Ondacinema

Vittoriano Gallico è membro del laboratorio di ricerca LAMO (Littératures Antiques et Modernes) dell’Università di Nantes, presso la quale si è dottorato in italianistica, e insegna italiano presso le scuole secondarie francesi. Ondacinema lo ha intervistato per discutere del suo volume "L'opera di Paolo Sorrentino tra le immagini di Federico Fellini e di Martin Scorsese", edito da Mimesis. 

Perché Sorrentino?

Direi per due motivi, uno più personale, uno per così dire più analitico. L’interesse per Sorrentino è nato scoprendo con meraviglia "La grande bellezza" nel 2013. Il quel film c’era qualcosa di molto felliniano, almeno in apparenza, o comunque qualcosa che voleva far ricordare Fellini e "La dolce vita". Interviene, dunque, la seconda ragione più analitica. In Italia come in Francia, i pareri critici su Sorrentino erano e sono dissonanti. Ciò che ho notato col tempo e di cui, peraltro, colleghi e amici mi hanno dato conferma è che Sorrentino è spesso amato oppure odiato. In ogni caso, è un regista che provoca emozioni forti, sia nell’elogio che nel dissenso. Credo che buona parte dei pareri negativi su Sorrentino siano nati dal rifiuto di vedere "La grande bellezza" come opera figlia de "La dolce vita", dunque, per estensione, di vedere Sorrentino come erede di Fellini. Un rifiuto che rendeva intrigante la questione delle influenze. Da qui è dipesa la mia scelta di elaborare un progetto di dottorato su Sorrentino che ho portato avanti dal 2016 al 2020 all’Università di Nantes. Il parallelo con Scorsese è nato da un suggerimento dello stesso Sorrentino, dal discorso che fece agli Oscar nel 2014.

La tua è una disamina estesa, analitica, ma se dovessi riassumere in poche righe i punti di convergenza più significativi tra Sorrentino e Fellini, Sorrentino e Scorsese?

È una domanda interessante ma anche, in un certo senso, rischiosa perché nel mio lavoro ho tentato di mettere in risalto il valore della dissonanza, intesa come parametro non discriminante nell’intreccio delle influenze. Ma provo comunque a formulare una risposta. Credo che un punto di contatto determinante tra Sorrentino e Scorsese risieda nell’interesse condiviso per l’individuo, ossia nella tendenza a considerare l’individuo come il fulcro dell’immagine, ciò che invece scompare gradualmente in Fellini (si pensi ad "Amarcord" o ai falsi-documentari da "I clowns" a "Intervista" dove regna una collettività di figure, peraltro sempre più grottesche). Questo punto di contatto con Scorsese deriva sicuramente da un’altra affinità tra Sorrentino e il regista italoamericano, ovvero l’attrazione per gli uomini di potere sull’orlo del declino.
Per quanto riguarda Fellini, credo che vi siano tanti punti di incontro quante sono le discrepanze visive e tematiche che ne derivano e che determinano la specificità dell’immagine sorrentiniana (in positivo o in negativo): il ricorso a movimenti di cinepresa vertiginosi interrotti da immagini o comparse frammentarie, l’interesse per l’artificio e per visioni chimeriche, per citarne solo un paio.

Nel libro parli di una importante differenza tra l’immagine felliniana, animata da una forza centrifuga, che attraverso il frammento scardina la realtà in un onirismo sfrenato, e quella sorrentiniana, animata da una forza centripeta che attraverso il frammento si riallaccia a un ordine costituito.

Esatto, è un ottimo esempio rispetto a ciò che evocavo poc’anzi, ossia un’apparente analogia tra Sorrentino e Fellini da cui scaturiscono, in fin dei conti, due immagini molto diverse. Credo che il contrasto sia molto visibile nel confronto tra "Otto e mezzo" e "Youth". Due film per molti versi simili, costruiti in huis-clos e ambientati prevalentemente in un centro termale, che parlano di due artisti – rispettivamente un regista e un compositore – in crisi intellettuale e relazionale. Due film, inoltre, che presentano dei finali in apparenza affini ma visivamente disparati. Il disordine felliniano è quello del girotondo che chiude "Otto e mezzo" senza che la riunione dei personaggi abbia le pretese di mettere ordine alla trama senza trama del film, né tanto meno alla confusione del protagonista. Il personaggio di Marcello Mastroianni in "Otto e mezzo" deve abbandonare il progetto del film che dovrebbe dirigere (uno strambo film nel film con tanto di astronave), laddove in Youth il protagonista (Michael Caine) torna a fare il direttore d’orchestra e trova uno slancio inatteso verso la vita: la giovinezza dopo la vecchiaia. Alla fine del film di Sorrentino anche i personaggi secondari si liberano e tornano a vivere.
Il girotondo felliniano celebra, dunque, il disordine ed è animato da una forza centrifuga, il finale sorrentiniano è invece la festa dell’ordine ritrovato, immagini lontane che riscoprono un fulcro comune (la forza centripeta per l’appunto). Credo che il parallelo tra "Otto e mezzo" e "Youth" sia una buona testimonianza di come, in Sorrentino, l’ordine e l’equilibrio narrativo siano due parametri indispensabili, salvo alcune eccezioni come ad esempio "The Young Pope".

Sorrentino e Scorsese. Entrambi affascinati dall’ascesa e caduta, la parabola esistenziale di personaggi di successo che rimangono, nonostante tutto, degli outsider, figure liminali, in bilico tra impulsi contrapposti. Penso magari, per rimanere negli ultimi anni, al Jimmy Hoffa di "The Irishman" e il papa giovane Lenny Belardo di "The Young Pope".

Jimmy Hoffa ha un ruolo preponderante in "The Irishman" perché è il personaggio tramite il quale si materializza il paradosso del protagonista Frank Sheeran: uccidere il suo migliore amico, per l’appunto Jimmy Hoffa, semplicemente per rispettare un ordine ricevuto dall’alto. Si arriva, dunque, a questo omicidio paradossale: per Sheeran è il male peggiore che ci sia, un fratricidio, ma l’omicidio di Hoffa è anche un semplice sottostare alle regole e alle gerarchie del clan. L’omicidio è paradossale e la sua messa in scena lo è altrettanto: è un climax spento, privo di pathos, una sequenza lenta e silenziosa, come se appartenesse alla routine di un sicario qualunque. Ecco, Belardo in "The Young Pope" è, secondo me, uno dei personaggi più singolari di Sorrentino, proprio perché, come in "The Irishman", anche in lui risiede qualcosa di paradossale: è un papa giovane e retrogrado, un miscredente ma anche un santo che fa miracoli.

Il Sorrentino politico. Tu scrivi che in opere come "Il divo" e "Loro", centrate sulla storia recente del nostro paese, "la libertà finzionale condensa una lettura specifica del passato." Cosa può offrire allo sguardo di uno storico la visione di Sorrentino, che pare avere una prospettiva molto precisa al riguardo. Cito una sua intervista, "il mondo andreottiano è sospettato di connivenza con le stragi, quello berlusconiano, tutt’al più, di Sodome senza estetica e corruzioni da basso impero".

Credo che questa citazione di Sorrentino riassuma bene la lettura del personaggio di Berlusconi in "Loro" alla luce proprio della descrizione di Andreotti ne "Il divo". Il passaggio da Andreotti a Berlusconi in Sorrentino non è un aggravamento delle medesime degenerazioni politiche andreottiane, ma la destituzione della politica in favore di forme vuote di godimento. In Andreotti e ne "Il divo" c’è ancora qualcosa di politico, benché nella sua forma più illecita e più pericolosa. In "Loro" abbiamo un politico-imprenditore attorno a cui ruotano aspiranti attrici e deputati, un personaggio che rifiuta i segni della vecchiaia e che ama mettersi in scena. Ma quelli di Berlusconi sono spettacolini privati e ridicoli, ricordi nostalgici dell’epoca in cui faceva l’animatore nelle navi da crociera. "Il divo" e "Loro" sono due film politici molto diversi, due letture disparate, il che rende lo studio comparatistico dei due lungometraggi molto interessante.

Attingi molto alla tradizione letteraria francese. Ad esempio citi Derrida, quando suggerisce ne La scrittura e la differenza l’esistenza di una parola "che rifiuta di articolarsi in una sintassi della ragione." Si può affermare che da una sensibilità affine nasce l’iperbole, tratto così tipico dello stile sorrentiniano?

Ecco, quando prima si diceva del pubblico che detesta Sorrentino, penso che buona parte di questa intolleranza nei confronti del regista sia dovuta a un gesto iperbolico tipico dei suoi personaggi: l’aforisma. Il ruolo dell’aforisma in Sorrentino non è semplice da definire perché ci sono alcuni aforismi che offrono una comprensione della realtà, altri no. Si pensi a "È stata la mano di Dio" (che purtroppo per ragioni cronologiche non ho potuto integrare al libro) dove abbiamo una frase di Fellini che giunge al protagonista tramite suo fratello e che recita: "la realtà è scadente".
In fin dei conti è una massima insufficiente, ma non perché l’aforisma in sé risulta una formula approssimativa o presuntuosa, ma perché bisogna trovarne uno che funzioni meglio. Il secondo adagio sarà più sibillino, quel "non ti disunire" di Antonio Capuano e varrà come insegnamento.
Invece, è in un lavoro meno recente, "L’uomo in più" (primo lungometraggio di Sorrentino del 2001), che l’iperbole viene messa al centro della trama, nonché mostrata nella propria insufficienza: ci sono due personaggi che hanno perso la notorietà che possedevano, uno di loro – il calciatore – sceglie il gesto iperbolico del suicidio, l’altro – il cantante – accompagna il proprio declino, abbracciandolo in un certo senso, tuffandosi in acqua prima di finire in prigione. Il secondo gesto, quello del tuffo, completa il primo tentativo iperbolico mostrandone dunque l’insufficienza. Ma i due momenti si articolano in Sorrentino, il che mi ha spinto ad invocare la nozione derridiana di "economia".

Un secondo autore è Bataille, citato dallo stesso Sorrentino in relazione alla "dilapidazione gratuita della propria vita", aspetto che accomuna diversi personaggi delle sue opere. Cosa c’è di familiare in questa cupio dissolvi, questo anelito all’autodistruzione così prepotente negli uomini sorrentiniani?

Sorrentino ha più volte affermato di preferire le discese alle ascese. È vero che ci sono molti personaggi che, per cinismo o per sfortuna, sembrano fare di tutto per agevolare il loro declino. Si pensi semplicemente allo scrittore mondano de "La grande bellezza" ormai rassegnatosi al vortice delle mondanità di cui è lui stesso un esponente di rilievo. Ma questa idea di "dilapidazione" non mi sembra un punto di approdo nelle storie di Sorrentino. Anzi, Sorrentino conduce spesso i personaggi dall’autodistruzione, o dalla decadenza programmata, al risveglio e alla rinascita: succede ne "La grande bellezza", in "Youth" ma anche qualche anno prima in "This Must be the Place", tre film che hanno un finale aperto e proteso verso un futuro migliore.

La figura della donna, invece. Talvolta epifania religiosa, talvolta oggetto di consumo. Cos’è la donna nei film di Sorrentino?

Comincerei da che cosa non è: con parziale eccezione del personaggio di Rosalba (Laura Chiatti) ne "L’amico di famiglia" le donne non sono mai protagoniste in Sorrentino. Anche se il prossimo film, annunciato in preparazione col titolo "The mob girl", potrebbe smentirmi perché dovrebbe avere come protagonista una donna interpretata da Jennifer Lawrence. Dunque, la donna in Sorrentino: la critica ha rilevato due tendenze che, in sintesi, consisterebbero nell’erotizzazione e nella desessualizzazione. Diciamo che le due opzioni sono com-possibili: le donne in Sorrentino sono viste da una prospettiva maschile ed eterosessuale (si è più volte parlato di scopofilia), ma questa prima caratterizzazione erotizzante viene spesso completata da un secondo tipo di relazione uomo-donna che avviene al di fuori del sesso.
Non a caso, in Sorrentino, rari sono gli atti erotici mentre più volte torna il rifiuto del sesso, rifiuto che poi diventa l’occasione di scoprire qualcos’altro: un ricordo o un sentimento. Una delle scene forse più famose de "La grande bellezza" è uno scambio di battute tra Jep (Toni Servillo) e Ramona (Sabrina Ferilli): "è stato bello non fare l’amore", dice il primo, frase a cui la seconda risponde "è stato bello volersi bene". Tranne la scena dell’amplesso tra Fabietto e la baronessa in "È stata la mano di Dio", precedentemente raccontata nel romanzo "Hanno tutti ragione" (2011), si può dire che Sorrentino sia un cineasta pudico. Di certo nei suoi film non mancano figure femminili sensuali, ma ciò che conta alla fine nel rapporto uomo-donna sono il sentimento e l’emozione, due termini che tornano spesso in Sorrentino.

In un mondo ormai svuotato di stabili riferimenti morali, religiosi e culturali, segnato dalla lacaniana "evaporazione del padre", Paolo Sorrentino mostra nelle sue opere un assortimento di figure guida emarginate e bizzarre, assimilabili a freaks – Maradona, Miss Universo, lenoni, eremitesse, contrabbandieri –, come a dimostrare che malgrado tutto esiste ancora la possibilità di rinvenire un senso nel marasma confuso della contemporaneità. Questa forse l’eredità più importante del cinema di Sorrentino?

Credo che sia un’analisi molto pertinente. A inizio maggio di quest’anno ero all’Università per Stranieri di Perugia per una tavola rotonda su Sorrentino ed è emerso proprio il discorso dell’assenza del padre e dell’orfanità. Sicuramente la ripresa del tragico episodio della morte dei genitori di Paolo Sorrentino in "È stata la mano di Dio" ha puntato i riflettori su una questione tanto tabù quanto, in realtà, più complessa del mero riferimento autobiografico. Ciò che ho potuto constatare nel mio lavoro di ricerca è che nelle opere di Sorrentino esistono una serie di guide strampalate che, pur essendo in genere poco edificanti, permettono ai personaggi principali di trovare una liberazione. Mi sono permesso di definire questo fenomeno "condizione orfana": i punti di riferimento sono poco edificanti o comunque poco validi, ma ciò non ci impedisce ai protagonisti di imparare lo stesso e di trovare una via di uscita.
E "la condizione orfana" non attiene solo al piano autobiografico, ma consente di leggere l’epoca in cui sono ambientate le opere di Sorrentino, un’epoca in cui mancano i punti di riferimento e i cui modelli sono necessariamente atipici. È forse lo stesso per Fellini e Scorsese, i due maestri cinematografici di Sorrentino: non possono essere ripresi né emulati, sono fonti di ispirazione da cui, però, Sorrentino non può che dissociarsi. Ma è un dissociarsi fecondo, una distanza che diventa fruttuosa e che riattualizza la nostalgia in qualcosa di pieno e vivo nel presente. È per questo che il cinema di Sorrentino deve essere diverso da quello di Fellini e ovviamente anche di Scorsese. Ed è forse qui che risiede l’eredità che l’opera di Sorrentino ci sta pian piano lasciando.