Ondacinema

recensione di Giuseppe Gangi
7.5/10
Presentato al festival di Cannes, dove era già piuttosto atteso, "La tartaruga rossa" è stato fin da subito riconosciuto quale una delle opere di animazione più pregevoli dell'anno. Particolare di interesse non secondario è la sua storia produttiva, che lo vede come il parto creativo di una coproduzione franco-giapponese in cui un ruolo determinante è stato giocato dallo Studio Ghibli, nelle persone del produttore Toshio Suzuki e del regista Isao Takahata, qui in veste di "produttore artistico". In pochi sanno che Takahata, co-fondatore dello Studio, è stato negli anni una sorta di scopritore di talenti esteri, delle cui opere ha poi curato le edizioni giapponesi proiettate nel Museo Ghibli. Così è nato l'incontro con Michaël Dudok de Wit, premio Oscar nel 2001 per il cortometraggio "Father and Daughter", che ha portato alla luce questo progetto dalla lunga gestazione durata quasi dieci anni.
Dudok de Wit aveva in mente da alcuni anni di lavorare sul concept del naufrago sull'isola deserta, senza però volersi focalizzare più di tanto sul tema della lotta per la sopravvivenza, finché la proposta produttiva di Suzuki di realizzare un lungometraggio non l'ha reso reale. 

La narrazione de "La tartaruga rossa" si presenta assai rarefatta: ha la leggerezza strutturale della fiaba, ma porta con sé anche quel carico di simboli che ampliano il significato del racconto. L'archetipo del naufrago è naturalmente Ulisse, sebbene nella cultura occidentale moderna non si possa non pensare a Robinson Crusoe. Robinson è il perfetto esemplare della borghesia inglese del Settecento, intraprendente e razionale, che con la ragione riorganizza il mondo e piega anche gli ostacoli della natura al fine di ottenere ciò che desidera. Gli anni di esilio sono anni in cui Robinson sopravvive grazie alla superiorità intellettuale datagli dalla condizione di uomo di un paese oltremodo sviluppato: è la metafora di un trionfo, di una superiorità mai veramente messa in discussione. Quando il protagonista incontra e salva l'indigeno che chiamerà Venerdì, la prima parola che questi imparerà sarà "Padrone". Da questo punto di vista, "La tartaruga rossa" opera un piccolo sabotaggio di questo topos: il protagonista, di cui non conosciamo nulla, nemmeno il nome, ha come unico obiettivo la fuga da questo luogo che reputa inospitale. Inizia pazientemente a costruirsi una zattera che riesce a mettere in mare; dopo poco, però, un anomalo sussulto delle onde oceaniche la sfascia, costringendolo a nuotare per riguadagnare faticosamente la riva. Proverà e riproverà, fallendo ogni volta. La differenza sta nelle dimensioni della zattera che viene ricostruita ogni volta più grande e più solida: il naufrago pensa secondo logiche razionali e causalistiche, usa gli strumenti della nostra civiltà per sfuggire a una realtà per lui ostile, scoprendo solo in seguito che a distruggere le sue zattere era una enorme tartaruga rossa. Su di lei riverserà la sua rabbia e la sua frustrazione, ribaltandola sulla corazza e lasciandola morire sotto il sole cocente. È qui che "La tartaruga rossa" compie lo scarto definitivo verso la fiaba, la narrazione mitica che fa della metamorfosi ma anche della rinascita la propria chiave di volta. La donna che appare dopo la morte della tartaruga rossa diventa la compagna dell'uomo e così il film diventa un racconto di rifondazione dell'umanità, l'isola non appare più un inferno, ma un Eden da riabitare e proteggere. Il loro amore e la conseguente nascita di un figlio è l'evento-cardine che cambia anche le coordinate del racconto: se l'impresa del protagonista, degna di Sisifo, si muoveva su una ricorsiva linea retta, una volta diventato padre e costruito un rapporto simbiotico con la natura del luogo, il tempo ritorna a essere ciclico. L'uomo a questo punto non mostra più alcun interesse ad abbandonare quel luogo magico: l'accettazione serena di un destino diverso (e non necessariamente avverso) ne cambia la percezione ed è il viatico per una vita in equilibrio con la natura e colma di piccole gioie.

Michaël Dudok de Wit mette in scena questa parabola lavorando su uno stile quasi contemplativo, utilizzando animazione digitale e quella tradizionale a carboncino, cercando di movimentare l'immagine senza corrompere i fondali, che mantengono una ieratica imperturbabilità. L'autore usa per il character design la linea chiara della scuola franco-belga: il tratto è pulito, il disegno minimale ma espressivo. Sul colore, invece, sembra omaggiare certe sperimentazioni takahatiane: le campiture monocrome o con lievi gradazioni coloristiche (che fungono anche in senso prospettico) appaiono simili a quelle che si possono vedere in alcuni suoi capolavori, come la sabbia ocra del cortile de "La tomba delle lucciole", il verde de "La storia della Principessa Splendente", da cui riprende anche le fughe oniriche.[1] 
Il protagonista, infatti, stremato dalle fatiche del giorno, si accascia improvvisamente facendo sogni particolari in cui la natura gli rivela il suo volto più benevolo o in cui sembra potersi allontanare dall'isolotto. I sogni sono costruiti su una tavolozza che gradua il bianco e nero, l'animazione dinamica si salda alle musiche di Laurent Perez Del Mar, creando così una sinergia di grade forza emotiva, in cui si vede la volontà del regista di lavorare su un linguaggio basico costituito dall'immagine in movimento e dalla musica. In una delle sequenze più potenti, l'isola viene sconquassata dall'onda d'urto di uno tsunami e, allora, sale improvvisamente il livello drammatico perché incombe la tragedia sui destini dei protagonisti e il cinema mostra l'ambiguità della poesia che, dopo immagini lievi e armoniose, può ora rappresentare l'esplosione inarrestabile della catastrofe.
Non si odono parole durante "La tartaruga rossa": il silenzio è scalfito solo da qualche grugnito e da qualche "ehi" gridato di tanto in tanto. I disegni animati lasciano trasparire una certa spiritualità sia descrivendo il quotidiano e silenzioso sforzo del protagonista, nella prima parte, sia mostrando la bellezza del luogo, nella seconda. È nel silenzio che il talento di Dudok de Wit sprigiona tutto il potere fascinatorio della propria arte, raggiungendo il nitore puro del cinema muto.

Come già accennato, la formazione di una risonanza tra l'uomo e l'isola comporta un ritorno alla vita primordiale, raccontato attraverso la fiaba corredata da una congerie di simbolismi che spiegano il ripetitivo apparire di alcuni elementi. Le tartarughe, la scoperta dell'isola fatta attraverso prove ed errori (la caduta dalla scogliera, ad esempio), il mare che mostra il suo doppio volto, la scoperta del mondo. L'opera è altamente suggestiva e adulta, la conferma, dopo l'exploit di Tomm Moore di un paio di anni fa, dello stato di buona salute creativa di cui godono i talenti europei dell'animazione.

[1] I granchietti che occupano la spiaggia sono invece un ironico occhiolino ai miyazakiani makkurokuroske de "Il mio vicino Totoro" e de "La città incantata".

18/03/2017

Cast e credits

regia:
Michaël Dudok de Wit


titolo originale:
La tortue rouge


distribuzione:
BiM Distribuzione


durata:
80'


produzione:
Arte France Cinéma, Prima Linea Productions, Studio Ghibli, Why Not Productions, Wild Bunch


sceneggiatura:
Michael Dudok de Wit, Pascale Ferran


montaggio:
Céline Kélépikis


musiche:
Laurent Perez del Mar


Trama
Dopo un naufragio su un'isola tropicale popolata da tartarughe ed uccelli esotici, un uomo si trova a combattere per la sopravvivenza. Tenta più volte di fuggire dall'isola con una zattera da lui costruita, ma tutte le volte è ostacolato da una creatura sottomarina, una grande tartaruga rossa. Dopo che, finalmente, l'uomo ha il sopravvento sulla tartaruga, che è abbandonata sulla spiaggia a morire, comparirà sull'isola una donna misteriosa...
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