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A margine della presentazione di "Guerra e pace", Massimo D'Anolfi, che insieme a Martina Parenti ne è l'autore, ci parla del film, della sua realizzazione, ma anche del documentario come genere dalle tante prospettive

Quanto è importante oggi avere una casa di produzione indipendente anche per poter girare un documentario?

Per il nostro metodo di lavoro e il nostro approccio al cinema, avere una propria casa di produzione è stato fondamentale e ci ha permesso in questi anni di lavorare nelle migliori condizioni a noi possibili. Non riteniamo che ci sia un approccio univoco e universale: crediamo che le persone che vogliono fare cinema, sia esso di finzione o documentario, debbano trovare la propria modalità, il proprio approccio e i propri strumenti.


Come è nata l’idea di girare "Guerra e pace"?

"Guerra e pace" è nato da una riflessione intorno alla diplomazia di oggi. Sul finire del 2016 c'eravamo imbattuti in una via dove c’erano diverse ambasciate e da lì ci siamo chiesti appunto che valore avesse la diplomazia oggi. Questa riflessione sulla diplomazia ci ha portato a ragionare sulla politica estera e inevitabilmente sulla guerra. La guerra, a sua volta, ci ha spinto a ragionare sul valore delle immagini, su come il cinema e le immagini influenzano a loro volta la guerra e la sua percezione, e da qui è poi scaturita la riflessione sugli archivi della memoria. Questo è stato, sinteticamente, il percorso che ha preceduto il film. Come spesso accade, questo processo, questo percorso è poi diventato col trascorrere del tempo la materia del film e, in qualche  modo, il film stesso.

Durante e dopo la realizzazione di "Materia oscura", qual è stata la reazione dei vertici militari in Sardegna?

Non ho idea di quale sia stata la reazione dei vertici militari perché non ho nessuna relazione con loro. Mi sembra che vi sia tutta una strategia di insabbiamento del processo e di tutto quello che riguarda quel luogo. Questa strategia, tuttavia, è nota ed è comunque  il motivo per cui da anni se ne parla, ma purtroppo non si riesce ad avere una giustizia vera e propria.

In "L’infinita fabbrica del Duomo" e soprattutto in "Blu" si dà visibilità ad attività e lavoratori invisibili, in ogni senso. Nel portare sul grande schermo realtà misconosciute, sentite un po' di filiazione rispetto a Werner Herzog?

Ovviamente Herzog è un regista che amiamo. Herzog ha una sua ricerca ben precisa, un’impostazione del lavoro molto diversa, però insomma i suoi film, sia quelli documentari che quelli di finzione, li abbiamo sempre apprezzati, e quindi sicuramente il suo sguardo ci ha formato e risuona nel nostro lavoro.


Con uno sguardo retrospettivo rispetto a quando avete iniziato a girare documentari, che consiglio si sentirebbe di dare a chi volesse esordire in questo genere di film?

Non credo di avere nessun consiglio in particolare da dare; forse l’unica cosa che mi sento di dire è quella di cercare ostinatamente e con coraggio la propria strada e nuovi modi di raccontare.


Nella scelta delle inquadrature preferisce farsi guidare da un principio generale o dall'ispirazione del momento?

A dire il vero, quello delle riprese è proprio il momento più istintivo, quello in cui mi sento più libero. Faccio quindi  effettivamente un enorme affidamento proprio sul gesto, sull’atto istintivo, che sicuramente è, come dire, consolidato dalle visioni, dalle letture, da quello che sono diventato. Credo che in questo sia l’istinto a guidarmi.


Per dei registi documentaristi la fase del casting è un problema in meno. Quali sono invece gli scogli più insormontabili che avete dovuto superare?

In un film come "Guerra e pace" l’ostacolo maggiore è stato, dal punto di vista produttivo, quello di ottenere i permessi per girare all'interno di istituzioni complesse e delicate, come appunto il Ministero degli Esteri italiano, o l’ECPAD, che è l’archivio gestito dala Ministero della Difesa francese; tutto ciò ci ha sicuramente portato via tempo, energie e anche, in qualche modo, creatività. Da un punto di vista creativo, "Guerra e pace" è un film che abbiamo girato in quattro anni in diversi luoghi d’Europa e quindi comunque il maggiore sforzo creativo è stato quello di immaginare come questi luoghi dialogassero tra loro in fase di riprese e poi di montaggio, e di capire inoltre quali fossero le profonde relazioni che portavano da un determinato spazio e tempo verso un altro. 


I documentari sull'ambiente, penso al vostro "Materia oscura”, a "Il sale della terra" di Sebastião Salgado e Wim Wenders, o ancora ad "Antropocene - L'epoca umana", si è ritagliato uno spazio sempre più autonomo diventando un genere nel genere. Questo anche grazie alla maggiore sensibilità del pubblico giovanile verso tali tematiche?

Non so esattamente cosa risponderti. Posso dirti sicuramente che il pubblico più giovane spesso è un pubblico che ama un certo tipo di cinema, però sono sempre un po’ allergico alle categorie, alle gabbie, alle definizioni. Io credo che esistano i film belli e quelli brutti, i film complessi, quelli semplicistici, i film più interessanti e quelli meno. Quindi non saprei dire qual è il motivo. Un certo tipo di cinema è sempre esistito e spero, come credo, che continuerà ad esistere: rinnovando il linguaggio, rinnovando le visioni. Ad  ogni modo ciò che lo contraddistingue è la ricerca di nuovi modi di raccontare la realtà, e non solo.


Viviamo oggi subissati da immagini di ogni tipo. Una minutaggio significativo di "Guerra e pace" è dedicato alla scuola di cinema per militari francesi. Al di là di ciò, cosa pensa del fatto che nelle scuole superiori italiane non venga insegnato il cinema?

Dal nostro punto di vista l’insegnamento del Cinema nelle scuole superiori sarebbe una cosa meravigliosa, perché comunque, per la formazione, sono quelli gli anni in cui abbiamo iniziato ad amare il Cinema e quelli in cui abbiamo in qualche modo iniziato a studiarlo. Io, personalmente, durante le superiori, alcuni giorni della settimana non andavo a scuola per frequentare l'Università e seguire le lezioni di storia del Cinema. Di questi tempi in cui le immagini sono ovunque e segnano la vita di tutti, sicuramente la conoscenza profonda del valore delle immagini sarebbe uno strumento utilissimo alle nuove generazioni.





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