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Diventando lo specchio di ossessioni del regista e di quelle dell'intera nazione, il cinema di William Friedkin è arrivato ai nostri giorni mantenendo intatta l'insoddisfazione verso la presunta normalità delle cose. E il suo viaggio è ben lungi dal dirsi concluso

Preludio

Quando, nel corso di un talk show trasmesso dalla televisione inglese coglie l'occasione per prendere le distanze dal film che ha appena finito di girare, sconsigliando il pubblico di andare a vedere Quella notte inventarono lo spogliarello (The Night That Rided Minsky's,1968), William Friedkin è ancora lontano dall'essere il cineasta che sarebbe diventato dopo Il braccio violento della legge (The French Connection, 1971). A separarlo da quel momento ci sono ancora un paio di film da realizzare e soprattutto una prima parte di carriera complicata da un carattere poco diplomatico, per niente disposto a tenersi dentro le cose. In più, particolare non da poco per la Hollywood degli anni 60 in preda a una crisi di sistema e quindi di profitti, c'è da mettere in conto gli incassi registrati dai film del regista, nessuno dei quali era stato capace di ripagare in termini economici la fiducia dei produttori. Esiti, questi, in larga parte determinati dal tentativo di compensare la voglia di cinema di un regista arrivato fin lì senza le stimmate del predestinato e perciò più di altri bisognoso di supplire alla mancanza di un apparato teorico con un surplus di pratica che lo aveva portato ad accettare progetti poco sentiti e ancor meno personali. Eppure, gli inizi erano stati di segno opposto, sospinti da una passione prima culturale e solo successivamente cinematografica, esplosa quasi per caso e in qualche modo stimolata dal contatto con il mondo della produzione televisiva frequentata lavorando presso gli studi della WGN - TV di Chicago dove, al termine delle scuole superiori frequentate più per dovere che per reale predisposizione, riesce a farsi assumere con un incarico generico. Nato da una famiglia ebraica emigrata dall'Ucraina per sfuggire alla persecuzione antisemita, gli anni adolescenziali del regista sono stati segnati da una formazione scandita dalla precoce scomparsa della figura paterna - consumata da anni di duro lavoro e sulla quale certamente influiscono la problematicità del contesto urbano d'origine, pericoloso e violento - e dalla frammentazione di una comunità cittadina e di quartiere caratterizzata dal mancato melting pot tra le diverse etnie che la compongono. Particolari da tenere presente, sia quando si tratterà di interpretare lo straniamento di uno sguardo che, sulla scia del pluralismo sociale di cui parlavamo poc'anzi, riesce ad essere nello stesso tempo interno ed esterno all'universo che descrive (mai realmente identificato con l'essenza più intima dello spirito americano quasi sempre tradito da una rappresentazione astratta dei mali della Nazione), sia, sul piano privato, quando si tratterà di valutare certe prese di posizione caratteriali che nell'eccesso di autostima dimostrato nella gestione dei rapporti di forza dentro e fuori dal set, rivelano l'attitudine di chi è stato abituato a cavarsela da solo. 

Frenesie giovanili

crump_05Il decennio trascorso alla WGN, culminato nel 1962 con la presentazione al festival di San Francisco del documentario The People vs Paul Crump (1962) è di quelli destinati a fare la differenza, perché da una parte permette al giovane apprendista di imparare a muoversi nel mondo dello spettacolo, acquisendo dimestichezza con i concetti di produzione e messinscena praticati come ispettore di produzione degli show televisivi realizzati dalla rete, dall'altra, grazie alla guida di una serie di mentori considerati per stessa ammissione dell'interessato come una sorta di padri putativi, di aprirsi al mondo delle arti e delle lettere e di prendere coscienza delle possibilità formali di un cinema diverso da quello che era stato abituato a vedere, attraverso la fruizione delle opere dei cineasti che avevano fatto o stavano facendo la storia della settima arte.
Da Orson Welles ad Akira Kurosawa, da Alfred Hitchcock a Federico Fellini, passando per il neorealismo italiano e la nouvelle vague francese, Friedkin visiona le pellicole di quei cineasti con un piacere misto all'attenzione per i dettagli di chi un giorno vorrebbe cimentarsi nello stesso campo. Un desiderio che diventa tanto più urgente quando, tramite conoscenze comuni, viene a sapere della storia di Paul Crump, afro americano accusato di avere ucciso una guardia giurata durante una rapina e in attesa di esecuzione dopo che la Corte suprema aveva respinto l'ennesimo appello. L'aver appreso che il condannato poteva essere innocente e che un'eventuale riapertura del caso sarebbe potuta passare anche attraverso una riflessione su più larga scala, magari effettuata sulla scia di una versione dei fatti focalizzata proprio sul personaggio di Crump, fa scattare la molla che permette a Friedkin di chiedere ed ottenere i finanziamenti per realizzare quello che di fatto costituirà il suo film d'esordio. Prodotto dalla televisione pubblica di Chicago, "The People vs Paul Crump" è il classico film indipendente girato con pochi soldi - 6 mila dollari - e tanta passione, che ricostruisce i fatti in questione con interviste e inserti di finzione volti a ricostruire lo svolgersi dei fatti commentati dalla parole delle parti coinvolte. Senza alcuna cognizione di causa che non fossero quelle teoriche e cinefile apprese sullo schermo, e con il solo aiuto di un cameraman, il neofita si mette all'opera  combinando gli impegni lavorativi presso la WGN con i tempi dedicati alla realizzazione del film che finiscono per occupare il resto della giornata.
Mettendo a frutto la capacità d'improvvisazione acquisita nelle registrazioni live degli spettacoli televisivi e determinato a consegnare il documentario in tempi utili a far cambiare idea a chi aveva la possibilità di sospendere la sentenza di morte, Friedkin collabora al montaggio e alla fotografia esercitandosi in prima persona con i rudimenti della propria passione. Penalizzato  dalla mancata messa in onda del film da parte del network spaventato dalle reazioni dell'opinione pubblica rispetto alla teoria che la confessione di colpevolezza di Crump prima estorta con la forza dalla polizia e poi ritrattata dal protagonista,  "The People vs Paul Crump" rischia di rimanere uno sforzo fine a se stesso, se non fosse che il film, iscritto in extremis al festival di San Francisco, riesce a vincere il premio maggiore, ottenendo quella cassa di risonanza che convince le istituzioni a commutare la pena di morte in ergastolo. Un lieto fine che negli ambienti cinematografici fa guadagnare al regista una certa notorietà, che però non si traduce in un'entrata in pianta stabile nel cinema che conta. Friedkin, infatti, si trasferisce a Los Angeles per iniziare a lavorare con un società che produce documentari per le più importanti  emittenti del paese. Seppur lontano da quello che avrebbe sognato, l'ingaggio rappresenta una tappa se non decisiva comunque rilevante nel percorso di iniziazione alla regia, perché oltre a limare lacune tecniche e organizzative, Friedkin si ritrova a lavorare in un sistema di produzione votato al pragmatismo e su prodotti commerciali che, escludendo qualsiasi intento artistico e puntando alla pancia dello spettatore medio, lo abituano a comunicare in maniera chiara ed efficace, arrivando al sodo senza troppi arzigogoli.
Al di là di questi aspetti, dal punto di vista cinematografico è significativo sottolineare come due dei tre documentari realizzati per conto della Wolper siano destinati a gettare il seme per quello che verrà. Con The Bold Man (1965), incentrato su persone pronte a superare i limiti umani con imprese rischiose e spettacolari sembra fare le prove de "Il salario della paura" per la tendenza a girare al di fuori degli standard di sicurezza per sè e per gli altri, mentre con The Thin Blue Line (1966), incentrato sulla vita dei poliziotti di Los Angeles, prende appunti su ambienti e personaggi poi sviluppati ne "Il braccio violento della legge". Ma non c'è dubbio che oramai l'urgenza di Friedkin sia quella di esordire nel cinema e di iniziare a girare il proprio film.

Good Times

goodtimesCosì, quando nel 1965 si palesa l'opportunità di dirigerne uno per Sonny Bono e Cher, duo musicale che proprio in quegli anni si trova all'apice del successo - con una serie di canzoni tra cui la famosa I Got You Babe al vertice delle classifiche - Friedkin non se la lascia sfuggire, accettando l'incarico anche a dispetto di una sceneggiatura rimasta nella testa di Nicholas Hyams, autore dello script iniziale che, in disaccordo con il regista, abbandona il set alla vigilia delle riprese, costringendo i nostri a una soluzione di ripiego che ruota attorno all'idea di far recitare Sonny e Cher nella parte di se stessi e all'interno di una struttura narrativa in cui i vari pezzi musicali, inseriti ad hoc per giustificare la presenza dei cantanti, vengono tenuti insieme da una trama imperniata sui tentativi di Sonny di realizzare il proprio film nonostante gli ostacoli architettati da un infido produttore che, per motivi di denaro, vorrebbe obbligare lui e la compagna a realizzare l'ennesimo show televisivo. Per rimpinguare la trama, regista e attore pensano a una serie di ellissi narrative costituite da microstorie autoconclusive ideate dalla fantasia di Sonny in cui il protagonista si ritrova catapultato in situazioni che in maniera parodistica fanno il verso ad alcuni  dei generi cinematografici più famosi. Se, come abbiamo visto, le condizioni di partenza non sono delle migliori, e anche con il prosieguo della lavorazione le traversie non mancano costringendo Friedkin a riprese di fortuna, c'è da dire che egli riesce a trasfondere nel film la sintonia e lo spirito di condivisione stabilitesi con Bono, il quale, a sua volta, alla stregua del personaggio interpretato,  trova sempre il modo di far fronte alle difficoltà schierandosi dalla parte del giovane regista. Ci riferiamo qui a location improvvisate o rubate che di volta in volta trasformano i dintorni di Los Angeles nella giungla africana prestata a una personale rivisitazione del personaggio di Tarzan o nel selvaggio west in cui il protagonista opposto ai manigoldi di turno si esibisce in una resa dei conti da mezzogiorno di fuoco. Paragonato a più riprese ai nostri musicarelli, Good Times (1967) è un esordio meno scontato di quello che potrebbe sembrare perché, pur privo di particolari connotazioni d'autore dovute al fatto di essere un prodotto su commissione, è altrettanto vero che le condizioni produttive di cui abbiamo detto consentono a Friedkin di metterci del suo. sia in termini di improvvisazione - per ovviare alla mancanza di un piano prestabilito - che di sguardo, con quest'ultimo continuamente sollecitato dalla contiguità tra sogno e realtà e tra vero e falso che oltre alla musica è il segno preminente di un'opera come "Good Times". 


Quella notte inventarono lo spogliarello

notteNonostante la mancanza d'incassi, Good Times consolida la fama del regista che ormai è considerato uno dei migliori leve in circolazione. Una nomea che gli permette di essere preso in considerazione nientemeno che da una major come la United Artists in procinto di girare un musical in costume ambientato negli ambienti del burlesque della New York di inizi del novecento. Ancora una volta, e non sarà l'ultima, Friedkin accetta la proposta, consapevole di avere ancora molto da imparare ma allo stesso tempo conscio di assumersi la responsabilità nei confronti di un progetto poco sentito. In questo caso, a fare la differenza oltre alla necessità di continuare a formarsi attraverso la pratica dello strumento cinematografico, è soprattutto il prestigio di lavorare con una major, la United Artists, capace di aprirgli le porte del cinema che conta. Rispetto a "Good Times" però, il nuovo lavoro gli lascia poco margine di manovra perchè le perplessità del regista nei confronti della sceneggiatura vengono presto superate dalla constatazione che nella volontà dei produttori l'essenziale non è tanto la storia - incentrata sullo stratagemma messo in piedi da un gruppo di teatranti per evitare di chiudere i battenti - quanto la riuscita degli sketch musicali incaricati di caratterizzare un prodotto altrimenti privo di particolari richiami. Con Jason Robards subentrato al rinunciatario Tony Curtis nella parte del protagonista maschile e la svedese Britt Ekland, appena sposatasi con Peter Sellers, in quella femminile, il film riflette la contraddizione tutta interna alla regia di Friedkin che di fronte al registro caricaturale ed eccessivo tipico del burlesque reagisce con una messinscena di segno opposto, costruita con estetiche tipiche del cinema del reale e quindi con movimenti della mdp  meno controllati e più liberi, e ancora con un ampio ricorso a filmati d'epoca accostati a quelli di finzione in un rapporto di sudditanza dei secondi rispetto ai primi che la dicono lunga sul modo scelto per avvicinare la materia del film. Appropriata, quando si tratta di far procedere la trama e quindi di raccontare l'evolversi della vicenda; meno consona nei momenti in cui la progressione s'interrompe e lascia spazio agli inserti musicali. Inoltre, la decisione di affidare ad altri la direzione delle sequenze dedicate al burlesque, aumenta il senso di disagio provato nel corso della lavorazione. Friedkin, infatti, porterà a termine il lavoro solo per paura delle ritorsioni che un suo eventuale abbandono provocherebbe da parte della United Artists.

Festa di compleanno 

interQuello che succede subito dopo il termine delle riprese, con il trasferimento a Londra per iniziare i preparativi del successivo lungometraggio, sembra rispondere alla voglia di lasciarsi dietro quella triste esperienza, tanto che Friedkin, prima della dichiarazioni che fanno perdere le staffe ai dirigenti della major, autorizza la compagnia a procedere ad un nuovo montaggio, testimoniando con questa scelta non tanto la voglia di scaricarsi delle proprie responsabilità, quanto piuttosto la consapevolezza di non poter fare nulla per migliorare ciò che è stato fatto. A rendere tutto meno amaro c'è però la prospettiva di impegnarsi per la prima volta su qualcosa che gli interessa in prima persona. Tratto dall'omonima piece di Harold Pinter, Festa di compleanno (The Birthday Party, 1968) nasce infatti dall'ossessione del regista nei confronti del testo del drammaturgo inglese e dal milione di dollari messogli a disposizione dalla neonata Palomar Pictures, intenta a costruirsi una reputazione lavorando con registi giovani e poco pretenziosi in termini di budget. A dispetto della sua fama, la collaborazione con Pinter si rivela fattiva e paritaria nella condivisione dell'idea che l'elaborazione della messinscena debba andare di pari passo con il rispetto filologico della fonte scritta, a partire dalla scelta degli interpreti più adatti a interpretarla. Quintessenza dell'universo pinteriano, dominato come sempre da un incomprensibile senso di minaccia incombente e da verità che si confondono spesso con la menzogna, "Il compleanno" è ambientato nei pressi di una cittadina non distante da Brighton e negli interni di una vecchia pensione abitata da una coppia d'affittuari e occupata in una delle stanze da un inquilino, Stanley, di cui non conosciamo nulla eccetto l'apatia che lo rende incurante di ciò che gli sta intorno. In questo scenario da romanzo cechoviano s'inseriscono due misteriose figure che in qualche modo stabiliscono una relazione con l'uomo e di cui in parte scopriremo gli intenti durante la festa organizzata da Meg - la proprietaria - per celebrare il compleanno dello stesso Stanley. Confrontandosi con i simboli e le metafore derivate dalla mancanza di senso dell'esistenza destinata a implodere dentro le vite dei singoli personaggi, Friedkin non si fa trovare impreparato e mostra alcune delle peculiarità caratteriali destinate ad accompagnarlo nel corso della sua carriera a cominciare da un piglio che gli consente di non lasciarsi sopraffare dalla matrice teatrale del testo a cui il regista si rivolge con il rispetto dovuto ma senza impedirsi di trovare la via specifica al cinema attraverso soluzioni visive che permettono all'opera di arricchirsi di sfumature ulteriori. A questo proposito basterebbe pensare al rapporto tra parole e immagini, con la stratificazione dei dialoghi, tanto ordinari quanto scopertamente allusivi, che trova corrispondenza in una regia impegnata, soprattutto nella prima parte, a moltiplicare le prospettive dello spazio scenico in una ricerca della profondità tesa a rivelare gesti e dettagli altrimenti destinati a rimanere nell'ombra.
E poi, e qui il merito va anche a un cast che può contare su alcuni dei migliori interpreti teatrali e televisivi del panorama inglese, nella qualità della direzione dei medesimi interpreti, modulata sui toni del drammatico e del grottesco in grado di evocare come meglio non si potrebbe la dimensione di pericolo di un quotidiano apparentemente ordinario. E qui il pensiero non può non andare alla sequenza clou relativa alla festa annunciata dal titolo che, nell'esasperazione dei gesti e in un uso spregiudicato del contrasto tra luci e ombre si fa antesignana delle atmosfere e delle ossessioni che anni dopo segneranno la cinematografia di David Lynch, richiamata in maniera esplicita nella sequenza iniziale in cui la valenza ipnotica del rumore che accompagna la soggettiva della macchina che percorre le strade cittadine si può equiparare a quella prodotta dal fuori giri del disco di "Inland Empire".

Festa di compleanno del caro amico Harold

the_boysinthebandDistribuito in poche sale, "Festa di compleanno", pur rivelandosi un'esperienza soddisfacente per le parti in causa, almeno per quello che riguarda il botteghino, si dimostra incapace di invertire la tendenza che continua a non vedere di buon occhio i lavori del nostro regista. D'altra parte, la stima e le referenze ricevute dalla collaborazione con Pinter costituiscono un motivo sufficiente a convincere Mart Crowley ad affidargli la regia di "Festa di compleanno del caro amico Harold", versione filmata della sua stessa commedia che a partire dal 1967 aveva trionfato nei teatri off di Broadway portando in scena senza censure usi e costumi della comunità gay newyorkese, riassunti nelle vicissitudini e nelle personalità degli amici che si riuniscono per festeggiare il compleanno di uno di questi. Tolta l'omonimia con il film precedente, risolta dai produttori con un rapido cambio del titolo - "The Boys in the Band" sarà quello americano, mentre in Italia viene confermato l'originale - Festa di compleanno del caro amico Harold (The Boys in the Band, 1970) non presenta per Friedkin particolari difficoltà, ricalcando dal punto di vista tecnico le medesime problematiche affrontate con il lungometraggio appena terminato. Alle capacità di girare in ambienti limitati, valorizzando gli spazi e le figure all'interno della scena, a fare la differenza in questo caso è l'eco provocato dai contenuti della storia che oggi possono apparire innocui e un po' scontati ma che nel 1968 costituiscono una pietra miliare nella lotta contro la discriminazione sessuale e la parità di diritti. 

Il dritto e il rovescio 

Il decennio che va dalla fine degli anni Settanta all'inizio degli Ottanta rappresenta sotto il profilo creativo e dal punto di vista delle contraddizioni quello più importante della carriera del regista. A testimoniarlo ci sono prima di tutto i film che, al di la degli esiti commerciali e qualitativi, sono destinati per la carica eversiva di cui si rendono artefici a entrare di diritto nella storia del cinema americano e in particolare del nuovo cinema americano che proprio in quel momento avrebbe toccato il culmine della sua affermazione: caratteristica che da sola basterebbe a riempire le cronache della settima arte, se non fosse per il percorso divistico di Friedkin, passato in breve dal paradiso all'inferno in ragione della disparità con cui pubblico e critica si predisposero nei confronti dei suoi lavori. Se non esiste alcun dubbio sul fatto che il cineasta sia di quelli destinati a dividere e a far discutere, è anche vero che con il senno di poi almeno la critica abbia qualcosa da rimproverarsi - alla pari di quello che accadde con il Clint Eastwood diretto da Don Siegel -  in merito alla considerazione con cui gli addetti ai lavori accolsero i lavori realizzati in questo periodo, rivalutati a posteriori anche in virtù di certi preconcetti ideologici - fascista, misogino, razzista e reazionario furono alcuni degli epiteti attribuiti al regista - che alla lunga si sono rivelati infondati e pretestuosi. Di certo il regista non si fa mancare niente allineandosi in maniera paradigmatica alla fenomenologia da outsider tipica degli autori della New Hollywood - pensiamo a Francis Ford Coppola e Hal Ashby come pure a Peter Bogdanovich, Dennis Hooper e Arthur Penn - destinati a  dare il meglio di sè partendo dal basso - come succede proprio al Friedkin de "Il braccio violento della legge" o al Coppola de "Il padrino" - e invece, guarda caso, condannati al fallimento quando le condizioni di partenza - per esempio l'appoggio incondizionato degli studios e i favori del grande pubblico - farebbero pensare il contrario, come dimostrano i casi rappresentati, rispettivamente, da "Il salario della paura" e da "Un sogno lungo un giorno", film della vita che si rivelano una specie di de profundis per le ambizioni dei loro artefici.
Dopo di che, prima di addentrarci nello specifico delle singole opere, è bene soffermarsi su due linee di tendenza che emergono in maniera inequivocabile nella produzione del periodo, perchè oltre a diventare delle costanti rintracciabili, salvo rare eccezioni, in tutta l'opera di Friedkin, possono fornire uno spunto per rilanciare altre chiavi di lettura rispetto all'argomento in questione. La prima riguarda il cosiddetto spirito del tempo che nel cinema del nostro è pregnante, non tanto nel ricorso a specifici riferimenti ideologici o nei possibili agganci ad avvenimenti e figure rilevanti della cronaca coeva, quanto piuttosto nel  coagulo di ossessioni e di pulsioni autodistruttive che appartengono a ogni centimetro di pellicola girata e che rispecchiano, quelle sì, i sentimenti e le atmosfere che si respirano negli Stati Uniti dell' epoca post-kennedyana, costretta a fare i conti con il pessimismo prodotto dal naufragio delle utopie sessantottine e da una serie di eventi - la guerra del Vietnam, lo scandalo Watergate etc. - che minano la fiducia dei cittadini nei confronti del sistema. La seconda, invece, è relativa a un segno autoriale che privilegia il cinema di genere più classico - il thriller, il noir, l'horror, il cop movie - e che si esprime nella messa in discussione della centralità del protagonista principale, la cui positività è sabotata da una condotta morale irrimediabilmente in bilico tra riscatto e perdizione e dalla contiguità esistente tra bene e male.

Il braccio violento della legge

thefrenchconnectionIl 1970 è l'anno della svolta. Per arrivarci Friedkin ha dovuto bruciare le tappe con una rincorsa che se da una parte gli ha permesso di imparare il mestiere sul campo, colmando quelle lacune tecnico- teoriche a cui nessuna scuola o università aveva ovviato - al contrario dei vari Coppola, Scorsese e De Palma - dall'altra, come abbiamo visto, lo aveva esposto in prima persona alle ricadute negative della sua inesperienza. Quando nel 1968 l'amico e produttore Phil D'Antoni - reduce dal successo di "Bullit" - gli chiede di dare un'occhiata al libro scritto dall'autore di "Berretti Verdi", Robin Moore, Friedkin è ancora un regista inespresso e di conseguenza alla disperata ricerca dell'occasione che gli permetta di invertire questa tendenza. Seppur poco stimolante dal punto di vista stilistico, la storia che vi è raccontata colpisce l'attenzione del regista perché la vicenda dei detective newyorkesi Eddy Egan e Sonny Grosso e della task force di poliziotti capaci di mettere le mani sul più grosso carico d'eroina mai giunto negli Stati Uniti sembra sposarsi con quelli che sono i punti fermi del suo modo di intendere il cinema, offrendogli la possibilità di lavorare su un materiale narrativo ricavato da fatti realmente accaduti e quindi adatto al taglio realistico presente fin dagli inizi nella forma dei suoi lavori e ancora di immergersi in un territorio, quello della lotta alla criminalità, che Friedkin conosceva bene non solo perché di questo si occupò in uno dei suoi primi documentari - "The Thin Blue Line" - ma per il ricordo dello scandalo che colpì la sua famiglia quando negli anni Trenta lo zio poliziotto, integerrimo e stimato, fu accusato di essere colluso con alcuni dei boss più influenti della mafia di Chicago. Oltre al fatto che le figure di Egan e Grosso, con i loro modi al limite del lecito, gli offrono su un piatto d'argento la chance di ragionare sul sottile discrimine che separa ciò che giusto da ciò che è sbagliato. La volontà di realizzarne un film insieme a D'antoni deve però fare i conti con un limbo durato circa due anni, durante i quali i due si trovano più volte sul punto di rinunciare al progetto per mancanza di finanziatori, e, per ciò che riguarda Friedkin, nel frattempo costretto a vivere con l'assegno di disoccupazione, c'è da affrontare il lutto familiare derivato dalla scomparsa di quella madre che, dietro le quinte ma in maniera costante, era stata il suo unico punto di riferimento.

connectionSalvate in extremis dal risicato budget - un milione e mezzo di dollari - che una Twenty Century Fox sull'orlo del fallimento gli mette a disposizione, le riprese de Il braccio violento della legge meriterebbero un capitolo a sé stante per i tanti colpi di mano a cui il regista dovette far fronte per portarle a compimento. Di certo è che le vicende personali del regista unite allo stress accumulato per arrivare a questo punto, costituiscono parte dell'energia nervosa che si vede nel film e che Friedkin traduce nell'adrenalina che gli permette di tenere alta la tensione degli attori - in particolare di Gene Hackman, che si sente inadeguato e che per questo vorrebbe abbandonare il set - e di rilanciare in termini visivi - da cui il ritmo sincopato e i continui cambi di passo - i motivi della narrazione completamente incentrata sui pedinamenti e gli appostamenti messi in opera dai detective Doyle e Russo - personaggi in cui il regista trasfigura i caratteri di Egan e Grosso - nei confronti di Alain Chenier, il trafficante di droga marsigliese giunto in America al seguito della partita che sta per essere venduta ad alcuni membri della mafia locale.
Prodotto da una major ma girato come un film indipendente per il controllo e la libertà con cui Friedkin opera sulle varie componenti del suo lavoro, "Il braccio violento della legge" spinge in avanti le istanze di un genere, il poliziesco, già in subbuglio per le innovazioni apportate da una serie di pellicole di cui citiamo tra le più significative il Dirty Harry di Don Siegel e "New Centurions" di Richard Fleischer, che avevano introdotto alcuni scarti decisivi rispetto al passato attraverso un più crudo realismo dei contenuti da cui conseguiva l'innalzamento della scorrettezza politica tipica della figura del rogue cop e soprattutto una visione del contesto urbano e cittadino che assorbiva - e qui ci riferiamo soprattutto a Siegel - con i dovuti rimaneggiamenti - contrazione dello spazio e mancanza di orizzonti - le caratteristiche della nuova frontiera che erano appartenute al western. Friedkin, infatti, esaspera la verità di ciò che racconta, girando con le tecniche del documentario - camera a spalla, luci naturali, riduzione di ogni forma di vincolo precostituito alla spontaneità e all'improvvisazione - che unite all'energia di cui dicevamo ribaltano l'assunto antispettacolare del quotidiano, esaltato altresì dal regista attraverso la valorizzazione dei cosiddetti tempi morti che, nelle sue mani, non disperdono nulla della tensione che troviamo nel resto della storia.
Percorso da una rabbia e da una frenesia che il regista riversa sullo schermo con improvvise accelerazioni cinetiche, dando vita a una delle scene di inseguimento metropolitano più avvincenti e spericolate di sempre - e per la cui realizzazione Friedkin arriva  a rischiare l'incolumità sua e di chi gli sta accanto - Il braccio violento della legge, grazie al flusso inarrestabile delle sue immagini e al fatto di concentrarsi intorno allo spazio vitale dei personaggi (altrettanto claustrofobico anche quando si tratta di mostrare l'unico inserto dedicato al privato di uno di essi - e qui facciamo riferimento alla scena in cui Doyle al termine di una notte brava viene tirato giù dal letto da Russo -), si dimostra capace di lavorare anche sul piano dell'inconscio, quando attraverso la cronaca di un'ossessione che ad un certo punto diventa fine a se stessa - e in questo senso sarà indicativa la sequenza finale che almeno dal punto di vista visivo esclude la catarsi e non porta a nessuna conclusione - mette in scena la psicosi di una nazione costretta dall'evolversi dei tumulti politici e sociali a fare i conti con i propri demoni interiori.

L'esorcista

exorcistGli incassi al botteghino e il trionfo degli Oscar riportati dal film, al di là degli aspetti di tipo materiale che ne derivano, sono la dimostrazione della capacità del regista di restituire sotto forma di cinema gli impulsi provenienti dal proprio tempo. Prendendo in considerazione quanto succedeva ad esempio in campo artistico, possiamo sbilanciarci affermando che Il braccio violento della legge nella sua forma impressionista riprende quello spesso e volentieri sporco, distorto, o, per ironico converso, mollemente delabrè, tappeto sonoro con il quale qualche anno prima alcuni degli esponenti più importanti del panorama musicale avevano tentato di restituire la sostanza del reale. E sempre utilizzando la musica come metro di paragone - e senza dimenticare la rivoluzione operata in campo letterario dal movimento della  beat generation - constatare come anche dal punto di vista dei contenuti il lungometraggio di Friedkin sia a suo modo la versione in immagini delle strofe di "Heroin" dei Velvet Underground  con la fine delle utopie sessantottine riassunta dai versi della strofa in  parentesi -  When I put a spike into my vein, and I'll tell you, things aren't quite th same. When I rushing on my run, and I feel just like Jesus' son....and everybody putting everybody else down, and all the dead bodies piled up in mounds. ‘Cause when the smack begins to flow, then I really don't care anymore - che prefigurava le conseguenze di un uso indiscriminato delle sostanze stupefacenti, riassunta dal senso di morte che pervade le strade newyorkesi prese d'assalto dagli agenti della narcotici impegnati a contrastare il proliferare della tossicodipendenza.
Sono però i riconoscimenti ricevuti dall'Academy che assegnano a Il braccio violento della legge ben cinque premi Oscar tra cui quello al miglior film, alla regia e al migliore attore protagonista, a convincere i responsabili della Warner Bros. ad assegnargli la direzione de "L'esorcista", fortemente voluta da William Blatty, autore dell'omonimo best sellers e della sceneggiatura che ne era stata ricavata ed invece osteggiata dai responsabili della produzione dubbiosi sulle capacità del regista di poter controllare un progetto così rilevante. A parte le dimensioni del budget, di molto superiori a quelli di cui fin qui aveva potuto disporre e il prestigio di un datore di lavoro che gli dava la possibilità tra le altre cose di ingaggiare le migliori star del momento, si trattava in questo caso di conciliare la delicatezza dell'argomento affrontato, riguardante appunto il tema delle possessioni demoniache, con la natura di un prodotto che aveva le caratteristiche di un blockbuster ante litteram - perché il termine verrà coniato a partire dagli exploit commerciali dei vari Lucas e Spielberg - per il dispendio di mezzi e per la sofisticata tecnologia degli effetti speciali utilizzati a rendere credibili le molteplici manifestazioni del maligno previste dal copione.

In questo senso L'esorcista (The Exorcist, 1973) propone a Friedkin una duplice sfida. La prima, forse la più scontata ma non meno importante per il contesto in cui si svolge, è quella di confermarsi un regista commercialmente affidabile, mentre la seconda, assai più vitale per le ripercussioni sul piano artistico, riguardava un modo di fare cinema in cui l'estetica delle immagini doveva esaltare la verità dei contenuti, e che, in una vicenda ad alto tasso di irrazionalità, rischiava di farsi inebriare dalla spericolatezza di un assunto disposto a sostenere l'esistenza del male come essere vivo e spirituale, pervertito e pervertitore, per dirla con le parole pronunciate da Paolo VI mentre erano in corso le riprese del film e che per la prima volta rompevano il muro di silenzio imposto dalla Chiesa in merito all'argomento. A tal proposito vale la pena ricordare la trama del film proprio per sottolineare come il climax della vicenda, costituito dal rito effettuato da Padre Merrin e Padre Karras per scacciare il demone che ha invaso il corpo della piccola Regan, altro non è che la trasposizione di un episodio accaduto nel 1949 e a suo tempo documentato dalle autorità ecclesiastiche che nondimeno evitarono di pronunciarsi in merito ai contenuti delle memorie scritte dai prelati che eseguirono l'esorcismo. Un fatto di cronaca che Friedkin salvaguardia in termini di realismo e su cui innesta il casus belli, ovvero la crisi di coscienza di Damien Karras che dubitando della propria fede ed essendo costretto ad appellarvisi per cercare di salvare la bambina permette al film di entrare in dialettica con il suo orizzonte narrativo rappresentato dal tema della fede inteso come mistero e fonte di crisi, verso il quale convergono non solo le divergenze tipologiche dei servi di Dio - con le fragilità dogmatiche e personali di Karras a fare da contraltare allo stoicismo militante del più anziano collega, completamente identificato dalle procedure del suo ufficio, anteposto a qualsiasi tipo di convenevolo, come si vede nella sequenza del suo arrivo a casa MacNeil - ma anche una visione del male che, lungi dall'essere spiegato o inquadrato all'interno di una serie di regole laiche e religiose, viene dato per scontato e mai discusso, accettato così com'è, anche quando - al termine del racconto, peraltro concluso in quel modo ambiguo e aperto per la difficoltà di considerare in termini positivi il sacrificio di Karras - ci si aspetterebbe che lo fosse, per rafforzare la catarsi prodotta dagli esiti dell'esorcismo.
Da qui la forza del film, che spaventa e fa paura all'America e non solo, proprio perché ha il coraggio di non offrire alcun rifugio teorico allo shock prodotto dalla vista del martirio al quale è sottoposto il corpo di Reagan, la cui orribile metamorfosi comprensiva di un turpiloquio è reso ancora più drammatico dal fatto di essere associato a un personaggio che nelle medesime condizioni  il cinema classico non si sarebbe mai sognato di tirare in ballo. Friedkin lo fa,  soprattutto riesce a mostrarlo sullo schermo in virtù - negli Stati Uniti il film esce con un visto di censura che non ne compromette la commerciabilità - di una correttezza filologica e dogmatica che gli permette d'essere estremo senza dare modo alle istituzione civili e religiose di aver qualcosa di ridire.

Il salario della paura

sorcererSe la fama ottenuta con il successo de Il braccio violento della legge e la successiva vittoria degli Oscar colse tutti in contropiede a partire dallo stesso Friedkin, con L'esorcista la situazione è ribaltata, perché questa volta l'uscita del film viene preceduta da un'aspettativa che per gli addetti ai lavori coincideva con la curiosità di verificare le qualità del regista, atteso alla classica prova del nove con un lavoro che, tra le altre cose, rischiava di urtare la sensibilità dell'opinione pubblica. In realtà L'esorcista si rivela un campione d'incassi in ogni angolo del mondo - 232 milioni di dollari negli Stati Uniti, oltre 400 al di fuori dei confini - ma non solo, perché oltre ad ottenere ben 10 nomination nell'edizione del 1974 - vincendo quello per la migliore sceneggiatura non originale e per il sonoro - riesce a diventare un fenomeno culturale e cinematografico per le proporzioni con le quali il tema del film riuscì a influenzare il subconscio collettivo, scatenando dibattiti e imitazioni.
Questo per dire che quando inizia le riprese de Il salario della paura (Sorcerer, 1977),  Friedkin è un regista che in virtù del supporto dei produttori può permettersi di scegliere il progetto che preferisce senza limitazioni artistiche e di budget. Il dettaglio è importante perché permette di capire in che modo l'idea di rifare un classico come "Vite vendute" di Henry Georges Clouzot si identifichi con la possibilità di un regista di inseguire le proprie ossessioni anche quando ciò vuol dire imbarcarsi in un progetto complicato dalle difficoltà di girare in un paese - la Repubblica Dominicana - e in un ecosistema - la foresta pluviale - che non garantiscono le migliori condizioni logistiche e ambientali e che ancora, addirittura prima di iniziare a girare, impediscono al regista di ingaggiare gli attori prescelti - tra gli altri Marcello Mastroianni e Steve McQueen - spaventati dalla particolarità del contesto lavorativo rivelatosi più difficile del previsto a causa del prolungarsi delle riprese rese impervie un po' per il moltiplicarsi delle vicissitudini, un po' per colpa dell'autore, deciso a cavalcare l'onda della propria ostinazione anche quando la situazione richiederebbe di rinunciarvi. Come accade per la sequenza dell'attraversamento del ponte sospeso sul fiume in cui il perdurare della siccità obbliga Friedkin a ricostruire il set della scena negli angoli più sperduti del paese, costringendo la produzione a sborsare tre milioni di dollari per soli 10 minuti di girato.
La storia, ambientata in un villaggio del Sud America, vede in primo piano la disperata impresa di quattro reietti ingaggiati da una società petrolifera come autisti dei camion con i quali dovranno  recapitare l'esplosivo necessario a spegnere l'incendio di pozzi sabotati dai terroristi.  A pareggiare il rischio di saltare in aria, connesso con cattive condizioni della strada da percorrere, c'è la speranza di guadagnare i soldi necessari a rifarsi una nuova vita in un posto migliore rispetto a quello dove si sono rifugiati per sfuggire alle conseguenze dei propri misfatti. Riassunta in questo modo la trama appare praticamente identica a quella originale ma rispetto al prototipo Friedkin aggiunge quanto basta per appropriarsi del film, facendone un'opera a sua immagine e somiglianza. Cosi, a parte l'inserimento di un prologo che permette al regista di fissare i motivi di un pessimismo giustificato dai fatti di sangue di cui si macchiano i protagonisti e che nella volontà di fare luce sul privato degli stessi testimonia un approccio meno politico della vicenda (si lasciano indietro, ad esempio, gli aspetti legati alla denuncia del sistema capitalistico a cui Clouzot allude nei passaggi dedicati al disprezzo dei padroni nei confronti dei propri salariati), per approfondire con maggior convinzione le psicologie dei personaggi, "Il salario della paura" è il distillato del cinema di Friedkin, caratterizzato com'è da una tensione in cui le regole del genere vengono rimescolate da un approccio che si alimenta di spinte opposte nascenti dallo scarto tra l'adesione alla realtà, ottenuta con il taglio semi documentaristico delle riprese, e il senso di estraneità prodotto dalle sonorità elettroniche dei Tangerine Dream (reiterata variante espressiva dopo i fasti planetari delle "Tubular Bells" de L'esorcista), decisive queste ultime anche in senso narrativo per la capacità di sublimare e dare respiro a una narrazione altrimenti schiacciata dal peso della propria agnizione. E anche laddove si capisca la disaffezione del pubblico nei confronti di un film che si rivela ostico in ragione di un'empatia a cui il regista consapevolmente rinuncia con la scelta di non smussare - diversamente dal cineasta francese - la spigolosità' dei personaggi, e anzi accentuandola con interpreti che salvo Roy Schneider risultano del tutto sconosciuti al pubblico americano, ciò non basta a spiegarne lo scarso appeal commerciale, se non fosse che il trionfo di "Star Wars" uscito  nel 1977 in concomitanza con "Il salario della paura" è il segnale di un cambiamento che di lì a poco e all'insegna dell'ottimismo sociale suscitato dall'attenuarsi delle criticità evidenziatosi nel decennio precedente, stenterà a riconoscersi nei tormenti e nelle cupezze tipiche della New Hollywood.

Pollice da scasso 

scassoLa conclusione dell'anno appena trascorso - parliamo del 1977 -  non è delle più felici perché il film poco dopo la sua uscita viene tolto dalle sale senza aver recuperato la cifra investita, mentre il regista deve fare i conti con le tossine accumulate durante la lavorazione, che oltre al dispendio di energie fisiche e mentali ne ha messo a repentaglio la salute a causa della malaria contratta durante la permanenza in Sud America. Una sconfitta su più fronti che però non impedisce a Friedkin di guardare avanti e di accettare la proposta di Dino De Laurentis che gli offre di dirigere un copione a cui aveva lungamente lavorato l'amico John Frankenheimer. Sceneggiato dal fido Wally Green che per Friedkin aveva firmato lo script del film precedente, Pollice da scasso (The Brink's Job, 1978)  è ispirato a una delle rapine più famose della storia americana messa a segno nella Boston degli anni Cinquanta ai danni della prima compagnia portavalori del paese, il cui eco si diffuse tra la gente in maniera così perentoria da spingere Edgard J. Hoover a mettere in piedi una task force nel tentativo di assicurare i colpevoli alla giustizia e quindi di porre fine alla leggenda che stava nascendo intorno agli esecutori del formidabile colpo. Rispetto alla filmografia del regista, "Pollice da scasso" costituisce un'eccezione, non tanto nella forma, come sempre volta a restituire con il massimo realismo la ricostruzione degli ambienti e delle atmosfere in cui si svolge la storia - eccellente è in questo senso la scenografia di Dean Tavoularis, antico sodale di Francis Ford Coppola - quanto piuttosto nei toni da commedia con cui Friedkin decide di raccontare le imprese dei suoi personaggi, la cui improntitudine scalcagnata e cialtrona ricorda da vicino quella dei soliti ignoti monicelliani a cui il regista dichiaratamente si ispira. Interpretato da un cast di tutto rispetto che può vantare tra gli altri Peter Falk nel ruolo di Tony, il capo della banda, e nei ruoli di contorno di Peter Boyle, Warren Oates e Gena Rowlands, il film rispecchia nella leggerezza della narrazione il momento del regista che, ancora in  convalescenza e bisognoso di riprendere fiato, si accontenta di mettere in scena un heist movie sui generis, in cui la logica del marchingegno criminale, con la messa a punto e l'esecuzione del piano da portare a termine, non è la conseguenza di un metodo razionalmente eseguito bensì il risultato di quell'arte di arrangiarsi che è parte in causa delle origini italo americane di Tony Pino, a cui Falk regala le movenze e l'estemporaneità del personaggio televisivo che proprio in quegli anni lo avevano reso celebre (il ten. Colombo) . Se "Il salario della paura" era stato  motivo di massima esposizione per il regista, "Pollice da scasso" da questo punto di vista si colloca dalla parte opposta, rappresentando una sorta di tregua dagli eccessi che nel bene e nel male avevano animato il cinema del nostro. 

Cruising

cruisingLe polveri restano bagnate quel tanto che basta per ricaricare le pile e nel giro di due anni Friedkin è di nuovo sulla ribalta con quello che si rivelerà il suo lavoro più discusso. A incendiare gli animi è la scelta di ambientare Cruising (Cruising, 1980) negli ambienti sadomaso del lower east side newyorkese, idea  alla quale si oppone con prolungato dissenso la comunità omosessuale, spaventata all'idea di venire associata allo stile di vita e alle pratiche sessuali descritte nella sceneggiatura che il regista ricava mettendo insieme diverse fonti che comprendono alcuni articoli del Village Voice - dedicati alla misteriose morti di alcuni omosessuali avvenute nel West Village - e l'omonimo libro scritto da Gerald Walker utilizzato come spunto per costruire le premesse dell'indagine poliziesca che vede il poliziotto Steve Burns interpretato da Al Pacino infiltrarsi sotto falso nome nei club e nei locali dove potrebbe aggirarsi il serial killer che sta uccidendo negli ambienti gay sadomaso di New York. Una disapprovazione che accompagna l'intera durata delle riprese, osteggiate da dimostrazioni che disturbano la lavorazione con sit-in e lanci d'oggetti.
Se a questo aggiungiamo i tagli delle scene più scabrose e un secondo montaggio a cui Friedkin fu obbligato dalla commissione di censura per poter far uscire la pellicola nelle sale, il rischio più forte è quello di perdere di vista il reale valore, condizionato anche in sede critica, dalle divergenze tra Friedkin e Pacino, con quest'ultimo che sentendosi tradito dalla nuova versione del film si rifiutò di seguirne il lancio, evitando negli anni a venire di menzionarne persino la sua partecipazione. In realtà, le prese di posizione ideologiche e l'ondata di diniego che scaraventano Cruising nell'elenco delle pellicole da mettere al rogo, altro non sono che il risultato di quella scorrettezza politica che fin dal principio è stato il marchio di fabbrica di un cinema che mai come ora si ritrova a fare i conti con se stesso e con un senso di inadeguatezza che lo chiama in causa sia come esponente di una stagione cinematografica - quella della cosiddetta Nuova Hollywood iniziata nel 1968 con "Gangster Story" - oramai esaurita e di cui Cruising, uscito nel 1980, rappresenta una propaggine arrivata fuori tempo massimo, sia come testimone di un periodo storico su cui il film di Friedkin concorre a mettere una pietra tombale con la rappresentazione di un mondo in cui le prospettive ampie e colorate che erano state dellestooges solari città dell'ovest durante l'epoca delle utopie sessantottine si riducono alle concentrazioni e agli intrighi oscuri delle metropoli dell'est, dove le stesse vengono inghiottite in un vortice di oscurantismo pessimista e violento (No fun to hang around, feelin' the same old way. No fun to hang around, freaked out for another day - The Stooges). Uno strappo che "Cruising" rende evidente anche a livello estetico, con le fogge comode leggere, non di rado vistose - a simboleggiare un'istintiva apertura, curiosità, disponibilità corrispondente a una visione rilassata, fiduciosa delle e nelle cose - sostituite da tessuti e linee più rigide e monocromatiche che, dagli stivaletti squadrati alle giacche di pelle più o meno borchiate ai cappellini militari utilizzati nei ritrovi frequentati da Burns, rendono gli abiti una sorta di corazza da opporre a un ambiente nel frattempo diventato insicuro e ostile. Sul piano dei contenuti, Cruising fa segnare un altro passo in avanti nella poetica del regista che infatti si arricchisce di ulteriori valenze psicanalitiche, giustificate dalla scoperta ambiguità, non solo sessuale, del protagonista e che gli permettono di mettere a segno uno dei finali più belli della sua cinematografia grazie al montaggio parallelo che nell'identificazione tra il primo piano del volto di Burns riflesso sullo specchio e il campo lungo della fidanzata con indosso il travestimento utilizzato dal detective per camuffare la propria identità, porta a conclusione il dualismo tra la componente femminile e quella maschile, con la prima uscita vincitrice dalle pulsioni di morte con cui gli uomini avevano tentato di soffocarla nel corso della vicenda (Take a drag or two, run, run, run. Gipsy death and you. Tell you watcha do. Margherita Passion had to get her fish. She wasn't well, she was gettin' sick  - The Velvet Underground). C'è poi la questione legata alla presenza di Pacino che per Friedkin, abituato a non utilizzare star hollywoodiane, potrebbe risultare ingombrante, dato il rischio, tutt'altro che ipotetico, di venire cannibalizzato nella propria ispirazione dall'immaginario dell'attore italo-americano, e che invece si rivela decisiva nel rendere la metamorfosi del personaggio attraverso un concorso di fattori che rimandano ad estetiche che in campo musicale avevano trovato qualche tempo prima una figura di riferimento nel Lou Reed  di "Transformer" di cui lo Steve Burns di Pacino sembra una sorta di alter ego, e soprattutto in quelle tecniche d'immedesimazione tipiche dell'actor's studio che gli consentono di diventare il riflesso di quegli abissi dell'anima esplorati dal cinema friedkiniano nel corso dell'interno decennio.

Colpire al cuore

Per i registi della Nuova Hollywood l'avvento degli anni Ottanta costituisce qualcosa di più di un semplice dato cronologico perché, come abbiamo accennato, i mutamenti storico-sociali sfociati nell'elezione alla presidenza degli Stati Uniti del candidato repubblicano Ronald Reagan,  segnano l'inizio di una nuova fase della storia americana caratterizzata da sentimenti di ottimismo e di fiducia nelle umane sorti che prende in contropiede il cinema controverso e spigoloso di quel gruppo di cineasti che si era affermato a partire dalla fine degli anni sessanta. A cambiare non sono solo i gusti del pubblico, poco propenso a lasciarsi entusiasmare dalle storie dei dropout ribelli e tormentati raccontati nel decennio precedente, quanto piuttosto il sistema produttivo che dopo la crisi degli anni d'oro torna ad essere monopolizzato dal potere economico della grandi major e da una tipologia di pellicole - i cosiddetti blockbuster - che nascono come prodotti di consumo ad alto tasso di investimento e che in quanto tali sono obbligati a incassare cifre astronomiche per ripagare i costi d'esercizio necessari alla loro realizzazione. Va da sè che un tipo come Friedkin, e come lui molti altri, sia costretto a segnare il passo davanti a un sistema che privilegiando i numeri del box office non sa più cosa farsene di cineasti che pure continuano ad avere lo smalto dei tempi migliori  e che dimostrano - e "Vivere e morire a Los Angeles" ne è la prova - di riuscire a fare la differenza rispetto alla qualità media dei film girati nello stesso periodo. A venire meno è l'incoscienza della gioventù e con essa una sfrontatezza confinante spesso con l'arroganza, certamente fiaccata, quest'ultima, dall'infarto che colpisce il regista subito dopo l'uscita nelle sale di Cruising.

Vivere e morire a Los Angeles    

losangelesProdotto in maniera indipendente ma distribuito dalla MGM, e Vivere e morire a Los Angeles (To Live and Die in L.A., 1985) è il progetto con cui Friedkin tenta di rilanciare la propria carriera. Prima di questo, a dire la verità, c'era stato un altro tentativo miseramente fallito per l'idiosincrasia nei confronti di un genere, la commedia, che "Pollice da scasso" aveva mostrato non essere propriamente nelle corde dell'autore, il quale però mosso dalla voglia di tornare in pista, nel 1983 accetta di girare L'affare del secolo (The Deal of the Century, 1983), approfittando di un cast - Chevy Chase, Sigourney Weaver e Gregory Hines - che però non riesce a risollevare le sorti di un lungometraggio destinato a non lasciare traccia di sé. Non è un caso quindi che nel giocarsi le proprie credenziali Friedkin si affidi alla specialità della casa, decidendo di realizzare una crime story tratta dalle memorie di Richard Petievich, ex agente dei servizi segreti e  scrittore dell'omonimo libro da cui il regista ricava in sole tre settimane la sceneggiatura della storia che andrà a realizzare. Come già capitato ne "Il braccio violento della legge", anche questa volta ad essere protagonista sono la metropoli che fa da sfondo alla vicenda e la caccia all'uomo che vede l'agente Richard Chance e il collega John Vukovich impegnati a incastrare il falsario Eric Master per vendicare la morte del socio di Chance, ucciso dal malvivente a pochi giorni dalla pensione. Ma non solo questo, perché del film che aveva trionfato agli Oscar "Vivere e morire a Los Angeles" mantiene soprattutto l'energia cinetica  e quella forza nervosa che a suo tempo avevano fatto gridare al miracolo cinematografico. E ancora, la capacità di organizzare il racconto su più livelli di narrazione, con quello principale che si occupa di portare avanti gli intrecci della detection che si interseca con un discorso più profondo, relativo ai temi esistenziali che sono cari all'autore, come il sottile scarto tra bene e male incarnato dalla figura di Chance disposto a servirsi della legge e delle persone  (si veda, ad esempio, l'informatrice e amante trattata senza un minimo d'empatia)  pur di raggiungere i propri obiettivi, oppure il senso di solitudine incarnato dalla visione di un paesaggio urbano che nell'impossibilità di incontrare l'altro senza recargli offesa diventa l'espressione di un' incomunicabilità nutrita di quel perenne movimento che qui come altrove assomiglia a una fuga da sé stessi e dagli altri.
Non mancano neppure stilemi imprescindibili, quali l'inseguimento in macchina che Vivere e morire a Los Angeles ci propone in una sorta di remake dell'originale del '71, come pure la presenza di identità instabili che sull'esempio di quanto succedeva ne L'esorcista e in Cruising sono pronte a trasformarsi in qualcos'altro, come capita all'agente Vukovich che nella sequenza finale diventa letteralmente Chance sia nei modi di vestire che di comportarsi. Certo è che Friedkin non fa nulla per sintonizzarsi con lo spirito del tempo, innervando la storia di un pessimismo e un senso di un'alienazione che stridono con le tendenze edonistiche di quegli anni. Per non parlare della distanza che separa i rogue cops di Friedkin dai coevi poliziotti di Beverly Hills che sbancano le classifiche a forza di buon umore e colpi a salve. In questo senso appare emblematica la presenza di William Petersen, protagonista un anno dopo di quel "Manhunter" di Michael Mann che insieme a Vivere e morire a Los Angeles costituirà tra gli esempi più alti del genere thriller noir e che ancora più del film di Friedkin non sarà premiato dalle scelte degli spettatori. 

Assassino senza colpa

rampage_01Vivere e morire a Los Angeles può essere a tutti gli effetti considerato il canto del cigno di Friedkin perché la tiepida accoglienza ad esso riservata è, almeno sul piano della popolarità e del potere contrattuale nei confronti delle major, il punto di non ritorno che prelude ad una fase artistica caratterizzata da progetti in cui il comparto produttivo e ciò che ne consegue in termini di promozione e visibilità, non può più contare sul sostegno di grandi consorzi finanziari. A queste condizioni fare cinema prima ancora che una forma d'espressione artistica diventa uno strumento di sopravvivenza personale, in cui ad essere messo in discussione è in primis lo status d'autore del regista. Infatti, nel lungometraggio successivo, Friedkin ribalta le prospettive del suo cinema fin li così concreto e volto all'azione subordinandolo, in Assassino senza colpa (Rampage, 1987) all'apparato teorico da cui scaturisce la sceneggiatura da lui stesso firmata sulla base dell'omonimo libro di William. P Wood, ex procuratore distrettuale che romanza il caso di un giovane pluriomicida denominato il vampiro di Sacramento a causa del rituale con cui l'assassino è uso bere il sangue delle proprie vittime.
Ciò che interessa a Friedkin, non è tanto mettere in scena l'ennesima caccia al serial killer  di turno, quanto piuttosto indagare nella mente del colpevole allo scopo di argomentare su base scientifica e legale la tesi per cui l'infermità mentale possa essere riconoscibile e quindi discussa in termini durante la fase processuale. In particolare, dietro la crisi del procuratore distrettuale Anthony Fraser che da convinto oppositore della pena di morte lotta con tutti i mezzi a sua disposizione per condannare l'omicida Charlie Reece, è possibile rintracciare il punto di vista del regista che, lasciatosi indietro le posizioni liberali e garantiste dimostrate ai tempi di "The People vs Paul Crump", è nel frattempo diventato fautore  - come avremo modo di vedere più avanti nel discusso Regole d'onore (Rules of Engagement, 2000) - di un conservatorismo che non lascia spazio ad alcun tipo di ripensamento. Ed è proprio la preponderanza del punto di vista personale su quello della storia a fare di "Assassino senza colpa" un film irrisolto, incapace com'è di scegliere tra il dramma legale a cui Friedkin dedica buona parte della pellicola  e il thriller tout court, esibito alla massima potenza in alcune scene che per certi versi sembrano anticipare scenari successivamente proposti da "Il silenzio degli innocenti" di Jonathan Demme ma che sostanzialmente risulta subalterno all'impianto a tesi su cui il film è costruito.

L'albero del male  

guarsdianProdotto da Dino De Laurentis, Assassino senza colpa rimane coinvolto nel fallimento della società del tycoon italiano ed esce solo nel 1990 grazie alla Miramax dei fratelli Weinstein che si innamorano del film e decidono di distribuirlo nelle sale americane con un nuovo montaggio voluto dal regista per accentuare - con un finale diverso da quello che vedeva il suicidio in carcere dell'assassino - il senso di pessimismo derivato dal riconoscimento dell'infermità mentale di Reece previsto dalla versione originale.  E' in questo clima d'attesa e d'incertezza che nasce L'albero del male (The Guardian,1990), horror che nelle aspettative degli appassionati - e forse anche in quelle del regista - dovrebbe rilanciarne la fama di maestro della paura che dopo il successo de L'esorcista ne accompagna le gesta. 
Scritto insieme a Steven Volk e Dan Greenburg  e tratto dal romanzo di quest'ultimo,  Nanny, L'albero del male in realtà è quanto di più lontano si possa immaginare dal film del 1973 che sappiamo nasceva senza l'intento di ricalcare le regole del genere che invece Friedkin qui ricerca nella volontà di puntare su una storia in cui tutto è conclamato, a cominciare dalla sinistra presenza della bambinaia che si prende cura del figlioletto di Phil e Kate, i coniugi che assieme a lei sono protagonisti della vicenda, alla visione di un mondo in cui la minaccia è attribuita a vicissitudini esistenziali ed elementi del paesaggio a cui il cinema horror assegna spesso il compito di mettere a repentaglio la vita delle persone: ci riferiamo - in particolare - all'accostamento tra la splendida casa in cui all'inizio della storia si trasferisce la giovane coppia e la foresta circostante, depositaria di una serie di entità malvagie pronte a manifestarsi come estensione dell'albero del titolo a cui la sinistra baby sitter sacrifica, in veste di sacerdotessa del culto silvestre, i dolci pargoletti. Rispetto a "L'esorcista", viene meno soprattutto la volontà di fare dei personaggi delle figure a tutto tondo capaci, con la propria indole, di entrare in dialettica con il resto della vicenda, e non semplici figure di un ingranaggio messo a punto dal regista. Questo però non vuol dire che "L'albero del male" sia un prodotto disprezzabile sotto il profilo cinematografico perché, oltre a regalarci sequenze da brivido come quella dei cani che ad un certo punto assediano un amico dei protagonisti costringendolo a sperare che le mura della propria abitazione siano sufficienti a salvarlo dalla vendetta del branco, a fare la differenza, rispetto alla media dei lungometraggi dedicati al genere in questione, è soprattutto la messinscena che Friedkin organizza sul contrasto tra antico e moderno che scaturisce dal confronto tra il fashion design degli interni della villa e le sublimi sinuosità della contesto naturale in cui essa è immersa. Inoltre, da un uso espressionistico della fotografia, che nel contrasto tra luci e ombre proietta letteralmente addosso ai personaggi i presagi delle sventure che li attendono. Ciò nonostante "L'albero del male" scontenta un po' tutti, arrivando a far dire al regista, deluso dagli esiti del suo lavoro, di averlo girato in uno stato di sonnambulismo e successivamente addirittura condannandolo alla damnatio memoriae scaturita dalla volontà di cancellare il ricordo dell'infelice esperienza.

Basta vincere

bluechipsSe è vero che Friedkin a partire dalla metà degli anni Novanta, a causa dello sfortunato andamento   dei suoi film, si rassegna ad accettare le proposte dalla Paramount che gli commissiona uno dietro l'altro "Basta vincere" (Blue Chips,1994) - girato nel 1993 e successivamente Jade (Jade, 1995) realizzato nel 1995, non c'è dubbio che entrambi i lavori pur essendo il frutto di idee altrui presentino comunque diversi particolari riconducibili ad argomenti, temi e situazioni a cui la filmografia del regista non è del tutto estranea. Il contesto sportivo in cui si svolge la storia di "Basta vincere", per esempio, ambientata nel mondo della basket universitario e in particolare in quello che ruota intorno al campionato nazionale di categoria, permette a Friedkin di coniugare da un lato la passione per la pallacanestro che negli anni Settanta - nel momento di massima apoteosi della sua carriera - lo avevano visto sul punto di acquistare la squadra dei Boston Celtics, dall'altro, di tornare ad occuparsi di un ambiente, quello sportivo, che il regista conosceva molte bene per averne raccontato dinamiche e protagonisti in uno dei documentari realizzati per conto della Wolper dal titolo Pro Football - Mayhem on a Sunday Afternoon" (Pro Football - Mayhem on a Sunday Afternoon, 1965) che oltre ad acquisire la tecnica necessaria a restituire l'agonismo e la bellezza del gesto atletico, gli aveva permesso di cogliere il punto nodale dell'intera questione che risiedeva in una cultura che non prevedeva alternative all'ottenimento della vittoria finale. Esattamente quello che succede a Pete Bell, celebrato allenatore della NCAA che ad un certo punto della propria carriera si ritrova a fare i conti con una serie di fallimenti sportivi che lo inducono a infrangere le regole convincendo alcuni dei talenti migliori del paese ad entrare nel suo team previo pagamento sotto banco di denaro ed altri benefit.
Scritto da Ron Shelton specializzato in questo genere di film per aver diretto titoli come "Bull Durham" e "Chi non salta bianco è", pur nella solidità delle interpretazioni, a cui concorrono Nick Nolte nella parte del protagonista e, nei ruoli degli cestisti, alcuni giocatori di professione tra cui figura anche il leggendario Shaquille O Neal, come pure nel mestiere con cui il regista restituisce i momenti agonistici, Basta vincere non riesce a fare la differenza come dovrebbe quando si tratta di far vedere l'altra faccia del successo a tutti i costi rappresentata dal rimorso e dal senso di colpa che spinge Pete a tornare sui suoi passi, denunciando pubblicamente le sue colpe e quelle del sistema che in qualche modo lo ha spalleggiato. Abituato a raccontare dall'interno i demoni che attraversano la coscienza dei propri personaggi, questa volta il nostro si limita a metterli in scena adeguandosi a una sceneggiatura ordinata ma poco incline ad oltrepassare le soglie della convenzionalità del prodotto rivolto al grande pubblico. In più, qui a prevalere è la sensazione di un regista in qualche modo condizionato dalla necessità di recuperare terreno nei confronti degli Studios e perciò deciso a tenere a freno il proprio estro per rispettare le finalità del compito che gli è stato affidato.

Jade

jadeProva ne sia la scelta della Paramount di affidarsi ancora una volta a Friedkin al quale, nonostante gli scarsi incassi fatti registrare dal film precedente, viene affidato uno dei progetti più ambiziosi della stagione che risponde al titolo di "Jade", sceneggiato da quel Joe Eszterhas, passato agli annali per aver firmato la sceneggiatura di "Basic Istinct" e altri lungometraggi similari, tipo "Sliver" e "Showgirls", in grado di farne il capostipite del filone thriller-erotico a cui per l'appunto riconducono atmosfere e personaggi che sono al centro di "Jade", storia di un intrigo di difficile risoluzione che vede al centro della vicenda il misterioso omicidio di un collezionista d'arte in cui sono coinvolti per ragioni differenti il sostituto procuratore David Corelli incaricato di occuparsi del caso, l'avvocato senza scrupoli Matt Gavin, deciso a difendere la moglie dal sospetto di essere l'autrice del brutale assassinio, e infine Trina, psicologa di fama che sotto l'identità di Jade, impersonata per prostituirsi con uomini ricchi e potenti, tenta di reagire alle frustrazioni del menage matrimoniale. Considerato che i tre personaggi sono legati da antica amicizia e che il sanguinoso misfatto riporta a galla passioni mai sopite e antiche rivalità derivate dal fatto che prima di diventare la moglie dell'amico Trina era stata la ragazza di Corelli, si capisce ancora prima di vederlo come il fulcro della questione non sia tanto la cattura del colpevole e di conseguenza il metodo investigativo che permette di arrivare ad identificarlo, quanto piuttosto la riproposizione di un immaginario erotico estetizzante e kitsch che aveva fatto la fortuna di Sharon Stone e ora doveva benedire la rinascita del nostro autore.
In realtà Friedkin fa di tutto per portare il film dalla sua parte, cercando di bilanciare ciò che non gli appartiene con alcuni elementi che invece sono andati sempre più consolidandosi nella sua cinematografia e che attengono all'ambiguità morale che non distingue tra buoni e cattivi e che più di una volta ci porta a pensare che il senso di giustizia di Corelli sia più il modo di cercare di salvare la vita alla propria amata che la conseguenza della sua devozione alla causa; al pessimismo di fondo che come spesso accade nelle storie del regista impedisce ai personaggi di riscattarsi completamente dalle proprie colpe e, di pari passo, al senso di sconfitta che il finale di Jade eleva alla massima potenza con il colpevole che oltre a farla franca è pronto ad infliggere altro dolore. Ed ancora, all'immancabile caccia all'uomo che si traduce in un altro inseguimento memorabile che taglia a metà la pianta urbanistica di San Francisco, arrivando a toccare le acque dell'oceano dopo aver rischiato di perdersi per le strade affollate del quartiere di Chinatown. L'impresa giocata così su un versante personale, risulta però più ardua del previsto in virtù di una sceneggiatura che non regala sorprese e abbonda di stereotipi che in parte fiaccano gli sforzi del regista. C'è da dire in difesa di Friedkin che se il film ha un merito questo deve essere ricercato nella qualità di una messinscena che facendo suo l'assunto di Ellis e del suo "American Psycho", secondo il quale l'unico denominatore comune capace di unire le persone è la dimensione estetizzante dell'esistenza, risulta levigata con una uniformità in grado di tenere insieme una trama sbriciolata dalla sua inconsistenza materiale e contemporaneamente di fornire un appiglio comprensibile a chi la guarda. Per capire la misura del rovescio di cui "Jade" si rende artefice basta vedere le conseguenze a cui vanno incontro Linda Fiorentino e David Caruso, attori protagonisti per cui il film che doveva essere il loro trampolino di lancio si trasforma nella pietra tombale delle loro ambizioni cinematografiche, costrette a rinunciare a ruoli di primo piano a cui sembravano predestinati.

Regole d'onore

Lo smacco di Jade suggerisce a Friedkin di prendersi un periodo di riposo che durerà la bellezza di cinque anni e che allo scoccare del nuovo secolo lo riconsegna al cinema pronto per dirigere altri due lungometraggi targati Paramount. La particolarità di questi nuovi impegni consiste nel fatto che ambedue prendono in considerazione il tema bellico non tanto come fonte d'ispirazione per raccontare episodi di vita militare legati alle cronache del campo di battaglia, quanto piuttosto per mostrare le conseguenze di quella esperienza nell'esistenza di chi ha scelto di combattervi. Tra i due film, "Regole d'onore" appare fin dalle prime schermaglie un prodotto più tradizionale sia per la sua struttura narrativa che, dopo aver creato il casus belli con il massacro di civili yemeniti ordinato dal colonnello Terry Childers (Samuel L Jackson), procede alla maniera di un thriller giudiziario, con l'ufficiale chiamato a rispondere del proprio operato di fronte alla corte marziale che dovrà stabilirne l'eventuale colpevolezza; sia per la tipologia dei personaggi che, tanto dalla parte della difesa, rappresentata dal colonnello Hays Hodges (Tommy Lee Jones) venuto in soccorso del compagno d'armi che un tempo gli aveva salvato la vita e a cui ora tenta di restituire il favore, quanto da quella dell'accusa, sostenuta dall'opportunismo politico del Consigliere di Stato Sokal e guidata dal Maggiore Briggs rampante avvocato in cerca di visibilità, si presentano tutti d'un pezzo e senza possibilità che nel corso del confronto qualcosa o qualcuno possa incrinarne i principi e le finalità da raggiungere. In tale contesto, la scelta di ingaggiare un regista come Friedkin, tendenzialmente riottoso a confezioni precostituite, offre al film quel margine di incertezza rappresentato dalla capacità del cineasta di inserire qua e là momenti di cinema che procedono in direzione opposta rispetto al senso di fiducia trasmesso allo spettatore dal rispetto delle convenzioni classiche.
Certo, rispetto agli standard che conosciamo si tratta di trasgressioni minime che però, specialmente nei passaggi in cui c'è da verificare il rispetto delle regole d'ingaggio da parte di Childers e di conseguenza di provare a dare una risposta al quesito sulla possibilità di una guerra morale posto dal film, sono in grado di sfocare la gerarchia delle verità messe in campo attraverso una serie di immagini che talvolta sembrano confutare le parole dei protagonisti. Ed è proprio l'ambiguità provocata dall'accostamento tra il senso del dovere e l'amor di patria manifestato da Childers e Hays nel corso del processo e la vista dei corpi di donne e bambini crivellati dai colpi su cui la mdp più volte ritorna, a provocare un senso di disagio che in qualche modo riesce a portare "Regole d'onore" dalle parti di un cinema meno politicamente corretto di quanto si creda. Ciò non toglie che Friedkin sia comunque costretto ad adeguarsi alle leggi delle grande produzione mainstream, pagando dazio soprattutto in termini di enfasi retorica di cui il film fa sfoggio quando si tratta di mettere in vetrina le virtù del corpo dei marines, vero e proprio baluardo posto a salvaguardia degli interessi nazionali. Una caratteristica che non sfugge ai detrattori del film, i quali non perdono occasione - come era già successo ai tempi de "Il braccio violento della legge" - di sottolineare la natura reazionaria dell'intera operazione. False o presunte che siano, le polemiche giovano al film che raccoglie più di 70 milioni di dollari piazzandosi al terzo posto nella classifica degli incassi dei lungometraggi realizzati dal regista.

The Hunted - La preda

theuntedE' certo che il ritrovato successo giova all'autostima del regista che tre anni dopo torna sul set intenzionato ad occuparsi di un lavoro più ambizioso. Pur nascendo nelle medesime circostanze produttive legate all'accordo stretto con la Paramount, The Hunted - La preda (The Hunted, 2003) si pone con uno scarto netto di forme e di contenuti rispetto a chi lo aveva preceduto. A confermarlo nell'uno come nell'altro caso basterebbero i minuti iniziali in cui il film dapprima si preoccupa di stabilire i riferimenti culturali attraverso la voce fuori campo che sovrapponendosi ai titoli di testa parafrasa nientemeno che l'episodio della Bibbia relativo al sacrificio di Isacco a cui allude la vicenda dell'ex addestratore delle forze speciali L.T. Bonham chiamato a supportare la polizia impegnata nella cattura di Aaron Hallam, il più talentuoso dei suoi allievi diventato nel frattempo un pericoloso assassino. E poi, a seguire, si affretta a darci un saggio dell'allestimento scenico con una sequenza di raro espressionismo visivo in cui il motivo scatenante della follia di Hallam in missione nel Kossovo viene raccontato in un crescendo di distorsioni psico sensoriali che ci portano nel pieno delle guerre balcaniche combattute dal protagonista in un'operazione sotto copertura.
Ispirato alla figura di Tom Brown Jr, esperto di tecniche di sopravvivenza eccentrico quel che basta - e ci riferiamo alle dichiarazioni di Brown a proposito delle origini sciamaniche delle sue doti -  per stimolare la curiosità dei tycoon hollywodiani, The Hunted, scritto da Friedkin in collaborazione con Art Monterastelli ci presenta scenari inediti per il regista americano, il quale, costretto dal contesto della storia e alla ricerca di un ambientazione in grado di restituire le pulsioni ancestrali e la violenza primordiale che muovono la storia e i personaggi, si lascia indietro gli spazi angusti e malsani della grande metropoli per aprire gli orizzonti della sua telecamera alla vastità incontaminata e selvaggia della wilderness situata nella costa nord occidentale del Pacifico, con la città di Portland a costituire l'unico baluardo di una civiltà che il film non esita a mostrarci in balia di forze irrazionali e oscure. Un cambiamento che comporta varianti anche nello stile, che pur mantenendosi attaccato ai corpi degli attori, sempre immancabilmente posseduti dai fantasmi delle proprie ossessioni, si arricchisce in modo inedito di panoramiche, dolly e riprese aeree che a volte svolgono una funzione puramente descrittiva altre invece, nella ricerca della terza dimensione, concorrono a rendere il senso di una vicenda che si eleva al di sopra dei personaggi per rappresentare, attraverso le specularità caratteriali di Bonham e Hallam (aiutate dal differente approccio metodologico utilizzato da Jones e Del Toro), il dualismo delle forze che si agitano dentro i recessi più profondi dell'animo umano. Da quest'ultimo punto vista The Hunted si pone in continuità con ciò che da sempre interessa al regista, abituato a scandagliare quelle zone d'ombra in cui diventa difficile dirimere il bene dal male e dove il tentativo di farlo si trasforma in pulsioni di morte. Come capita al personaggio di Hallan, che Friedkin sembra modellare sull'esempio del quadro patologico offertogli dal Kurtz coppoliano, a cui il personaggio di Del Toro è unito dalla follia derivata dalla coscienza dell'orrore che si nasconde dietro gli ideali di giustizia e di libertà di cui egli stesso con il suo incarico si dovrebbe fare promotore. Se in "Regole d'onore" le degenerazioni della guerra, seppur condannate, erano comunque considerate all'interno di un sistema disposto a tollerarle come male necessario rispetto al raggiungimento di un bene superiore, in The Hunted il dado è tratto e la mancanza di illusioni lascia spazio al punto di non ritorno.

Bug

bugIl sodalizio con la Paramount si conclude nel peggiore dei modi perché The Hunted non raggiunge i risultati sperati, evidenziando uno scollamento tra le indubbie qualità dell'opera e i gusti del pubblico popolare che boccia il film senza possibilità d'appello. Tra le possibili ragioni quella più plausibile va ricercata nell'analisi dei dati del box-office e quindi nella tipologia delle pellicole - da "Il signore degli anelli" a "I pirati dei Caraibi" - che nello stesso periodo sono in testa alle classifiche degli incassi, tutte, nessuna esclusa, realizzate con un uso massiccio di quella computer graphic che nel giro di pochi anni è passata dall'essere elemento di contorno a fattore capace di rivoluzionare l'estetica del cinema mainstream, sempre più contaminato da immagini di sintesi che nella loro artificiosità sono quanto di più lontano possa esistere dalla verosimiglianza dello stile documentaristico adottato dal regista.
La presa di coscienza è tutt'altro che indolore ma permette a Friedkin di completare una metamorfosi artistica inaugurata tra contraddizioni e ripensamenti dovuti alla difficoltà di prendere le distanze dal sistema produttivo delle grandi major che gli aveva dato la possibilità di affermarsi e diventare famoso. Vista da questa angolazione la scelta di dirigere un film come Bug (Bug, 2007) è tutt'altro che riduttiva perché le condizioni di lavoro e i tempi di realizzazione sono quelli di un film indipendente che permette al regista di ritrovare la libertà creativa dei tempi migliori. Inoltre a fare da discriminante rispetto agli impegni più recenti c'è l'impianto teatrale della storia ricavata dalla piece di Tracy Letts - di cui Friedkin porterà sullo schermo qualche anno dopo anche Killer Joe (Killer Joe, 2012)  - che sul momento gli offre l'opportunità di mettere in circolo reminiscenze di un cinema che aveva frequentato agli inizi della carriera e in particolare di quel "Festa di compleanno" tratto da Pinter a cui le atmosfere del testo di Letts riconducono nel crescendo parossistico della narrazione e nella visione  claustrofobica e complottista di una parabola esistenziale in cui i traumi psicologici della coppia protagonista e il conseguente comportamento paranoico che da questi scaturisce, diventano l'occasione per trasfigurare in chiave prima drammatica e poi orrorifica le inquietudini che attraversano la società americana e nello specifico il malessere arrecatole dagli spettri della guerra in Iraq a cui rimanda la spiegazione del personaggio interpretato da Michael Shannon per giustificare di fronte alla donna che lo ha accolto nella sua casa i comportamenti disfunzionali e le patologie che a suo dire - ma nella storia ogni verità lascia il tempo che trova - sarebbero il risultato degli esperimenti a cui è stato sottoposto durante la sua permanenza sul fronte iracheno.
Fedele alle proprie consuetudini, Friedkin si impegna a rispettare il testo di Letts a cui si limita ad aggiungere la sequenza ambientata nel locale lesbo in cui lavora Agnes (una straordinaria Ashley Judd)  e una scena girata in esterni che insieme a qualche panoramica della zona antistante il motel in cui vivono i protagonisti offrono a "Bug" la possibilità di un respiro cinematografico, comunque ricercato dal regista attraverso continui cambi di campo e di punti di vista che, oltre a riprodurre in termini visivi l'instabilità mentale della coppia costituiscono una variante alla sostanziale staticità imposta dalle caratteristica di concentrazione spaziale della narrazione. Una continuità rispetto a quello che è stato il suo percorso registico che Friedkin conferma anche sul piano formale quando, alle prese con il clima allucinatorio e con le visioni di cui soffrono i protagonisti sceglie di raccontarle senza l'utilizzo di immagini che non siano  quelle scaturite dal realismo della messinscena. Girato a New Orleans nell'estate del 2oo5 e terminato  poco prima che l'uragano Katrina inondasse la città, "Bug" fu accolto con entusiasmo dai critici presenti a Cannes dove un anno dopo fu presentato nell'ambito della Quinzane. La sua distribuzione però non fu altrettanto fortunata perché, nel tentativo di sfruttare la fama del regista, la Lionsgate ne stravolse i contenuti, confondendo il pubblico ansioso di vedere il seguito de L'esorcista e per questo deluso dal venire meno delle aspettative provocate dalla campagna pubblicitaria che precedette l'uscita del film.  

Killer Joe

killerjoeNella sua ultima fatica Friedkin opera un ulteriore scarto rispetto alle modalità espressive utilizzate nel suo cinema più recente. In Killer Joe, infatti, a fronte di una rappresentazione realistica dell'orrore oramai considerata invalsa, si reagisce forzando lo stile al punto di mescolare il serio al faceto, il dramma alla commedia, con esiti che ampliano lo spettro della rappresentazione in una sintesi in cui angoscia e iperrealismo prendono alternativamente il sopravvento di una scena ormai preda di un'incontrollata follia. Al centro della storia del film troviamo una famiglia di rednecks avvilita da ignoranza e mancanza di denaro. L'altra faccia di un sogno americano richiamato dall'opzione di un benessere improvviso, regalato alla famiglia Smith attraverso la possibilità di riscuotere i soldi dell'assicurazione sulla vita intestata alla madre, separata e convivente. Per forzare gli eventi in quella direzione, l'improvvisato sodalizio decide di ingaggiare un poliziotto che arrotonda lo stipendio uccidendo le persone su commissione dietro lauto pagamento.
E' lui Killer Joe, angelo della morte freddo e sistematico fino a quando si invaghisce di Dotti, sorella un po' tarda di Chris,  il figlio che ha ideato il  piano allo scopo di recuperare in tempo utile il denaro necessario a ripagare un debito che potrebbe costargli la vita. Da quel momento tutto si complica e si distorce spingendo la storia verso una conclusione tanto drammatica quanto grottesca. Friedkin sembra avere un solo scopo: distruggere i pilastri della società americana. Per farlo azzera qualsiasi differenza all'interno del nucleo familiare attorno a cui ruota la vicenda. E lo fa in maniera diretta e senza alcun rispetto, tanto per le convenzioni sociali quanto per quelle cinematografiche, a cominciare dalla prima scena con il full frontal della matrigna di Chris (una Gina Gershon invecchiata di colpo) sbattuto in faccia al ragazzo e allo spettatore, e continuando, senza distinzioni tra genitori (biologici o acquisiti) e figli, pronti a scannarsi per il più misero tornaconto. Incesto, matricidio, tradimento, pedofilia, tutto è possibile in questo inferno a cielo aperto. Senza stato ne famiglia, con la giustizia ridotta ad utopia, l'America di Friedkin si misura nella quantità di sangue versato. Per non farsi mancare niente, e ricordandosi della lezione del collega Romero che attraverso i suoi Zombie criticava il sistema consumistico, anche Friedkin organizza il suo de profundis capitalistico con una delle sequenze più agghiaccianti ed allo stesso tempo ridicole, quella in cui il personaggio della Gershon, in un crescendo di violenza e parossismo, è costretta ad inginocchiarsi di fronte al killer ed a fargli una fellatio prendendo in bocca la coscia di pollo fritto, tra i simboli di consumo più tipici del quotidiano a stelle e strisce, maneggiato come fosse un vero fallo. Quel pollo fritto, usato e poi gettato con disprezzo, è il crollo di ogni parvenza di efficienza e prosperità perchè tutto è destinato ad essere travolto dalla furia di un'umanità disperata. L'America non esiste più, inghiottita dentro l'oscurità della dissolvenza che chiude il film con il primo piano della pistola sul punto di far partire il proiettile che mette fine al gioco. Alle prese con una storia di disfunzioni e di paura, Friedkin non esita a fare del suo film una vera e propria apoteosi della carne offerta come esposizione in bella vista di corpi trascurati - date un'occhiata alle forme voluttuosamente imperfette di Juno Temple o a quelle rifatte e allentate di Gina Gershon per farvene un' idea - oppure conseguenza delle sevizie e della violenze subite che, nel caso di Chris (Emil Hirsh) malmenato e tumefatto diventano cartina di tornasole di una corruzione che distrugge l'individuo in senso fisico.
In alternativa, il regista contempla, seppur con un sorriso ghignante, taluni momenti di romantica sublimazione nella relazione tra Joe e Dotti, in cui lo slancio sentimentale e rarefatto vira spesso verso implicazioni pragmatiche, basti pensare al primo incontro dove la cena a lume di candela diventa il preliminare di un peepshow culminato in un inatteso amplesso. Scelta, questa, rafforzata dalla presenza costante di elementi naturali come l'acqua (nella prima parte del film la pioggia fa da sfondo alle azioni dei personaggi), e il fuoco, oppure ancestrali come il sogno e la pulsione - incestuosa quella di Chris nei confronti della sorella, amorale quella di Joe nei confronti della ragazzina - a ricordarci che Killer Joe è un esplosione irrazionale di istinti primordiali.
Se la parte centrale dell'opera è quella meno efficace, con uno sviluppo fin troppo ordinario e qualche passaggio affrettato - la sottotrama relativa all'ultimatum dei creditori nei confronti di Chris viene abbandonata senza nessuna conseguenza - a rimanere in mente è quello che succede prima e dopo, in cui Friedkin pare rendere merito ad un cinema che mette insieme Lynch (nella prima parte, quella dedicata alla presentazione dei personaggi e della storia) e Tarantino (nella parte conclusiva), quella della resa dei conti. Presentato in concorso nell'edizione 2011 del Festival di Venezia, Killer Joe conferma il tratto distintivo di un regista la cui manifesta insoddisfazione verso la presunta normalità delle cose consegna a un itinerario ben lungi dal dirsi concluso.





William Friedkin