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recensione di Matteo De Simei
7.0/10

Ci sono tre fotogrammi che possono compendiare in estrema sintesi l’ultimo progetto di Marco Bellocchio, unico film italiano presentato in concorso a Cannes: il primo è il volto austero del protagonista, Tommaso Buscetta, mascherato da altri volti, nella foto scattata all’interno della villa di Bontate a sancire l’apparente tregua tra la veterana mafia siciliana e il nuovo corso dei corleonesi. Il secondo è il grandangolo che a più riprese affresca la gigantesca aula del Maxiprocesso. Il terzo è la digressione onirica nella quale i figli di Buscetta, Antonio e Benedetto, tentano di sfuggire alla morte all’interno della cabina dell’aereo sotto gli occhi impotenti del padre.

Con il solito rigore civico privo di retorica e appigli ideologici, Bellocchio presenta senza indugio, sin dalle primissime battute, sguardo, movenze e voce del mafioso e futuro collaboratore di giustizia Buscetta, interpretato da un superlativo Pier Francesco Favino. La foto collettiva rappresenta la profezia, il preavviso narrativo a uno dei tre punti cardine del racconto: il tradimento. In questa barocca “ultima cena” tra criminali a tradire saranno in molti, non solo il protagonista. Il regista piacentino inquadra più volte, infatti, la mano volta a nascondere il volto asettico di Salvatore Riina, che tradirà l’imminente pace sancita innescando la seconda guerra di mafia dalle conseguenze atroci e brutali. Ma è soprattutto la mano di Giuseppe Calò intenta ad abbracciare il suo amico Buscetta a descrivere con completezza l’apologia di Bellocchio in un solo fotogramma. Calò che è doppiamente colpevole di tradimento, prima disertando la propria fede per rifugiarsi tra le braccia del nemico, in seguito strangolando il figlio tossicodipendente di Buscetta a cui aveva promesso di badare per il resto della sua vita. La pellicola di Bellocchio non si limita dunque a raccontare le peripezie di un traditore, richiama invece a una disamina ben più complessa del tradimento, raccontata da una prospettiva meramente umana, all’interno di una tra le più influenti organizzazioni criminali che la storia del nostro paese ricordi.

Il tradimento di Buscetta è però quello che permette a Bellocchio di focalizzare la sua analisi e dispiegare il racconto. Perché don Masino gioca la carta del tradimento per giungere alla stretta di mano con il magistrato Giovanni Falcone. Il regista comincia così una sorta di personale agiografia di un povero cristo dagli evidenti limiti e, senza ideologie alcune, si raccomanda che lo spettatore si immedesimi nella compassionevole raucedine siciliana del pentito. Lo coccola, ne sviscera tutti i più preziosi risvolti umani ma, attenzione, non solo prende le distanze dal tratteggiarne un eroe (Falcone lo zittisce con rabbia quando il pentito cerca di difendere che i propositi della sua vecchia mafia, al contrario di quella truce corleonese, fosse “buona e giusta”) ma proprio nel momento in cui sembra farsi largo uno spiraglio di redenzione figlia del giansenismo bressoniano, lo getta letteralmente all’inferno nella eloquente, profonda, sequenza finale.

Il Maxiprocesso è altresì l’opportunità per Bellocchio di riprendere il discorso sulla miseria umana in chiave sarcastica e grottesca abbozzata in “Sangue del mio sangue”. L’aula bunker è il palcoscenico ove recitano le maschere dei mafiosi adornate da sigari, occhiali da sole e barba incolta. La biografia, la storia e il dramma si arrendono alla farsa, all’elogio della schizofrenia, a meravigliosi dialoghi teatrali che raggiungono forse la vetta stilistica della pellicola. Si tratta di un intermezzo circense (gli animali in gabbia che intravediamo nei flashback hanno valenza nettamente più dignitosa e compassionevole di quelli ignobili tra le sbarre dell’aula) e filo-felliniano attraverso il quale il cineasta di Bobbio ha modo di raccontare quello che realmente accadde in quell’aula, come il cabaret di Luciano Liggio, la comparsata isterica delle mogli dei mafiosi, le urla inermi del magistrato Alfonso Giordano e, soprattutto, il confronto a colpi di campo e controcampo tra Buscetta e Calò (interpretato da un grande Fabrizio Ferracane) uno di fianco all’altro senza che gli occhi dell’uno possano raggiungere quelli dell’altro.

Dopo il tradimento e la teatralità si giunge, in ultima istanza, al terzo, drammatico, punto chiave della pellicola: la famiglia e il ruolo del padre. Tommaso Buscetta sa di non amare la famiglia come ama la bella vita e le donne (scena cult da applausi: il grottesco flashback degli anni Settanta in cui il protagonista, aitante e capellone, attende una prostituta al carcere dell’Ucciardone mentre gli altri galeotti intonano in coro “Buscetta deve scopare!” uscendo in fretta e furia dalla camerata). Sul volo che da Rio de Janeiro lo riporta a Roma, sogna ad occhi aperti il massacro dei suoi due figli. Forse per la prima volta si consapevolizza della tragedia di essere padre, dell’abbandono perpetrato sistematicamente a due delle sue tre mogli (al netto del ruolo salvifico della terza moglie Maria Cristina) e ai suoi otto figli. Bellocchio persevera nel delineare il “tradimento umano” nei confronti dei figli. In una delle primissime scene, va in soccorso al figlio eroinomane solo per intimarlo a tornare in casa a colpi di schiaffi per non fargli fare brutta figura agli occhi degli astanti. Eppure Domenico riesce, seppure con difficoltà, a pronunciare “Papà perché mi picchi? Io ti amo”. Completa la dissoluzione del personaggio (prima ancora della malattia) la sequenza dell’interrogatorio per il processo Andreotti, dove il protagonista è messo alle corde e infine in ginocchio dall’avvocato Franco Coppi (non prima però che il regista metta a “nudo” Il Divo in una breve sequenza tipicamente bellocchiana).

“Il traditore” segue dunque la scia della famiglia come nel capo d’opera di esordio e si riavvicina al cinema politico dopo “Buongiorno, notte” (la sua più grande fortuna in termini di incasso al botteghino). Ma se nel film del 2003 Bellocchio regala a Moro più di un sogno per poter evadere dal suo destino, imprigionando nel limbo della pavidità la brigatista Chiara, qua non ci sono slanci salvifici, neanche onirici. C’è solo il coraggio di un uomo che crede di poter essere un eroe e termina invece il suo fine corsa alle porte dell’inferno che egli stesso si è costruito. Al di là di questi accostamenti e contaminazioni, "Il traditore”, come tutti gli ultimi lavori di Bellocchio, si allontana però decisamente dai tratti psico-nevrotici di stampo borghese che sono stati elemento imprescindibile di molti suoi film del passato. A “tradire” il più grande cineasta vivente italiano dall’exploit è dunque il forte interesse che riserva al soggetto ma non l’esigenza intima che spesso ha caratterizzato la nascita dei suoi film (l’idea iniziale è del produttore Beppe Caschetto che ha poi convinto il regista), scimmiottando forse in modo esagerato con le didascalie di sorrentiniana memoria, sbandando non poco nelle sequenze ambientate negli Stati Uniti e in ultimo avallando virtuosismi di camera come nella sequenza della strage di Capaci. In tal senso non proprio la stessa passione che ha animato l’analisi sociopolitica del compianto Giuseppe Ferrara. 


19/05/2019

Cast e credits

cast:
Pierfrancesco Favino, Maria Fernanda Cândido, Fabrizio Ferracane, Fausto Russo Alesi, Luigi Lo Cascio


regia:
Marco Bellocchio


distribuzione:
01 Distribution


durata:
135'


produzione:
IBC Movie, Kavac Film, Rai Cinema


sceneggiatura:
Marco Bellocchio, Ludovica Rampoldi, Valia Santella, Francesco Piccolo, Francesco La Licata


fotografia:
Vladan Radovic


scenografie:
Andrea Castorina


montaggio:
Francesca Calvelli


costumi:
Daria Calvelli


musiche:
Nicola Piovani


Trama
Nella vita di Tommaso Buscetta, mafioso e successivamente collaboratore di giustizia, membro di Cosa nostra