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recensione di G. Gangi, G. Usai

Memorie di un assassino - Memories of Murder

 

Caccia all'uomo: frammenti di un omicidio

Può una lieve modifica nell'adattamento di un titolo internazionale cambiare radicalmente il senso che si vuole dare di un'opera? Nel caso del film diretto nel 2003 dall'allora semi-esordiente Bong Joon-ho, la risposta è sì. Le "Memorie di un assassino" sono ben diverse da quei ricordi di un omicidio, di cui parlava, appunto, il titolo in inglese con cui abbiamo conosciuto la pellicola fino alla sua tardiva distribuzione nelle sale italiane. Era un titolo che alludeva a dei frammenti sparsi, intuizioni e tracce disordinate e impossibili da comporre in un puzzle uniforme che caratterizzano l'indagine messa in scena.
La storia è risaputa, ma vale a questo punto la pena ricordarla brevemente. In una località rurale della Corea del Sud degli anni 80 (è il 1986) un serial killer comincia a terrorizzare la comunità: diverse donne vengono aggredite, violentate e soffocate, abbandonate prive di vita nella foresta che circonda la cittadina, deturpate nel fisico e con degli indizi che, di volta in volta, differiscono dai precedenti per qualche piccolo dettaglio. Un serial killer, certo, ma anche un criminale che non segue un copione identico a se stesso. Questo rende la ricerca della polizia molto complicata, ancora di più se si considera che la Corea di quegli anni non dispone né di un personale specializzato né degli strumenti migliori per portare avanti un'indagine con la meticolosità che essa richiederebbe. I due protagonisti sono Park Du-man, agente del posto abituato a lavorare alla bell'e meglio con quello di cui può disporre, e Seo Tae-yun, sorta di scheggia impazzita, giunto volontario da Seul per far luce sulla misteriosa sequela di delitti.

La provincia dimenticata dal regime

"Memories of Murder", secondo lungometraggio di Bong, è un manifesto adamantino della poetica e dell'idea di cinema del cineasta originario di Taegu. È un film che fa della fusione tra visione cinematografica e osservazione politica il cardine di ogni scelta registica, che si tratti di quello che viene messo in scena, di quello che non viene messo in scena, di come la sceneggiatura sceglie in modo consapevole di tratteggiare i due protagonisti e di come entrambi finiscono, con lo scorrere della vicenda, per smarrire le poche certezze di cui dispongono, assorbendo dal collega prevalentemente le debolezze. Bong è sempre stato fin dal principio un autore politico, intendendo con questo aggettivo la qualità di un regista di saper fare delle proprie opere una costante sineddoche di un universo reale più ampio, che si tratti della Corea del Sud o, nei casi di "Snowpiercer" e di "Okja", del Primo mondo contemporaneo.
L'abilità essenziale di Bong sta proprio nel saper compenetrare attraverso la sua scrittura e la sua regia i due piani: quello più strettamente filmico e tutto quanto costituisce il contesto (storico, politico, sociale, economico, umano) nel quale la storia cinematografica viene inserita. Il linguaggio di genere, dunque, diventa una sofisticata arma dietro cui si cela non un gusto per un vacuo virtuosismo, ma uno sguardo profondo e originale che va a riflettere sulle contraddizioni della contemporaneità. In questo caso, forse l'esempio più riuscito di una carriera ormai comunque ricca di episodi felici, il noir e il thriller poliziesco diventano i grimaldelli attraverso cui poter aprire uno squarcio in quella buia epoca che è stata per la Corea il governo autoritario di Chun Doo-hwan, capace di imporre al paese un silenzioso e strisciante regime militare fondato sull'annullamento del dissenso e sul divieto alla manifestazione del pensiero libero. Bong, che in quegli anni era poco più che un adolescente, ha sentito su di sé il peso di quell'oppressione, così come ancora oggi avverte come costantemente precaria la situazione della democrazia sudcoreana, formalmente mai sospesa o cancellata, ma i cui confini sono stati più volte, nel passato, compressi dall'arrivo al potere dell'ennesimo despota. Questa fragilità, questo senso di provvisorietà aleggia costantemente nelle sue opere, fino ad arrivare a "Parasite". Citiamo il titolo premiato a Cannes nel 2019 non a caso: un filo conduttore lega fortemente l'ultima fatica di Bong a "Memories of Murder", ovvero l'utilizzo della chiave grottesca per filtrare la materia narrata attraverso una lente d'ingrandimento deformante e in grado di poter mostrare ciò che altrimenti sarebbe impossibile inquadrare in scena.

Due uomini in fase di mutazione

"Memories of Murder" si regge tutto sulla sovrapposizione di elementi che, pure, non entrano mai in scena: l'assenza di democrazia, la sospensione dei diritti civili, la pachidermica inefficienza della macchina pubblica non fanno mai ingresso materialmente nelle sequenze che compongono l'opera. Esse, infatti, rimangono fuori dall'obiettivo della macchina da presa, confinate alle azioni e alle reazioni controverse dei protagonisti. Il loro agire è quello di rappresentanti delle forze dell'ordine ormai totalmente assuefatti a un mondo privo di principi dettati da uno Stato di diritto. Ecco che l'indagine allora va avanti a intuizioni, tentativi, vicoli ciechi; sia Park, che non disdegna l'uso della violenza e il ricorso al misticismo pur di giungere a una confessione o una soluzione del mistero, pur se fasulla, sia Seo, che si presenta come l'anello forte della catena di comando, intuitivo e attento alle procedure, ma che poco dopo rivela la sua scarsa abilità a stare sul campo, distratto sui dettagli e facilmente suggestionabile, entrambi, insomma, palesano tutta la loro impotenza e incomprensione degli eventi.
Ci sono alcuni particolari, primi piani, dialoghi o singole battute che Bong inserisce nel film con una maestria stupefacente: sono gli elementi con cui, senza il bisogno di alcuna sottolineatura, i due caratteri principali emergono e si stagliano con una nettezza disarmante davanti ai nostri occhi. Seo porta in dote quella meticolosità nella ricostruzione delle dinamiche criminali che manca completamente alla polizia di provincia, abituata a metodi rozzi e immediati per giungere a delle verità investigative non necessariamente attendibili al cento per cento. Impressionante, infatti, il modo con cui, appena giunto sul luogo del delitto, riesca a smentire la ricostruzione fino a quel momento presa per buona e sia in grado di evidenziare una serie di indizi che mancavano completamente all'appello prima del suo arrivo. Ma dal canto suo, Park, pur con tutta la sua assuefazione a un sistema marcio e farraginoso, ha delle innate doti di osservazione che ne fanno un segugio abile a seguire le orme di chiunque. Prendiamo come esempio la magnifica scena dell'inseguimento notturno nella boscaglia fino al cantiere dove il sospettato riesce a confondersi fra gli operai. In un crescendo di tensione, con l'avvolgente accompagnamento musicale composto da Iwashiro Taro e grazie al montaggio di Kim Sun-min, abile in un lavoro di taglio sui volti dei protagonisti e sulle scene di gruppo, la macchina da presa si sofferma, per l'ennesima volta, sul primo piano di Park (interpretato magistralmente da Song Kang-ho) alla ricerca di un dettaglio nascosto che possa rivelarglisi alla vista. Si potrebbe dire che ci troviamo di fronte a un colpo di scena fasullo, di pura scrittura: Bong, per la prima volta, capovolge gli equilibri tra i due poliziotti, trasformando l'agente di provincia nell'uomo con quella marcia in più, in grado di risolvere il problema.

La mutazione genetica dei due protagonisti è una vera ossessione per Bong, altro tema che rivedremo anche in altri suoi film successivi. Nella collaborazione gomito a gomito, i due, pur se antitetici e spesso in contrasto reciproco, finiscono per contagiarsi e somigliarsi sempre di più. Ma, nonostante ognuno di loro possegga delle qualità, a portare a una sorta di fusione a distanza fra loro sono invece le fragilità, che finiscono per amplificare esponenzialmente le difficoltà nel portare avanti l'indagine. Park diventa sempre più dubbioso, Seo sempre più ossessionato dalla ricerca di una verità. Fino al pre-finale lungo i binari di una ferrovia, davanti a una galleria: l'ennesimo sospetto probabilmente risulta innocente (grazie a dei test sul Dna arrivati dall'America) e la frustrazione avvolge entrambi i protagonisti per una volta di più, forse in modo definitivo.

Luoghi e volti: radiografia di una nazione

Nel cinema di Bong Joon-ho i luoghi riflettono l’essenza delle storie che vengono messe in scena. Il quartiere e il condominio nel quale si svolge "Barking Dogs Never Bite" (2000) è una giungla di cemento nel quale l’uomo è il predatore più insidioso, gli ambienti domestici di "Parasite" (2019) sono la proiezione degli spazi mentali e sociali abitati dai protagonisti. "Memorie di un assassino (Memories of Murder)" è ambientato in un villaggio di campagna che rimanda a Hwaseong, il paese della provincia di Gyeonggi che, tra il 1986 e il 1991, venne sconvolto da una serie di stupri e omicidi che hanno fornito lo spunto di cronaca per questo film (era il primo caso di omicidi seriali in Corea del Sud).
Il secondo lungometraggio di Bong inizia in campo lungo, tra il giallo del grano e l’azzurro del cielo: per una stradina sterrata dove una macchina della polizia è ferma in panne, un trattore sta portando il detective Park inseguito da dei monellacci. I colori della fotografia sono caldi, l’atmosfera è serena, l’azione sembra avvolta dal ritmo lento della campagna. Park si affaccia all’interno di un canale di scolo dove è stato scoperto il cadavere di una ragazza. È un elemento eccentrico rispetto al contesto solare, anche perché i ragazzini continuano a saltellare nei campi e, mentre il detective li sgrida, uno di loro si diverte a scimmiottarlo. Nessuno sembra curarsi davvero del cadavere. Dopo i titoli di testa che scorrono sulle dissolvenze incrociate delle scene degli interrogatori, avviene un secondo ritrovamento. Macchina a spalla, Bong realizza un piano-sequenza che in un paio di minuti segue il detective Park lungo il perimetro della scena del crimine descrivendo l'imperizia delle forze dell'ordine e la goffaggine dei loro movimenti impreparati a una situazione tanto grave: sibillina, a tal proposito, la rabbia del poliziotto quando un trattore passa su un’impronta lasciata nel fango, forse un indizio per rintracciare l'assassino che viene rovinata. La palette cambia drasticamente, i colori vengono desaturati e da qui (fino all'epilogo) la scala sarà graduata su cromatismi terrigni, sugli azzurrini e sui verdini della bruma e della pioggia.
La grammatica filmica di Bong amplifica l'atmosfera tesa, elaborando un quadro in cui la posizione dei personaggi e l'interazione tra loro reifica un'umanità viva e pulsante. Il regista è infatti un sapiente descrittore di ambienti e in "Memories of Murder" spiccano gli interni domestici, spesso angusti e squallidi, mentre gli esterni rurali, che sembrano non avere limiti reali, portano con sé un elemento di minaccia, poiché è lì, da qualche parte, che si cela l'assassino. Una delle sequenze più esemplari Bong la monta dopo aver sottolineato il vicolo cieco in cui si è risolto l’appostamento dei poliziotti, che avevano progettato una trappola per l'omicida. Una donna, uscita per portare l'ombrello al marito che lavora in fabbrica, cammina facendosi strada con una torcia sotto la pioggia battente: la macchina da presa carrella lateralmente sollevandosi lievemente così da far uscire dal quadro la torcia e rivelare il campo d'erba a perdita d'occhio. In sottofondo odiamo la donna canticchiare un motivetto e qualcuno fuori campo rispondere fischiettando: la signora si ferma di colpo e cerca di far luce sulla stradina e, mentre è voltata da una parte, dall’altra si nota sgusciare un'inquietante figura fuori fuoco. Quando il regista riprende il carrello laterale, sia la donna, sia lo spettatore sono consci della minaccia che incombe nell'oscurità.

La caccia al serial killer diviene l'ossessione dominante degli ispettori protagonisti e l'indagine è impostata partendo dal volto: nell'incipit Park Du-man fissa in una serie di polaroid i ritratti degli interrogati, una sorta di catalogo da cui partire per costruire l'identikit dell’omicida. Si tratta della disperata ricerca dell’immagine mancante, quella che permetterebbe di mettere le manette ai polsi del vero colpevole, perché di colpevoli presunti nel corso della narrazione se ne succedono diversi e l'autore se ne serve per mostrare l’inettitudine della polizia trasformarsi in manipolazione della realtà e brutalità.
Per mezzo della detection, Bong dipinge la Corea del Sud sotto l’asfissiante cappa della dittatura militare: i pubblici ufficiali sono arroganti e molesti, se la prendono coi più deboli, torturano psicologicamente e fisicamente inermi sospettati pur in assenza di prove concrete; quando decidono di mettere in sicurezza le strade perché è una giornata propizia alla liturgia dell’assassino, non ci sono uomini a disposizione perché – viene celiato – impegnati a sopprimere una manifestazione studentesca. Questo dettaglio apparentemente trascurabile non è una nota di colore, perché tra il 1986 il 1987 la Corea del Sud fu scossa da massicce manifestazioni di dissenso che portarono alle elezioni del 1988 e al ripristino delle libertà democratiche. La collocazione temporale carica la vicenda di una valenza metaforica, poiché Bong realizza una sintesi genealogica del male morale che ha infettato la Corea del Sud e della quale nessuno può dirsi innocente: lo Stato (che nel 1980 si era macchiato del massacro di Gwangju) perpetra una violenza non meno perversa di quella dell’ignoto serial killer e la prossimità è palese, provocando una sorta di cortocircuito di assuefazione e coazione a ripetere. Se in campo aperto l'assassino cattura, stupra e uccide le proprie vittime, è nei seminterrati, nel segreto delle stanze del potere, che lo Stato esercita la propria efferata crudeltà.  

Gigantesco il finale, affidato al volto e al corpo di Song Kang-ho. Nel 2003 Park Du-man, padre di una tranquilla famiglia borghese e piccolo imprenditore, torna casualmente sul luogo della prima scena del crimine e apprende da una ragazzina che poco prima un altro uomo perlustrava il canale di scolo, raccontandole che lì aveva compiuto qualcosa tanti anni prima. "Com'era fatto?", chiede ansioso Park. "Aveva una faccia normale", risponde candidamente la bambina. All'ex-detective non resta che guardarsi intorno e poi, di scatto, volgere gli occhi all'obiettivo della macchina da presa: dall'altra parte, ci può essere solo lo spettatore, al quale è rivolto un ultimo e spaesato sguardo, inchiodandolo alla responsabilità di complice silente.

Le ceneri del New Korean Cinema

Bong Joon-ho è uno dei talenti più cristallini emersi sul finire della stagione del New Korean Cinema che ha riformato l'industria cinematografica coreana a cavallo tra XX e XXI secolo. "Memories of Murder" è un'opera che rivela la libertà e la maturità espressiva raggiunta dai registi della 386 generation e non è un caso che, nello stesso anno, "Old Boy", capolavoro di Park Chan-wook, venga premiato a Cannes col Grand Prix Speciale della Giuria presieduta da Quentin Tarantino, certificando la portata internazionale del fenomeno.
Bong Joon-ho, insieme a Kim Jee-woon e a Park ("JSA – Joint Security Area" fu uno dei maggiori incassi del 2000), è uno di quei filmmaker che hanno tracciato la strada da seguire per un cinema che riuscisse a coniugare un'alta qualità tecnica a un responso commerciale che permettesse ai registi di continuare a godere di una grande autonomia. In tal senso, anche l'aspetto politico del cinema di Bong risulta interessante, perché s'incardina in una rilettura personale dei codici di genere, diversamente da Lee Chang-dong, che già a partire dalla sua opera seconda, "Peppermint Candy" (1999), propone un'indagine verticale sulla storia recente della Corea del Sud andando ad allestire una sintassi filmica e un linguaggio figurativo fortemente autoriali.
Negli stessi anni, Kim Ki-duk e Hong Sang-soo lavoravano in interstizi produttivi indipendenti incoraggiati dal crescente apprezzamento del circuito festivaliero internazionale - questo vale tuttora per Hong, molto meno per Kim - mentre il pubblico pagante coreano scopriva il nuovo cinema d'azione e le varie declinazioni della commedia, di cui non si può non citare la rom-com "My Sassy Girl" di Kwak Jae-yong che, nel 2001, divenne a sorpresa un campione d'incassi in tutto il sud-est asiatico.

"Memories of Murder" è dunque assurto a modello produttivo e artistico che ha esercitato una perdurante influenza negli ultimi tre lustri. Se il mélange di registri, attraversati da un disturbante timbro grottesco, è probabilmente la maggiore eredità di uno dei padri nobili del cinema moderno coreano, ossia Kim Ki-young, l'ambientazione, la detection e il pessimismo di fondo sono diventati elementi di un repertorio che più volte abbiamo rivisto in produzioni successive: dall'action-noir metropolitano di "The Chaser", pregevole debutto di Na Hong-jin, a "Confession of a Murder", un'altra pellicola ispirata alla stessa serie di delitti, da "Mother" in cui Bong rielabora alcuni temi del suo capolavoro, dando voce alle vittime di indagini sommarie e superficiali, fino a "The Wailing", opera terza di Na, che inizia in maniera assai simile a "Memories of Murder" per poi saltare lo steccato del thriller deragliando il racconto in folle e grottesco horror.
Nel frattempo sono passati quasi vent'anni, l'industria del cinema coreana si è assestata su moduli consolidati e autori come Park Chan-wook posseggono da tempo un prestigio e una risonanza internazionale. Ma se, come si pronostica, Bong Joon-ho il 10 febbraio 2020 sarà il primo regista sud-coreano a salire sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles per ritirare l'Oscar al miglior film internazionale per "Parasite", allora, vale la pena rivedere questa pietra miliare, passo fondamentale di una carriera luminosa.


29/06/2008

Cast e credits

cast:
Song Kang-ho, Kim Sang-kyung, Kim Roe-ha, Song Jae-ho, Byeon Hee-bong


regia:
Bong Joon-Ho


titolo originale:
Salinui Chueok


distribuzione:
Lucky Red, Academy Two


durata:
132'


produzione:
Sidus Pictures, CJ Entertainment


sceneggiatura:
Bong Joon-ho, Kim Kwang-rim, Shim Sung-bo


fotografia:
Kim Hyung-ku


scenografie:
Ryu Seong-hie, Yu Seong-hie


montaggio:
Kim Sun-min


musiche:
Iwashiro Taro


Trama
Corea del Sud, 1986. In una piccola cittadina di campagna, in un canale di scolo lungo una strada che attraversa i campi coltivati, viene ritrovato il corpo di una giovane donna barbaramente stuprata ed uccisa. Poco tempo dopo viene ritrovata un'altra vittima...