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In morte di Philip Seymour Hoffman

Per una volta ci è sembrato doveroso ricordare uno dei talenti più fulgidi dell'ultimo ventennio di cinema americano. In memoria di Philip Seymour Hoffman, morto il 2 febbraio 2014 all'età di 46 anni

Ci ripensavo ogni volta, e di recente nel vedere lo sconvolgente "Synecdoche, New York" di Charlie Kaufman (ancora, forse per sempre inedito in Italia). Philip Seymour Hoffman mi è sempre sembrato attore e personaggio al tempo stesso. Nell'immaginarmi una sua vita privata - probabilmente non quella di una star del cinema qualsiasi - rivedevo le sue singole interpretazioni, di fatto nient'altro che variazioni sullo stesso fragile tema: quello di un malinconico outsider che incassa, metabolizza, ma sempre sopravvive alle sfide della vita. Saperlo riverso nel bagno di casa sua a Manhattan, da solo, con un laccio emostatico e una siringa ancora penzolanti dal braccio, ci devasta come un finale che sembrava non dovesse arrivare mai, al cui riguardo ci mancherà sempre almeno un passaggio, custodito nel riserbo della famiglia che si lascia tragicamente alle spalle - una compagna e tre figli, tutti ancora bambini.

Trovo non sia una forzatura, e anzi mi viene del tutto spontaneo associarla a un'altra dipartita che ha segnato la mia generazione: il prodigio della letteratura postmoderna, D. F. Wallace, si spegneva cinque anni fa lasciando sì il vuoto - quello di un romanzo in piena gestazione, oltre che di uno sguardo sulla realtà del tutto unico - ma anche un patrimonio artistico denso e incalcolabile, ancora lungi dall'essere assorbito nella sua interezza e giudicato col senno di poi. Così anche Hoffman ha innegabilmente dato tantissimo al cinema contemporaneo, ma a dispetto dell'imponenza fisica era del tutto trasparente: non c'era mistero negli occhi inermi del suo personaggio, come non c'era finzione nell'occasionale risata, lauta e liberatoria, nemmeno nel sovrattono necessario a calarsi nei panni del sardonico Truman Capote; la sublime pacatezza di quel ruolo gli valse l'unico Oscar da protagonista, benché fossimo già abituati a quello che sembrava nato per essere il perfetto supporting actor (altre tre gli le nomination conquistate), quali che fossero l'autore o il copione.

Potrebbe anche essere un caso, ma Hoffman ha avuto il privilegio - e con lui i rispettivi registi - di prender parte ad alcuni dei lungometraggi più rappresentativi del nostro caotico tempo storico: a cominciare dal più grottesco film corale che si ricordi, "Happiness" di Todd Solondz, un riccetacolo di ruoli scomodi, addirittura compromettenti, in cui Hoffman riesce comunque a non essere uno fra tanti; passando obbligatoriamente per "Magnolia", l'insuperato affresco postmoderno di Paul Thomas Anderson, che già lo aveva scoperto e che lo scritturerà in quasi tutti i suoi film sino a "The Master"; poi il crepuscolare Spike Lee de "La 25a ora", l'atroce racconto morale di un tardo Lumet ("Onora il padre e la madre"), il succitato, mirabolante esordio registico di Kaufman e, non ultimo, il prestito della sua voce bassa e inconfondibile al capolavoro in stop-motion di Adam Elliott, "Mary and Max" - anch'esso scandalosamente inedito dalle nostre parti.

Sono solo gli esempi più evidenti di una carriera trionfale, tanto nelle premiazioni guadagnate quanto in quelle mancate, che ci ha permesso di vedere anche la sua prima e ultima prova dietro la macchina da presa, oltre che da protagonista: "Jack Goes Boating" fa convergere l'essenza più pura di Hoffman nella goffaggine di due individui complicati e incapaci a relazionarsi, che al termine di un accidentato cammino iniziatico scoprono insieme un'imperfetta, delicatissima felicità.

Ci mancano ancora alcuni pezzi nel quadro complessivo: il parallelo, quasi ventennale impegno nel teatro di prosa, anche qui sia regista che attore; i primi passi nelle tv series, una delle quali attualmente in post-produzione e di cui ci saremmo innamorati sin dall' emblematico titolo "Happyish"; e forse soltanto adesso, seguendo un'usanza tristemente consolidata, gli inediti in Italia vedranno il buio di alcune sale d'essai, riparando in tutta fretta alla mancata distribuzione di veri e propri gioielli.

Infine, ci mancherà per sempre la parte dell'abisso: quello della sua ultima battaglia, una dipendenza soppressa molti anni addietro e alla quale si è arreso, dopo una ricaduta annunciata, all'età di 46 anni. Avremmo voluto conoscere il Philip Seymour Hoffman al di là dei riflettori, ma non ci ha lasciati senza prima averci toccati nel profondo, ricalcando la nostra inadeguatezza e invitandoci a non soccombere alle piccole e grandi tragedie dei nostri giorni, contro le quali lui stesso stava ancora lottando.

Se avevamo un autentico alter ego nel cinema del terzo millennio era lui, nessun altro.





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