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Synecdoche, Italia

EDITORIALE - L'arrivo nelle sale cinematografiche di "Synecdoche, New York" con oltre sei anni di ritardo offre l'occasione per determinare lo stato di salute della distribuzione cinematografica italiana. Concetto che fa rima in generale con il declino culturale del nostro Paese

Tra la folta rappresentanza di film in concorso alla 61a edizione del Festival di Cannes, sei anni fa, ve n'era forse uno che, almeno in partenza, destava più curiosità degli altri, non tanto per la quasi impronunciabilità del suo titolo, quanto per l'esordio alla regia di uno tra i più geniali sceneggiatori dell'ultimo ventennio americano. La critica cinematografica attendeva "Synecdoche, New York" e Charlie Kaufman sulla scia dei numerosi consensi già conquistati dall'autore nei più creativi lavori diretti da Spike Jonze e Michel Gondry. Una collaborazione con i due cineasti culminata meritatamente con il Premio Oscar alla sceneggiatura per "Eternal Sunshine of A Spotless Mind" di Gondry, nel 2005. È la possibilità per Kaufman, tre anni dopo, per prendere le redini della macchina da presa e mettere in scena un labirinto di emozioni molto profonde, dove il sogno della vita si scontra con l'incubo della morte, della sofferenza e della solitudine. Si tratta di un film tortuoso e a tratti bizzarro, interpretato magnificamente da un Philip Seymour Hoffman in stato di grazia. Ma a Cannes "Synecdoche, New York" viene letteralmente snobbato e smontato, e anche in madrepatria non gode di miglior fortuna. Tra i suoi estimatori c'è la firma autorevole di Roger Ebert che lo mette al primo posto nella classifica dei più bei film del decennio, ma in generale la faccenda è ben più triste e confusa. Il pubblico reagisce stordito all'imprevedibile flusso di coscienza di Kaufman, il ritmo è  troppo poco sostenuto e come da copione l'incasso al botteghino si rivela disastroso (tre milioni di incassi al cospetto dei venti sborsati dalla Sony). Oltreoceano, la distribuzione italiana si arrende al difficile compito di accaparrarsi una pellicola che ha avuto mille sfortune e difficoltà. Anche la BIM, non nuova a queste titaniche imprese (ricordiamo l'eroica distribuzione di "INLAND EMPIRE" l'anno prima), incappa in un'imprecisata battaglia legale che le impedisce di acquistare i diritti del film. Di fatto il pubblico del nostro paese non avrà mai l'occasione di assistere a una proiezione della pellicola. Solo il triste epilogo che il destino ha riservato a Hoffman è stato capace di smuovere le acque e di (ri)proporre il film nelle sale cinematografiche con oltre sei anni di ritardo.

phoenix.hoffman.ledgerAndando indietro nel tempo possiamo trovare dei casi analoghi (comunque mai identici al caso "Kaufman" sopra descritto) che legano l'uscita di un film in sala con l'imminente evento della tragedia: a cominciare da "Brick Mansions", uscito lo scorso primo maggio, che ha catturato su di sé i fan di Paul Walker, al suo ultimo lungometraggio prima del suo incedente mortale: nel mondo il film ha incassato sorprendentemente più di 32 milioni di dollari. Gli anni duemila si sono altresì caratterizzati per la prematura scomparsa dell'attore Heath Ledger, divenuto oggi quasi una leggenda grazie alla sue ultime e memorabili interpretazioni ne "Il cavaliere oscuro" di Nolan e in "Parnassus" di Gilliam, entrambi usciti postumi alla morte di Ledger. Il primo è attualmente il 18° film di maggior incasso mondiale di sempre, mentre il secondo ha guadagnato più del doppio del budget di produzione (in totale quasi 62 milioni di dollari) nonostante il film sia stato accolto in tutto il mondo in maniera piuttosto tiepida. Scavando nel decennio addietro impossibile non citare il mito di River Phoenix che, negli anni novanta, lasciò incompiuto il thriller "Dark Blood". È di due anni fa la notizia che il regista del film, Gorge Sluizer, sia riuscito attraverso un finanziamento collettivo a ultimare finalmente il lavoro, trovandosi di fronte, in modo del tutto inaspettato, il disinteresse dei distributori. Che il mito di Phoenix sia sconosciuto ai cinefili più giovani? Che non sia più così morbosamente attuale come lo sono (stati) Walker o Ledger?

Nonostante le analogie appena descritte, la morte di Hoffman in relazione all'uscita in sala di "Synecdoche, New York" rientra comunque in un disegno mai verificatosi precedentemente nell'ottica della distribuzione cinematografica recente, che è quello di consegnare allo spettatore una pellicola dopo sei anni di ritardo con il fine di commemorarne il protagonista, figura tra le più influenti della New Hollywood. Operazione nobile e doverosa, intendiamoci, ma che puzza inevitabilmente di facile profitto e di un'ipocrisia di fondo che non può eludere chi ama davvero il Cinema. Davvero difficile cercare di smentire e sovvertire una tesi così maligna e "complottista" a meno che il mezzo filmico non si riduca esclusivamente alla star che ne prende parte (una parte per il tutto, proprio come il significato della sineddoche che dà il titolo all'opera di Kaufman). Forse neanche i misteriosi e imprecisati problemi legali che ne hanno impedito la distribuzione cinque anni fa (la data di uscita ufficiale del 24 aprile 2009 non fu rispettata) possono a pieno eliminare i dubbi legati alla bontà dell'operazione. E i motivi sono tantissimi.

frances.haÈ difatti la situazione generale, più che il singolo caso, a rimarcare un atteggiamento indecifrabile dell'industria distributiva: ci si chiede se dobbiamo aspettare che il povero Brian De Palma debba tirare le cuoia per poter finalmente assistere alla visione in sala dei suoi ultimi lavori, se sia possibile un giorno intravedere le bellissime opere di Joon-ho Bong e Park Chan-wook al di fuori delle loro trasferte americane su commissione. Ci si chiede il motivo per il quale certe giovani promesse vengano sistematicamente lasciate fuori dai giochi, autori come il bambino prodigio Xavier Dolan, il figlio d'arte Jason Reitman (che dopo l'exploit di "Juno" si è visto chiudere la porta in faccia con l'ultimo "Labor Day"), o ancora il neanche tanto giovane Noah Baumbach che dopo la sorpresa di "Greenberg" è stato letteralmente ignorato con il suo ultimo e atteso "Frances Ha". Che sia il problema dell'autorialità a spaventare un facile accesso alla fruizione del mezzo cinematografico? Può darsi, ma se consideriamo che in America queste figure costituiscono, per certi versi, dei nomi di culto per gli amanti del settore, rimane davvero incomprensibile come si possa ignorarli. Tra l'altro, il concetto di "autorialità" è così entropico e in continua evoluzione da non poterne escludere a prescindere il successo o, per contro, il fallimento in sala. Al netto di taluni cineasti di fama mondiale esclusi senza apparente motivo dal circuito, sono poi i ritardi immotivati a prendere sempre più campo nell'industria della distribuzione nostrana. Ci si chiede allora quali siano i motivi che hanno spinto l'ultimo Jarmusch a essere proiettato a un anno esatto dalla sua prima mondiale a Cannes, tra l'altro aumentando sempre più la potenziale pandemia legata alla pirateria online. Esempio lampante: siamo sicuri sia una buona idea distribuire l'atteso Marvel Comics "I guardiani della galassia" quasi tre mesi dopo la sua prima negli States che avverrà ad agosto? Non è forse un modo per appoggiarla (la pirateria), invece di debellarla?

Di sicuro una cultura cinefila che in passato ha fatto grande il nostro Paese per decenni e che oggi si ritrova, per contro, smarrita e abulica (si pensi anche solo al declino funesto del mito di Cinecittà)  non può godere di uno spirito di miglioramento se, eccetto delle buone iniziative come la riproposizione delle versioni rimasterizzate dei più grandi classici del cinema (su tutti ricordiamo la riscoperta attuata recentemente con i classici di animazione firmati Myazaki), si continua a finanziare e bombardare di pubblicità il solito genere di riferimento per la massa, che sia il comico demenziale per un target giovanile o la commedia rosa per le coppie, o ancora il blockbuster per gli amanti dell'intrattenimento (solo per fare tre esempi molto generici e a livello macroscopico) senza puntare mai su un qualcosa di concreto e di "diverso", senza rischiare mai. La memoria va alla recente Festa del Cinema (svoltasi dall'8 al 15 maggio), ennesima occasione fallita per cogliere un nuovo punto di contatto con lo spettatore, spettatore che, invece, è stato come rigettato dall'evento a causa di una scelta commerciale infelice agli occhi dei più, per la quasi totale assenza di opere interessanti e la solita prosperosa predilezione per gli "scarti da macellazione".

Come accade a Caden Cotard, il regista teatrale interpretato da Hoffman in "Synecdoche, New York", la principale via di accesso alla fruizione di questa meravigliosa arte sembra essere come attorcigliata da un male (in)curabile che le preclude qualsiasi movimento (non è certo una novità che il mercato dei film in Italia sia incatenato dal duopolio Medusa/Rai). L'importanza di una completa, intelligente e onesta distribuzione cinematografica può davvero contribuire a diffondere un patrimonio conoscitivo universale poiché espresso attraverso un potente linguaggio alla portata di tutti. Ma la realtà è un'altra e in questo periodo avvolto dalla ragnatela della crisi economica e finanziaria non ci si aspetta che sia il cinema a riproporre le basi per un nuovo inizio, per un miglioramento della nostra educazione intellettuale e culturale. Eppure basterebbe un esempio, un modello da seguire per invertire la sciagurata rotta di questo anonimo e desolante vascello. A cominciare dalla distribuzione, una parte per il tutto, una sineddoche. Questa è la scommessa.





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