomico e invece no. L'obiettivo è solo uno: distruggere il concetto tradizionale di famiglia. Marito, moglie, due figlioletti sono in settimana bianca e sono normalmente felici.
Succede un fatto all'inizio del film, una valanga sfiora il terrazzo sul quale stanno pranzando: un attimo di terrore, la madre si prodiga per proteggere i figli e tenerli al sicuro, il padre prende il cellulare dal tavolo e scappa.
Sembra una cosa che passa e invece no. Le due figure genitoriali si scontrano e si distruggono in un susseguirsi di dialoghi taglienti come bisturi. Solo un pianto disperatissimo e comico (no, non è un film dicotomico) ristabilirà un equilibrio precario, di nuovo pronto a saltare.
Nota a margine: A Ostlund darei un premio speciale per la scena dei due amici sulla sdraio. (A.V.)
Voto: 7.5
Felix & Meira
di Maxime Giroux, Canada, 2014
Lui è un single un po' depresso ma con un'eredità cospicua appena arrivata causa morte del padre. Lei è sposata con un rabbino chassidico e vorrebbe essere da un'altra parte. Si incontrano e ovviamente si avvicinano più di quello che sia concesso. "Felix & Meira" è un film che verrà definito delicato di sicuro. Sarà perché effettivamente lo è. Ma è anche un film triste, venato com'è di malinconia.
Le costrizioni sociali e religiose portano il malumore, l'essere fermi in una condizione che non ci appartiene è deleterio. Ma pure cambiare per poi entrare in altre costrizioni perché, come direbbe il noioso suggeritore di proverbi, non è tutto oro quel che luccica. Maxime Giroux è un tipo intelligente e lo si capisce nel dialogo fra il rabbino e il "rivale", sia per la scrittura che per il tipo di inquadrature usate. Poche parole usate e silenzi imbarazzati in una scena costruita con cura.
A pensarci bene non è un film d'amore. Meno male. (A.V.)
Voto: 6.5
Martedì 25, quinto giorno
The Mend
di John Magary, Usa, 2014
Un UFO all'interno del cinema indie statunitense, "The Mend" è una commedia di caratteri dall'andamento jazzato e imprevedibile, in cui vengono messe a confronto le psicologie di due fratelli agli antipodi, Mat (Josh Lucas, unica "star" del cast) e Alan. Il primo cialtrone che vive alla giornata e senza fissa dimora, il secondo serio e impegnato socialmente, alla deriva dopo essere stato scaricato dalla fidanzata. Quasi come un Altman degli anni '70, dove dialoghi e musiche si mescolano incessantemente e senza soluzione di continuità, con esiti caotici ed esilaranti, all'opposto da carinerie alla Noah Baumbach e con spirito davvero caustico e indipendente. Un piccolo gioiello che merita attenzione. (A.P.)
Voto: 8
Cold in July
di Jim Mickle, Usa, 2014
Da un romanzo di Joe R. Landsale, un revenge-movie ambientato nel profondo Sud degli Stati Uniti sul finire degli anni '80. Un innocuo corniciao uccide per sbaglio un ladro infiltratosi in casa sua, scatenando l'ira del padre ex galeotto che trama vendetta. E va a cercarlo. Ma è solo l'inizio di un complesso intreccio dove nulla è quello che sembra. Humour nero dalla parte dei primi fratelli Coen, facce perfette nel cast di contorno (il redivivo Don Johnson su tutti) e una riflessione non banale sull'uso della violenza nell'america di provincia. Probabilmente solo un buon film di genere, ma avercene. (A.P.)
Voto: 7
The Theory of Everything
di James Marsh, Gran Bretagna/Usa, 2014
La teoria che sintetizza la nascita dell'universo, l'origine del tempo e i buchi neri, spiegata durante una cena facendo ricorso a purè di patate e piselli. Con questa - simpatica - idea di sceneggiatura si svincola dal tema scientifico-filosofico alla base del successo del celebre Stephen Hawking, e si mette in chiaro in maniera precisa che il film è interessato ad altro. Per esempio alla lotta per la vita da parte di un uomo a cui erano stati concessi due anni di vita e che invece è andato ben oltre, ha fatto la storia della fisica e della scienza, ha amato, ricambiato, una splendida donna, creato una famiglia. Per quanto convenzionale, risaputo, "strappalacrime", il film di James Marsh fa il suo dovere. Il regista da sempre interessato a ritratti umani borderline ("Man on Wire", "Project Nim") è incastrato dai vincoli del film biografico, ma evita perlomeno la trappola del sentimentalismo e del pietismo, e aggiunge tocchi d'umorismo british che sicuramente lo stesso Hawking (da sempre ha scherzato con la sua malattia e ha fatto dell'ironia una forma di sostegno) avrà gradito. La coppia di protagonisti è superlativa e ha già una nomination all'Oscar in tasca. (A.P.)
Voto: 6
Tous les Chat Sont Gris
di Savina Dellicour, Belgio, 2014
Finito il film non si può non pensare a quello che è stato detto prima dell'inizio della proiezione: questo lavoro è stato preparato (dalla primissima stesura all'interno del Torino Filmlab a oggi) in 9 anni. Ecco quasi una decade per un lavoro del genere sono troppi per poterlo apprezzare davvero. In tutto questo tempo non si è mai pensato di approfondire nemmeno uno dei temi trattati e lasciare tutto in superficie? E dire che c'erano almeno un paio di questioni interessantissime che avrebbero dato una profondità a quest'opera prima. Invece no. Tutto scorre e va via. Tanto che sicuramente ce ne dimenticheremo troppo in fretta di "Tous les Chat Sont Gris". La storia narra di una ragazzina che cerca il suo padre biologico, insoddisfatta com'è della famiglia nella quale vive da sempre.
Una storia ben congegnata dal punto di vista puramente di intreccio. Anche troppo. Nel senso che gli snodi sono tutti talmente oliati che passano via senza che mai ci sia un approfondimento; davvero un peccato. Lo stile è molto pulito, che guarda con un po' di furbizia ad un filone indie americano che tanto successo ha avuto negli anni duemila. E non è da escludere che un film del genere non possa avere un certo seguito di pubblico, visto che è tanto leggero da rimanere in testa il tempo di scriverne poche righe. Queste. (A.V.)
Voto: 5.5
Qui
di Daniele Gaglianone, Italia, 2014
Gaglianone prima della proiezione ha dichiarato: "non voglio convincere nessuno, ma questo è un film partigiano". Grazie signor regista, mi verrebbe da dire. Chiunque si schieri, in un mondo dove se fai un film come questo perdi l'occasione di farne altri, è una persona per bene.
"Qui" parla della lotta NOTAV. Non vuole spiegare, fare un documentario di indagine o creare adepti. Vuole raccontare chi questa lotta la fa quotidianamente da venti anni prendendo sei casi particolari (probabilmente su molti altri seguiti) che sono emblematici per le vicende vissute. Gaglianone li segue quasi sempre con la macchina a mano, per i sentieri, le strade, i cantieri della valle Susa. Uno sguardo empatico, di parte sicuramente, e anche sincero come raramente si vede al cinema. Dei sei casi seguiti uno pare essere uno sguardo esterno, quello del cronista di RadioBlackOut che convintamente dice che solo nella lotta si sente libero. Gli altri invece sostengono tutti di lottare per la libertà. Uno scarto di senso che nasconde l'abisso. E talvolta distingue il torto dalla ragione. (A.V.)
Voto: 8
Eau Zoo
di Emile Verhamme, Belgio, 2014
Anche nelle Fiandre c'è distopia. In un luogo imprecisato, comunque un'isola, e in un tempo imprecisato, almeno nelle intenzioni, una comunità di pescatori si è auto-esclusa dal "continente" per paura di essere depredata delle sue ricchezze (quali? Non importa). Non circolano i soldi ma sono l'unico modo per scappare, che parrebbe lo scopo principale dei più giovani, tarpati dalle regole ferree e dalle vessazioni dei più anziani.
Cosa fanno i giovani per scappare? Nulla. Le ragazze fanno domande, i ragazzi non rispondono e ogni giorno si ricomincia finché un qualche dio del cinema non scompagina il racconto immettendovi oggetti e avvenimenti del tutto incoerenti che fanno andare il film da qualche parte anche se nessuno ha capito dove. Gran finale con una emotivissima "November Song" sui titoli di coda che dovrebbe dare il senso ultimo (a discapito del primo, secondo eccetera) a quello che una madamina in prima fila ha detto essere: "Una bella favola!". E sia, chi si contenta gode ma dieci anni dopo un capolavoro come "The Village" cui questa storia strizza l'occhio e dopo 50 anni di distopie ballardiane non è forse scandaloso uscire dalla sala delusi e mettere 3? (P.C.)
Voto: 3
Babadook
di Jennifer Kent, Australia, 2014
Il Babadook del titolo è un mostro che vive nella casa di una madre apparentemente controllata e di un figlio apparentemente disturbato. Il padre non c'è più, è morto in un incidente stradale durante il viaggio in ospedale prima del parto della moglie.
Questo è uno di quei film che ha già con un certo alone di culto sul web e le aspettative possono essere di difficile gestione. Jennifer Kent, che gli dei del cinema la preservino in questo stato a lungo, dirige e scrive un film eccezionale per tensione e bellissimo nella sua originalità. Originale non tanto per la storia raccontata, che è a livello di plot piuttosto standard, ma per il sottotesto che arriva potente e preciso. Forse solo una donna poteva raccontare in maniera così sincera i rapporti genitoriali e tutte le trappole psicologiche presenti. L'amore materno, il dolore per una perdita, un figlio che non è perfetto, l'incancrenirsi delle dinamiche domestiche. Di questo e tanto altro parla "Babadook", che sarebbe anche un horror se non fosse una perfetta metafora. Inoltre la Kent scrive anche un finale talmente preciso che riesce ad essere inquietante e meravigliosamente liberatorio. (A.V.)
Voto: 8
Lunedì 24, quarto giorno
Annuncian Sismos
di Rocio Caliri e Manila Marcow, Argentina, 2014
Una drammatica sequenza di suicidi sconvolge uno sperduto paese argentino, ognuno cerca di sopravvivere come può. Un ragazzino che ha perso la sorella cerca la normalità in un corso di musica. Opera prima e si vede. Le due registe mettono in scena in maniera assai discutibile una situazione difficile mescolando stili e procedendo per episodi. Certo scegliere un non attore come protagonista è un azzardo, sceglierne uno privo totalmente di carisma risulta diabolico.
Interessante, va detto, l'approccio documentaristico di certe scene, specie nei dialoghi dove emerge una certa capacità di descrivere il reale attraverso la macchina da presa. Un film piccolo dove non basta il tema di fondo a sollevarne le sorti. Nota a margine: dei film decisamente sbagliati visti al TFF va sottolineato come ci si trovi spesso di fronte a opere che non superano i 70 minuti. Come dire che si è in controtendenza con i grandi colossi commerciali hollywoodiani la cui durata si sta, di anno in anno, dilatando. Lo spettatore di certo ringrazia. (A.V.)
Voto: 5.5
N-Capace
di Eleonora Danco, Italia, 2014
Terracina: anziani e giovani a confronto in interviste frontali intramezzate da coreografie e momenti situazionisti imbastiti con sapienza dalla regista e attrice.
"N-Capace" è un film che fa ridere (non sorridere, proprio ridere), fa commuovere e offre spunti di riflessione notevoli. La Danco fa parlare a ruota libera i suoi protagonisti, li interroga a volte, ma quasi sempre con grande delicatezza. Più di tutto riesce a evitare l'effetto intervista becera televisiva, dove emerge la voglia del popolino di mettersi in mostra. Qui le persone si raccontano con una sincerità straripante: i vecchi con i loro ricordi, i giovani con i piccoli sogni e le vicende quotidiane. Interessante la riflessione che ne scaturisce e il ruolo attivato dello spettatore. C'è una specie di orrore all'interno dell'immagine dei vecchi, un orrore che passa attraverso le parole di un passato retrogrado (donne sottomesse e picchiate, visione oscurantista). C'è dall'altra invece un orrore negli occhi dello spettatore che guarda i giovani. Sono ragazzini che ci si aspetterebbe più gretti e invece risultano semplicemente umani. E allora lo sguardo si infrange e riflette sul suo stesso moralismo. Nelle recensioni su questo film verranno, sicuramente, fatti i nomi di Ciprì e Maresco, io farei più quello di Nanni Moretti. (A.V.)
Voto: 7.5
Rada
di Alessandro Abba Legnazzi, Italia, 2014
A Camogli c'è una casa di riposo per marinai in pensione; il regista mette in scena un documentario di finzione riprendendo alcuni personaggi che la abitano. C'è il bestemmiatore, rude ma sempre pronto a qualche perla di saggezza, c'è l'amante di astronomia che spiega le orbite gravitazionali e il Big Bang, l'ultranovantenne giocatore di superenalotto etc. Tutti con una lunga vita alle spalle fatta di solitudini e viaggi per mare.
Alessandro Abba Legnazzi prima di girare ha scritto con gli stessi pensionati alcuni sketch, storielle e situazioni per poi lasciarsi andare liberamente, riprendere quello che succedeva. Dimostrando senza dubbio una buona mano e fortissima empatia rispetto al materiale umano. In maniera sapiente il film è stato girato in un ottimo bianco e nero per rendere ulteriormente la sospensione del tempo e un tono quasi favolistico sebbene molto ancorato alla realtà. Si ride tanto. E pure ci si commuove: la metafora dell'ospizio come ultimo imbarco è efficace e ficcante. (A.V.)
Voto: 7.5
The Duke of Burgundy
di Peter Strickland, Gran Bretagna, 2014
Due donne, studiose di entomologia, vivono una storia d'amore sadomaso, fra facesitting, nodi e pissing. Sarebbe stata la trama perfetta per il tipico film scandalo festivaliero e non di certo per l'entomologia. Invece Strickland gioca in maniera convincente con il genere erotico al femminile con una pudicizia encomiabile ed evitando qualunque morbosità. Quello che interessa al regista è il rapporto umano, la storia d'amore, le dinamiche di coppia. In questo, ma solo in questo, si possono trovare affinità con "Secretary", film di Steven Shainberg del 2002.
"The Duke of Burgundy" è un film tecnicamente e stilisticamente impeccabile, con una fotografia citazionista. Ha un difetto però, dopo un'ora e venti inizia a girare a vuoto perché ribadisce, narrativamente e a livello di analisi relazionale, ciò che ha già raccontato e mostrato. Davvero un peccato. (A.V.)
Voto: 7
Spazio Torino
Piccola rassegna all'interno del mare magnum festivaliero, Spazio Torino ha mostrato quattro oggetti filmici e addirittura un Evento Speciale, la video-riduzione di una performance nel Parco di Stupinigi intitolata "Un milione di alberi sacri e nessun Dio". La performance ci è stato detto durare circa 50' ridotti a 11 di video cui aggiungerne 40 di presentazione ed ecco realizzato il famoso pareggio di bilancio. Sullo sfondo naturale del parco si rileggono i miti di Narciso e Eco. La storia sviluppa una, forse involontaria, Tati-situation di assoluta incomunicabilità dei danzatori con l'ambiente circostante, indifferenti agli alberi, piante, erba e pure a dei cani dal manto cotonato e con la messa in piega. Ma forse era quello lo scopo: il narcisismo di Narciso e di Eco, troppo innamorati di sé e di cosa fanno.
Congedati dall'Evento Speciale, i quattro non speciali oggetti filmici scorrono più lucidamente seppur difformi tra loro. Ciò che li lega è molto tenue: alcuni sono racconti, altri documentari (sempre non ci siano sfuggite le trame); tre sono stati girati a Torino, uno a Parigi; dei registi, alcuni sono piemontesi altri no. "Il fiume dell'Orco" (Tommaso Donati, 9') è un "manuale della telecamera" con le sue sorprendenti possibilità di stare orizzontale, verticale, muoversi a mano e su di un carrello. I piani sono lunghi e insistiti, intensi diciamo, e ai bordi di una spiaggia d'acqua dolce sul cavalcavia aspettiamo l'arrivo delle vacche di Béla Tarr ma invece arriva un coso oscuro preso dal migliore Ed Wood, avesse avuto un po' di pudore sabaudo.
"La notte in sogno" (Carlo Cagnasso, 15') è un omaggio a David Lynch che poteva benissimo chiamarsi "L'acufene" poiché il rumore di fondo perenne (purtroppo sappiamo di cosa stiamo parlando) si dipana per quasi tutto il tempo filmico, al limite del Codice Penale. Cagnasso, un ragazzo decisamente simpatico, ci ha tenuto a ringraziare, tra gli altri, il produttore della colonna sonora specificando di non averli poi usati, i suoi suoni.
"Ultimo giro" (Giuseppe Sansonna, 20') è il racconto di un vecchio operaio Fiat ("il forno crepatorio", lo chiama lui) interpretato da Giorgio Colangeli che fa la bella vita con una sua corte di miracoli dedita alla truffa dei "tre campanelli", quel meraviglioso giochino che consiste nell'indovinare dove sta la pallina. Nostalgia di una Torino che fu, lei e i suoi immigrati geni-genuini-ingenui è il corto meglio riuscito insieme a quello francese "Mon baiser du cinèma" (Lafond-Matarrese, 16') interpretato da ragazzi di una scuola media parigina alla scoperta dell'Amore e di quell'atto introduttivo che è il bacio di cui si fa conoscenza attraverso i migliori baci della storia del cinema. Bari (Sansonna viene da lì) contro Parigi finisce uno pari (dopotutto non è Parigi una piccola Bari?) ma l'italiano sconta una possibilità tecnica decisamente inferiore a quella francese che oltretutto strizza furbetta l'occhietto ai cinefili con la sua meta-storia.
Molto interessante la produzione dei suddetti oggetti filmici. Essi, si sa, non possono godere di gran mercato né di una reale distribuzione. Uno si è affidato al crowdfinding (la sottoscrizione volontaria insomma); un altro ha speso (bene) i soldi del ministero dell'Istruzione (quello francese naturalmente ma anche in Italia si finanziano film delle scuole, forse con risultati inferiori); un altro ancora è un giovane speriamo talento sostenuto dalla Factory dei gemelli De Serio che hanno già esordito nel lungometraggio. L'ultimo gode dei soldi e del patrocinio delle istituzioni pubbliche e delle due maggiori banche nazionali. Non vi diciamo quale ma sono stati soldi regalati. (P.C.)
The Guest
di Adam Wingard, Usa, 2014
Dai realizzatori dell'horror "You're Next", arriva un altro thriller citazionista e dalla morale antiborghese, che non chiede di essere preso seriamente nemmeno per un secondo. Inizia come "Teorema" di Pasolini, continua come uno slasher sulla falsariga di "Halloween" di Carpenter, e in mezzo ci stanno pure esperimenti genetici e militari dal grilletto facile. Svelare di più sarebbe ingiusto. E' un divertissment dal ritmo serrato, fa il suo dovere, e questo ci basta. Occhio alla clamorosa colonna sonora synth pop sulla falsariga di "Drive" e dell'etichetta Italians Do It Better. (A.P.)
Voto: 6.5
Domenica 23, terzo giorno
Stray Dog
di Debra Granik, Usa, 2014
Debra Granik nel 2010 aveva vinto il Torino Film Festival con "Un gelido inverno", quest'anno torna da giurata e porta con sé, in una sezione collaterale il documentario "Stray Dog". Il protagonista è Ron Hall, detto appunto Stray Dog, veterano del Vietnam e della Corea, biker e gestore di una parcheggio di roulotte adibite ad abitazione nel profondo Missouri. La Granik entra con delicatezza in un mondo che rappresenta in qualche modo le radici degli Stati Uniti. Ci mostra una realtà così lontana da sembrare quasi esotica. Una realtà che raramente si è vista dipinta con tale sincerità e piglio antropologico. Stray Dog e i suoi compagni veterani portano addosso una ferita profonda e dolorosa, quella di essere reduci, sopravvissuti di vecchie e nuove guerre. Si aiutano a vicenda per continuare a vivere. Lo fanno, ovviamente, con i mezzi che hanno: una toccante retorica sull'America e su Dio. Pullula di vita e di vibrante umanità il documentario di Debra Granik e apre un'enorme riflessione sulla dignità di chi deve fare i conti con l'orrore di una nazione imperialista. (A.V.)
Voto: 8
Life after Beth
di Jeff Baena, Usa, 2014
Beth muore e risorge zombie. Zach, il suo ex fidanzato, cerca di riconquistarla e di riprendere il tempo perduto. Un film sugli zombie sospeso fra farsa e parodia (no, "Shaun of the Dead" è di un altro pianeta) che cerca di far ridere riuscendosi pochissime volte (la trovata del smooth jazz, lo zombie che va in giro con il mobile del gas sulle spalle) e che vuole creare una tensione che si disperde del tutto perché non riesce mai ad avere un minimo di credibilità. E dire che parte anche bene rubando di sana pianta l'idea de "Les revenant", film e serie televisiva, di raccontare come vengono stravolte le dinamiche dei rapporti con il ritorno a casa di un defunto. Insomma, ci sono film in cui basta una buona idea per stare a galla. A "Life after Beth" non ne basterebbero nemmeno un migliaio tanto è idiota. (A.V.)
Voto: 4
La chambre bleue
di Mathieu Amalric, Francia, 2014
La distanza tra la vita vissuta e la vita spiegata. Perché si è compiuta una determinata azione o detto una determinata frase? Ciò che è reale non è razionale, ciò che è razionale non è reale. Amalric recita e dirige un delitto passionale di provincia che diventa, forse a tratti in modo didascalico, una riflessione filosofica (o metacinematografica?). A parte la colonna sonora troppo enfatica, la messa in scena è accurata ed efficace, iniziando dai virtuosismi della prima scena fino al montaggio elaborato. Le scene dell'interrogatorio ricordano forse troppo "Una pura formalità" mentre i momenti sensuali sono, come eleganza, l'apice della pellicola. (A.M.)
Voto: 7.5
'71
di Yann Demange, Gran Bretagna, 2014
Non c'è niente di sbagliato in "'71" ma neanche nessun guizzo. Belfast, nell'anno del titolo, è zona di guerra e nella sua prima missione il soldatino del Derbyshire si ritrova "dietro le linee nemiche" cioè nel quartiere protestante dopo il coprifuoco. Dovrà sopravvivere a molte scene action (ben fatte) e a sottotrame (non troppo originali) di doppi e tripli giochi, con ogni fazione divisa al suo interno. Vi ricordate gli inseguimenti all'inizio di "Nel nome del padre"? Ecco, il film è tutto così ma senza Daniel Day-Lewis o suo padre. Un paio di colpi di scena sono molto azzeccati, ma ce ne sono anche di parecchio telefonati. La scelta cerchiobottista di fare un film in cui si dà ragione agli irlandesi ma il protagonista è inglese risulta alla fine un po' stonata. (A.M.)
Voto: 6.5