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recensione di Ivan Barbieri

Vittime di guerra

"La sera del 21 settembre 1945 io morii". Il lapidario incipit di "Una tomba per le lucciole" riassume ancor meglio del titolo stesso il contenuto serio e grave dell'opera. Siamo in un Giappone spossato dai logoranti attacchi aerei della flotta statunitense. Alla stazione di Kobe, il quattordicenne Seita trova una morte solitaria nell'indifferenza della gente e un ufficiale di passaggio, gettando una confezione di caramelle appartenuta al ragazzo nel prato circostante, evoca gli spiriti del protagonista e della sorella. Così, attraverso un dolente percorso a ritroso, riviviamo gli avvenimenti che hanno condotto alla tragedia già rivelata in partenza. Scopriamo che, orfani di guerra, Seita e la sorellina Setsuko vengono posti di fronte ad una sfida ai limiti della sopravvivenza - "a 4 e 14 anni decisero di provare a vivere", commenta amaramente la tagline originale: dapprima vengono condotti da una parente, ma la fame e l'egoismo di chi incontreranno lungo il loro cammino li costringeranno a un estremo, e infine vano, tentativo di salvarsi. Rifugiatisi nei pressi di uno stagno, vivranno in simbiosi con la natura i loro ultimi giorni.


La genesi del racconto

Per i numerosi appassionati dell'animazione giapponese, l'anno 1985 coincide con il dolce ricordo della nascita di una nuova coalizione di geni creativi in grado di rivoluzionare l'animazione globale con opere qualitativamente superiori, che arriveranno per deliberata ammissione dei diretti interessati ad influenzare i (capo)lavori della Pixar: lo Studio Ghibli. I suoi membri più rappresentativi sono Isao Takahata, regista della serie tv "Heidi", e Hayao Miyazaki, iĺ più famoso collega il cui stile e le cui modalità espressive e tecniche diverranno lo standard della casa giapponese. Se di Miyazaki anche il grande pubblico occidentale conosce le più celebri avventure ("Si alza il vento", "Il castello errante di Howl" e soprattutto "La città incantata"), di Takahata, inizialmente mentore di Miya-San, le tracce in Occidente si riducono più che altro a qualche sporadica uscita home video o a recuperi cinematografici colpevolmente tardivi; basti pensare che "Una tomba per le lucciole" troverà una sua uscita nelle sale italiane solo nel 2015, in un'edizione con doppiaggio rinnovato, peraltro accompagnata dalla confusionaria decisione di modificarne il titolo in "La tomba delle lucciole" (circostanza che ha creato qualche incertezza nella nomenclatura).
Il nome di Takahata si accompagna ad un aneddoto insospettabile e curioso: non ha un talento naturale per il disegno, non possiede i mezzi tecnici e manuali che sembrerebbero il bagaglio essenziale per svolgere al meglio la sua professione. Come dichiarerà Goro Miyazaki, figlio di Hayao e regista del sottovalutato "La collina dei papaveri", il nostro "è molto limitato nei disegni dei suoi storyboards - un volto umano è reso semplicemente con un cerchio e due puntini che dovrebbero stare ad indicare gli occhi - tuttavia egli specifica la posizione del personaggio e l'angolazione della telecamera con straordinaria accuratezza". È dunque la capacità di mettere in scena la storia, di svilupparne idealmente le inquadrature e di immaginarle unite in sequenza che fa di Isao uno dei nomi imprescindibili del cinema nipponico. Accompagnata da una visione del mondo peculiare, simile per alcuni aspetti a quella dell'amico-discepolo-collega-rivale Miyazaki, che vede al proprio centro temi universali quali le difficoltà dell'infanzia, i sacrifici necessari, la natura che soccombe alla violenza senza senso propinata dall'uomo, la separazione da ciò che si ama. Sono questi i fili con cui il regista ricama storie differenti nello stile (è forse proprio la scarsa predisposizione al disegno pratico che fa di Takahata un autore in grado di far mutare costantemente tecnica ai suoi film) ma riconoscibilissime nel gusto malinconico. Se da un lato della barricata Hayao, più ottimista (salvo il suo struggente testamento: "Si alza il vento"), è di sovente accostato alla figura di Akira Kurosawa per il senso dell'epica, il Takahata di "Una tomba per le lucciole" pare più vicino ad un cinema che ponga l'accento sulle relazioni umane senza sentire il bisogno di assecondare le esigenze dei più piccoli. È comunque bene sottolineare che la questione tra Takahata e Miyazaki non si possa certo esaurire in poche righe vista la complessità insita nelle sfaccettate filmografie di entrambi.
Resta il fatto che a distanza di qualche anno dalla storica inaugurazione, due film vedono la luce nella stessa stagione. Simili nelle tematiche e in un approccio tutt'altro che infantile al mondo dell'animazione, eppure così diversi, frutto di due visioni prossime e vicine, eppure parallele e inconciliabili. Il primo, "Il mio vicino Totoro" (di Miyazaki), è una favola improntata sulla malattia e sulla fantasia come fuga dalla realtà (o accettazione di essa); l'altro è l'opera in questione, amaro documento che rifiuta qualsiasi retorica per farsi sofferta testimonianza. Il materiale di partenza è costituito da una fonte letteraria semi-autobiografica: il romanzo di Nosaka Akiyuki, che perse una sorella in circostanze simili a quelle viste nel film. Un argomento che richiede, oltre alla serietà e al rispetto, anche un'aderenza al reale che l'animazione mai aveva precedentemente sperimentato. Classe 1935 (visse perciò questo particolare momento storico), Takahata si fa carico della sfida.


Neorealismo


Se "Il mio vicino Totoro" rimane una favola che si muove tra le pieghe della sofferenza ma trova nel fantastico un viatico per sperare ancora, divenendo per altro l'icona rappresentativa dell'intera epopea Ghibli, "Una tomba per le lucciole" abbraccia la purezza e la semplicità di un racconto neorealista capace di ricordare da vicino l'immediatezza e al contempo la profondità dei lavori di Rossellini, De Sica o Olmi. Un film pessimista ma sobrio, crudo, senza compromessi. "Dovete accettare la vita per quello che è. La rassegnazione è la chiave per sopravvivere alle peggiori situazioni (...) Non è detto che sia negativo arrendersi alle evenienze. In realtà è essenziale", così Takahata in un intervento.
Il maestro promuove così un modo nuovo di concepire l'animazione, non più vincolata alle forme espressive tipiche del mondo infantile ma pronta a farsi carico, alla pari e forse più del cinema live action, di un impegno sociale che non si piega di fronte alla sfida di mostrare alcune immagini scioccanti senza alcun filtro (citiamo la più traumatica: la madre bendata e divorata dalle larve). Una violenza brutale, privata di qualsiasi fascino.
E come accade coi grandi film italiani del Dopoguerra, la storia principale diventa il cavallo di Troia attraverso cui tratteggiare il ritratto impietoso e critico di un'intera nazione. Mentre i film statunitensi che trattano temi morali (o presunti tali) vedono nella minaccia esterna il nemico da abbattere per preservare i valori limpidi connaturati nel proprio tessuto sociale, più intelligentemente Takahata identifica i mostri tanto negli invisibili invasori quanto negli ipocriti giapponesi, il cui egoismo e la cui indifferenza costituiranno le principali cause dell'inevitabile conclusione. Si disegnano figure che agiscono in nome della patria come ipocrita scusa per un velato, ma non meno rivoltante, egoismo. La fredda zia, la quale nega ai due protagonisti del cibo per donarlo invece a chi si prodiga attivamente per il Paese, è la degna rappresentante di questa categoria. Peraltro questa idea di negazione tornerà a farsi largo anche nel successivo lavoro di Takahata, "Pioggia di ricordi - Only yesterday" (1991).


Infanzia perduta


Ma è nella caratterizzazione dei protagonisti, scevra di ogni retorica o buonismo, che Takahata vince la sfida. Nel viaggio (per alcuni versi iniziatico e per altri catartico) di Seita e Setsuko leggiamo il tentativo di ricercare quella serenità propria dell'infanzia in un contesto troppo severo per accoglierlo, tema caro da sempre al Maestro. Per il "fratellone" si tratta infatti di divenire adulto per farsi riferimento per la piccola Setsuko, per la sorellina l'intera disavventura indica il superamento della dipendenza materna (oltre che della lotta fisica alla fame). Con personaggi come questi il semplice "grazie" finale, con cui Setsuko si congeda dalla vita e da Seita, rimane allora il vertice emotivo dell'intera filmografia Ghibli; un momento straziante reso ancor più doloroso dal fatto di non sapere se le pietre che la piccola scambia per polpette di riso da offrire al fratello siano frutto dello sfinimento fisico o siano invece riconducibili ad un tentativo ultimo di riappropriarsi, attraverso il gioco, di un'infanzia precocemente perduta.
È infine da sottolineare il magistrale uso che il regista fa degli elementi naturali e degli ambienti domestici, capaci di riflettere pienamente lo stato d'animo di chi è in scena: dapprima le tinte ocra e gli scenari desolanti del villaggio raso al suolo, vestigia di un tessuto sociale ormai inaridito, poi lo straniante trasferimento a casa dei parenti, perfetta quanto severa e inospitale, quindi il verde dell'oasi in cui si consumeranno le ultime ore degli sventurati bambini. Le lucciole, la cui breve magia è destinata ad infrangersi contro una realtà che le vuole morte troppo presto, diventano cosi l'emblema di un'opera in grado di elevarsi ai massimi livelli simbolici ed emotivi dell'animazione mondiale e della Settima Arte tutta.


"I cartoni fanno paura"


Se il capolavoro di Takahata, in definitiva la sua opera magna, da sempre raccoglie pareri diametralmente opposti alla sua ancora ridotta diffusione, pare significativo citare il pensiero stesso di Akiyuki a proposito della trasposizione del suo romanzo: "La Kobe di quegli anni che io stesso avevo scordato mi è davvero tornata davanti agli occhi. Il ragazzo, il viso della bambina affamata, i volti degli adulti di quegli anni, erano tutti lì..." Visti i rapporti spesso tesi tra chi scrive e chi traspone su schermo, la convizione è che per Takahata non possa esserci riconoscimento migliore di queste parole. Non resta allora che sottolineare la sua conclusione e unirsi nel dichiarare senza mezzi termini che "i cartoni fanno paura".


22/08/2017

Cast e credits

cast:
Tsutomu Tatsumi, Ayano Shiraishi, Yoshiko Shinohara, Akemi Yamaguchi


regia:
Isao Takahata


titolo originale:
Hotaru no haka


distribuzione:
Koch Media


durata:
85'


produzione:
Studio Ghibli, Shinchosha Company


sceneggiatura:
Isao Takahata


fotografia:
Nobuo Koyama


montaggio:
Takeshi Seyama


musiche:
Michio Mamiya


Trama

Attraverso un dolente percorso a ritorso, riviviamo gli avventimenti che hanno condotto alla morte di due giovani fratelli. Orfani di guerra, Seita e Setsuko vengono posti di fronte a una sfida ai limiti della sopravvivenza. Rifugiatisi nei pressi di uno stagno, vivranno in simbiosi con la natura i loro ultimi giorni.