Si è chiusa la 35esima edizione del Torino Film Festival: tempo di premi e bilanci per una rassegna che ha costruito e preservato un'identità precisa, forse mai come quest'anno difronte a una svolta
Si chiude sotto una neve pesante il trentacinquesimo Torino Film Festival e possiamo fare un breve bilancio: pare comune la sensazione sia stata un'annata interlocutoria, senza troppi picchi, con meno sorprese rispetto agli altri anni, ma comunque con tutti i pregi che ormai sono consolidati nella città sabauda. L'interesse è forte da parte di tutti, cinefili e appassionati, ma pure anziane signore pronte a farsi code infinite e giovani studenti... insomma, come sempre si tratta di un vero e, quasi unico, festival cittadino del cinema. Ma inutile ripetersi ogni volta.
Quello che invece c'è di nuovo è che questa probabilmente sarà l'ultima edizione di Emanuela Martini, direttore e vero perno del festival (anche quando i direttori rispondevano ai nomi di Virzì, Amelio, Moretti) da molto tempo. Non abbiamo le competenze per sapere se sia giusto o meno cambiare dopo tanti anni, o invece meglio mantenere chi ha dimostrato di saper fare egregiamente il proprio lavoro. Fatto sta che non dipende da noi e quindi ora staremo in attesa. Purtroppo l'aria che tira non è buona, è pessima. È probabile che in futuro ci sarà finalmente il glamour che tanto si chiede (ma io mi domando, chi lo chiede e perché). Se così fosse non serve del pessimismo per dire che glamour e Torino non son proprio due parole che vanno d'accordo, quindi sarà una tristezza infinita.
Comunque, rimaniamo in attesa.
E riguardiamo a questa annata: con tre sale in meno le code si sono allungate e i film un pochino ridotti in numero. Ci son stati i film brutti. Ci son stati tanti film buoni che portano avanti una visione del mondo contemporanea. Ci sono state alcune felici sorprese, quattro film su tutti, due in concosrso ("They" e "The death of Stalin") e due no ("Tesnota" e "The Florida Project").
Rimane la sensazione appunto che non si sia rischiato molto, magari togliendo la (quest'anno scadente) sezione After Hours per qualcosa di meglio, anche se l'omaggio a De Palma è stato un bel modo per chiudere un lungo percorso, e Onde e Tff/doc sono sempre a ottimi livelli.
La speranza rimane che oltre la Martini, e più della Martini, possano rimanere ai loro posti tutti i selezionatori che tanto merito hanno nella riuscita del festival di Torino.
Al prossimo anno, ci vedremo sul tappeto rosso!
Alessandro Viale
TORINO FILM FESTIVAL 35: I PREMI
Miglior film
AL TISHKECHI OTI / DON'T FORGET ME di Ram Nehari
Premio Fondazione Sandretto Re Rebaudengo
A FÁBRICA DE NADA di Pedro Pinho
Miglior attrice ex-aequo
EMILY BEECHAM per il film DAPHNE di Peter Mackie Burns
MOON SHAVIT per il film AL TISHKECHI OTI / DON'T FORGET ME di Ram Nehari
Miglior attore
NITAI GVIRTZ per il film AL TISHKECHI OTI / DON'T FORGET ME di Ram Nehari
Miglior sceneggiatura
KISS AND CRY di Chloé Mahieu e Lila Pinell
Menzione speciale della giuria
KISS AND CRY di Chloé Mahieu e Lila Pinell
LORELLO E BRUNELLO di Jacopo Quadri
Premio del pubblico
À VOIX HAUTE / SPEAK-UP! di Stéphane De Freitas
Miglior documentario
M-1 di Luciano Pérez Savoy
Premio Speciale della giuria per Internazionale.doc
SANS ADIEU di Christophe Agou
Miglior documentario per Italiana.doc
DIORAMA di Demetrio Giacomelli
Premio Speciale della giuria per Italiana.doc
TALIEN di Elia Mouatami
Premio Chicca Richelmy per il Miglior cortometraggio
IDA di Giorgia Ruggiano
Premio Speciale della giuria per Italiana.corti
BLUE SCREEN di Alessandro Arfuso e Riccardo Bolo
Premio Fipresci
THE DEATH OF STALIN di Armando Iannucci
Premio Cipputi
LORELLO E BRUNELLO di Jacopo Quadri
Sabato 2 dicembre - Giorno 9
Festa Mobile
DARKEST HOUR (Regno Unito, 2017, 114')
di Joe Wright
Dando per certa a scatola chiusa la candidatura di Daniel Day-Lewis, il nome da battere ai prossimi Oscar come miglior attore protagonista sarà Gary Oldman. La sua interpretazione di Winston Churchill non si compone solo della trasformazione fisica sempre oggetto dei favori dell'Academy, è mimetica sotto ogni aspetto - minuzioso il lavoro sulla voce, sulla gestualità, sul modo di respirare - e impreziosisce un biopic dall'impianto classico, povero di guizzi particolari (ma il cinema di Joe Wright non è fatto di guizzi), architettato come una lunga escalation dialogica in cui la tensione, l'umorismo, la commozione, ogni scioglimento narrativo è affidato a una sceneggiatura pressoché senza difetti e a una regia talmente sicura di sé da far bramare qualche sbavatura ogni tanto.
Non c'è dubbio che il nuovo film di Wright, nel suo piccolo autore capace di manovrare bene insieme eleganza e istanze mainstream, sia un'opera rocciosa e ritmata nonostante in prevalenza orale. Un film di guerra dove la guerra non si vede e le battaglie avvengono a parole, al chiuso, nel parlamento inglese, nella metropolitana diretta a Westminster, nel centro operativo sotterraneo dove il Primo Ministro decise di non trattare con Hitler sospinto dall'orgoglio patriottico di un'intera nazione. In "Darkest Hour" i nemici non sono i tedeschi ma i dubbi, le responsabilità, gli equilibri politici, i dissidi interni al partito conservatore, affrontati secondo uno schema prevedibile che scivola verso il gran finale senza ostacoli. La retorica punta in alto ma ha senso nel contesto storico (e diegetico) e sarebbe tempo sprecato sollevare critiche negative a un prodotto fatto per il grande pubblico proprio in base agli elementi che lo rendono tale. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7,5
TFFDoc/Viaggio
9 DOIGTS (Francia, Portogallo, 2017, 98')
di F.J. Ossang
Finito chissà perché nella sezione Doc, "9 Doigts" è - indicativamente - un noir onirico con la medesima capacità di conservarsi in memoria di un indovinello irrisolto. Girato in pellicola e in bianco e nero, ellittico, prolisso, scandito da costanti dissolvenze che dilatano lo scorrere del tempo, intavola un'antinarrazione ambientata quasi sempre su una nave mercantile che trasporta plutonio in giro per i porti mondiali al fine di scatenare un'apocalisse forse già in atto nelle pieghe invisibili del fenomeno umano sulla Terra. A bordo, un equipaggio diviso fra idealismo e nichilismo, filosofia e follia, perso a vagare nelle cabine, i corridoi, la sala macchine, il cargo della nave, inner space teatro di un ipnotico enigma ricco di allusioni cinefile, letterarie, culturali. Tuttavia F.J. Ossang gioca nello stesso campo di Maddin e Carax, e più che ragionare su entra con tutta la testa nelle budella dell'esperienza filmica, sfidando la visione, la pazienza, la concentrazione col mistero di un intreccio subliminale e tortuoso, frantumato come un oggetto di vetro lasciato cadere sul pavimento, con lo spettatore chiamato a una inutile attività di ricomposizione che, dopo un'ingente produzione di pensiero, da un certo punto in poi scatena solo l'abbandono: del film o al film, a seconda dell'inclinazione - o dell'umore momentaneo. A prescindere da voti, gusti e predisposizioni, è un bene che esistano opere del genere, in grado di strattonare convenzioni e convinzioni e far tremare l'impero delle cose facili.
Pardo alla regia all'ultimo Locarno. (Matteo Pennacchia)
Voto: 8
Venerdì 1 dicembre - Giorno 8
Festa Mobile
MARY SHELLEY (Usa, 2017, 120')
di Haifaa Al-Mansour
La Shelley è già stata portata al cinema col volto di Natasha Richardson nel visionario "Gothic" (1986), dove Ken Russell si concentrava unicamente sul dissoluto e ormai mitico soggiorno a villa Byron che fece da incubatrice a "Frankenstein". Haifaa Al-Mansour ("La bicicletta verde") getta lo sguardo poco più indietro e illustra la genesi del Prometeo Moderno a partire dai sedici anni della scrittrice - che pubblicò il romanzo a ventidue -, mettendo in scena una vita familiare complicata, fra l'intellettualismo ingombrante della figura paterna, la devozione alla madre morta, le ostilità con la matrigna, le timide aspirazioni letterarie in un panorama culturale riservato agli autori maschi. Poi, l'incontro casuale con Percy Shelley, lo scandalo della loro relazione, l'indigenza, le ripercussioni di una disinibizione e di una libertà di costumi predicate ma se vissute sulla pelle dei propri sentimenti forse non molto gradite.
Il film cela dunque l'ambizione di una completezza biografica e caratteriale. Ma il tentativo va a vuoto in una ricostruzione tanto accurata scenograficamente quanto totalmente girata in chiave di patema amoroso sul piano narrativo. Nella prima ora di visione non mancano linguaggi propri di una soap opera in corsetto, dopodiché la situazione si risolleva al palesarsi di Lord Byron, rimanendo pur sempre sui binari del melodramma classico, cioè classicamente commerciale, sobrio abbastanza da vivere in funzione di un climax emotivo che fa il suo sporco lavoro.
È dura fare spallucce davanti al trattamento monotematico di un personaggio che avrebbe meritato altre sfumature. Il femminismo, il "demone della scrittura", il rapporto con la scienza, eccetera, sono ciecamente asserviti al melò, relegati sotto forma di battuta a effetto anziché agiti, e poi lasciati in disparte. Considerata l'elevata qualità di opere di simile atmosfera e ambientazione licenziate negli ultimi anni (dal "Wuthering Heights" di Andrea Arnold a "Une Vie" di Stéphane Brizé, da "Bright Star" di Jane Campion a "Lady Macbeth" di William Oldroyd), "Mary Shelley" non può essere valutato se non come un'occasione persa, nonostante la bravura e il magnetismo di Elle Fanning. (Matteo Pennacchia)
Voto: 5
After Hours
GAME OF DEATH (Francia, Canada, Usa, 2017, 73')
di Sebastien Landry e Laurence Morais-Lagace
La sinossi del Festival parla di mix fra "Jumanji" e "Battle Royale" ed è in effetti una sintesi calzante. Il tema del tutti-contro-tutti, della vocazione umana all'aggressività che emerge nelle situazioni di estrema pressione ha un padre nobile in Romero e una lunga storia (non solo horror) alle spalle. "Game of Death" la onora nel migliore dei modi, ovvero prendendo atto delle proprie possibilità limitate (dal talento e dal budget) e senza soffermarvisi troppo, dedicandosi invece a un tour de force visivo ingiustificato sì, ma come è ingiustificato uno show di fuochi d'artificio.
Sapendo di non poter aggiungere nulla di nuovo all'argomento, Landry e Lagace hanno convogliato le forze in uno spettacolo pirotecnico formale che, oltre allo splatter ottimo e abbondante, prevede animazioni di ogni sorta, restringimenti e allargamenti arbitrari del formato dell'inquadratura, virtuosismi cinetici vari, soggettive, riprese da smartphone e GoPro, tutto senza una logica precisa se non quella dell'esaurimento delle risorse disponibili. La storia (un gruppo di ragazzi coinvolti loro malgrado in un gioco alla uccidi o muori, pena l'esplosione della testa) non desidera metaforizzare o lanciare messaggi e va bene così, e rappresenta il pretesto per sfrenare uno spirito sanamente cialtrone vicino tanto al Roth di "Cabin Fever" quanto ad alcune produzioni scriteriate giapponesi, rendendo il film un'ora e un quarto di svago sanguinolento speso bene. (Matteo Pennacchia)
Voto: 6,5
Festa Mobile
GRACE JONES: BLOODLIGHT AND BAMI (Irlanda, Regno Unito, 2017, 115')
di Sophie Fiennes
Sophie Fiennes, sorella di Joseph e Ralph, ha seguito per cinque anni Grace Jones, pop queen '80: ne ha ricavato un documentario ammaliante e vivace, privo dell'esigenza di presentare chissà quale invenzione nell'affrontare una figura che da sola è sufficiente a destare l'interesse anche di chi non l'avesse mai sentita nominare. Alternando spezzoni di concerto (in cui il gusto per la teatralità della Jones si unisce a una fisicità dirompente e del tutto spontanea) a momenti di intimità dove la cantante non ha pudori nel lasciarsi inquadrare totalmente nuda, il film coglie un'intensità caotica e profondamente umana, svettata da un rapporto con il corpo che non è soltanto esibizione divistica, investimento spettacolare, ma è anzi e soprattutto contatto perenne, conferma di presenza, libertà confidenziale, un'istanza risalente in qualche modo alle cinghiate che il padre sferzava sulla schiena della Grace bambina, in Giamaica, rievocazione costante per tutta la durata del doc.
Il ritratto fremente di "Bloodlight and Bami" riverbera la visceralità del proprio soggetto e regala della Jones l'idea di una donna sinceramente provocatoria che ha messo la vita nello spazio di separazione fra persona e performer. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7
Festa Mobile
THE FLORIDA PROJECT (Usa, 2017, 115')
di Sean Baker
In un hotel vicino a Disneyworld vivono varie famiglie più o meno disagiate. Tre bambini passano insieme un'estate, fra giochi, insulti, scoperte dolorose.
Una madre che non riesce a essere responsabile. Un guardiano gentile. Il mondo di "The Florida Project" è variegato, colorato come il motel, un po' cialtrone, un po' da amare, un po' da giudicare moralmente. E Sean Baker quel mondo lì lo restituisce con un amore tale per i personaggi del suo film che annulla qualunque barriera nello sguardo dei bambini, rappresentando con una vivacità irresistibile l'esuberanza dei piccoli protagonisti. La sua macchina da presa è ad altezza bambino per buona parte del film e lì, più che altrove, sta la bravura del regista. Menzione speciale per Willem Dafoe e il suo personaggio. Il primo perfetto e enorme, a livelli davvero incredibili. Il secondo delizioso, profondo, tratteggiato in sceneggiatura come fosse un essere reale. (Alessandro Viale)
Voto: 7,5
Giovedì 30 novembre - Giorno 8
Concorso Torino 35
THE WHITE GIRL (Hong Kong, 2017, 97')
di Jenny Suen e Christopher Doyle
Luoghi e tempi cristallizzati, una ragazza senza posto nel mondo, un ragazzo che dal mondo ha deciso di isolarsi. Un villaggio di pescatori hongkonghese rimasto fuori da ogni progresso storico si tiene aggrappato al passato e rispecchia tipi di solitudine diversi: imposta, temuta, agognata, goduta, patita. Clima e colori tenui di un racconto che è un cercare riscontro di sé in una realtà agli occhi della quale si rischia di passare inosservati più di quanto si sia capaci di lasciare tracce che non diventino soltanto ruderi.
Christopher Doyle, anche co-regista, fotografa tutto attingendo al pallore della protagonista - ragazza fantasma allergica ai raggi solari che guarda la vita da lontano - e compone immagini di bellezza straziante nel loro minimalismo, nella loro fragilità di riflesso, bilanciando le ragioni poetiche di un eccessivo lirismo di fondo che talvolta prende il sopravvento sulla romance trasognata e malinconica, ma comunque non pregiudica la trasparenza di una rara delicatezza che in mani occidentali forse sarebbe risultata stucchevole. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7
Festa Mobile
THE MAN WHO INVENTED CHRISTMAS (Irlanda, Canada, 2017, 110')
di Bharat Nalluri
Charles Dickens (qui col volto di Dan Stevens) in pieno blocco dello scrittore, reduce da tre flop, quasi al verde, cerca ispirazione per un libro da scrivere entro sei settimane, e la trova per caso nella sua quotidianità, mettendo però a rischio la propria umanità immedesimandosi troppo nel protagonista del nuovo parto: Scrooge.
Romanzare la biografia di un artista innalza vertiginosamente il rischio che ne esca una innocua sciocchezza, nel migliore dei casi. E così accade in "The Man Who Invented Christmas", in tutto e per tutto un film natalizio senile, di una specie che anche la Disney ha smesso di produrre da tempo. Da un lato il classicismo della messinscena riporta alla mente una tradizione che, sebbene pervasa dai famigerati "buoni sentimenti", non aveva bisogno di astuzie e ammiccamenti per essere gradevole; dall'altro però evidenzia l'assoluta mancanza di brillantezza di un film che nel 2017 appare inevitabilmente fuori tempo massimo. Del processo creativo che ha portato Dickens a scrivere "Canto di Natale" resta alla fine solo un apologo per famiglie, che cuce banalmente insieme piani narrativi materializzando i personaggi nella realtà dello scrittore e proiettando lo scrittore nelle vicende dei suoi libri, sfiorando appena la questione di quanto si sia disposti a sacrificare in nome dell'arte. Sotto le feste dicembrine meglio questo film che non altri blockbuster mangiasoldi studiati a tavolino, ma la sua caratteristica migliore - una sorta di "innocenza" basilare - oggigiorno può davvero soddisfare il target a cui è rivolto - o chiunque altro? (Matteo Pennacchia)
Voto: 6
After Hours
FAVOLA (Italia, 2017, 87')
di Sebastiano Mauri
Trasposizione cinematografica di uno spettacolo del 2011 di e con Filippo Timi, che interpreta una casalinga borghese d'antan a cui spunta il pene, si innamora della sua migliore amica e decide di ammazzare il marito per lanciarsi in una romantica fuga d'amore. Una farsa che surrealizza l'immaginario filmico americano anni Quaranta-Cinquanta, modello Sirk, tanto amato anche da Todd Haynes. A una prima occhiata l'operazione sembra abbastanza assurda e inusuale da essere interessante e, in qualche occasione, divertente. Poi basta poco perché il succedersi di trovate nonsense si mostri in tutta la sua stanchezza. Timi e Lucia Mascino sono bravi ma vengono in fretta a noia, riducendosi a recitare sketch che forse in televisione avrebbero altro senso; più di loro, da notare (e salvare) la buona impostazione della regia e soprattutto del montaggio, che detta tempi comici più delle battute effettive e dà movimento con mano sicura a una rappresentazione altrimenti piuttosto piatta. Oltre a ciò, l'unica cosa che spinge a proseguire la visione oltre la mezz'ora è un rapido fotogramma enigmatico all'interno di una sequenza in rewind, che mostra Timi senza trucco e parrucco e illude che alla fine si andrà a parare chissà dove ma si andrà. Non è così, e l'epilogo affossa definitivamente un'opera che se magari in teatro funzionava, su grande schermo non ha motivo d'esistere. (Matteo Pennacchia)
Voto: 4,5
Festa Mobile
DARK RIVER (Regno Unito, 2017, 89')
di Clio Bernard
Muore il padre, e Alice torna alla fattoria dello Yorkshire in cui e cresciuta a fare i conti con il passato e con Joe, fratello che non vede da quindici anni, con cui si riaccendono immediatamente violenti conflitti dapprima verbali, poi anche brutalmente fisici. Nella contesa dell'eredità del terreno riaffiorano fantasmi che non si fatica a capire da subito siano generati da un abuso infantile; la presenza del padre orco infesta ancora i luoghi del fattaccio e sarà un colpo di fucile accidentale a ripulire l'anima di Alice, macchiata dall'angoscia.
Strana tensione percorre "Dark River", fra i paesaggi piovosi delle campagne inglesi: potente ma statica, priva di un reale crescendo se non alla fine, quando compie un balzo brusco. La mdp registra tutto come fosse uno spazio minuscolo, chiuso addosso ai due protagonisti, e lo sviluppo degli eventi lascia emergere Joe come fulcro di un'evoluzione tematica che scorre dal dramma dei legami famigliari alla parabola di redenzione, in un epilogo che non dà scampo nel dire di come esistano molti modi di pagare una colpa, alcuni peggio degli altri se la colpa è lasciata a macerare, ma non esistono modi di dimenticare gli errori commessi, e la convivenza dolorosa col rimpianto non può essere patteggiata. (Matteo Pennacchia)
Voto: 6,5
Concorso Torino 35
BLUE KIDS (Italia, 2017, 75')
di Andrea Tagliaferri
Un fratello e una sorella, legati da un forte rapporto e da un'apatia e da una forte piattezza di spirito, alla morte della madre si ritrovano senza la cospicua eredità, avendo preso tutto il padre.
Si accordano con un amico per fare una rapina, ma i piani reali son ben più tristi.
Il film si apre con i paesaggi piatti delle valli di Comacchio e le pianure nei dintorni di Faenza, a suggerire sia la psicologia sia l'emotività dei suoi protagonisti. E il film stesso procede in maniera fredda e calcolata. Non c'è spazio per picchi o climax. Tutto fila via freddamente.
Il regista, già aiuto di Matteo Garrone che qui produce, non sembra avere padronanza completa del soggetto così spietato ma confeziona un film che, pur nei suoi limiti, si tiene perfettamente in piedi. Ottimi gli attori, davvero perfettamente in parte e bravissimi. Avrebbe aiutato forse un po' più di cura nel sonoro.
P.s. nota a margine, nella proiezione stampa sono volati anche un paio di fischi, poca roba. Ma davvero incomprensibili se non pensando male, malissimo, di una certa critica limitata e inetta pronta ad assalire qualunque cosa prodotta in Italia per partito preso. Un episodio minimo, ma irritante assai. (Alessandro Viale)
Voto: 6
TFFDoc/Viaggio
BURDEN OF DREAMS (Usa, 1982, 95')
di Les Blank
Le strade di Les Blank e Werner Herzog si erano incrociate già nel 1980 per la realizzazione di "Werner Herzog eats his shoes" (se non conoscete la storia recuperatela) per poi ritrovarsi nel cuore dell'amazzonia. Durante le riprese titaniche di "Fitzcarraldo", infatti, Les Blank gira un documentario che non è solo un making of, ma una vera dichiarazione di poetica herzoghiana.
L'occhio del regista è perfettamente aderente alla materia girata e sta all'altezza dei personaggi, raccontando da un lato le traversie produttive, ma dando spazio alla filosofia di Herzog.
La mano di Les Blank è perfetta per la messa in scena.
E ovviamente con Herzog in campo il documentario spicca il volo, perché sono pochi i registi nella storia con una visione così forte del mondo. Senza dilungarmi, lascio la citazione finale di Herzog:
"Non sono solo i miei sogni. La mia convinzione è che tutti questi sogni siano anche i vostri. E la sola distinzione tra me e voi è che io li posso esprimere chiaramente. E questo è ciò che la poesia o la pittura o la letteratura o il cinema trattano. È semplicemente così. Ed io, io faccio film perché non ho imparato nient'altro. E so che posso farlo fino ad un certo grado, ed è mio obbligo morale. Perché questa potrebbe essere la cronaca intima di ciò che siamo, noi dobbiamo esprimere chiaramente noi stessi, altrimenti saremmo mucche al pascolo." (Alessandro Viale)
Voto: 8
Mercoledì 29 novembre - Giorno 6
Concorso Torino 35
AL TISHKECHI OTI - DON'T FORGET ME (Israele, Francia, Germania, 2017, 87')
di Ram Nehari
Due giovani, due esperienze problematiche in una città in Israele. Due vite che si incrociano per caso e per caso passano del tempo felice insieme.
Lei ha problemi alimentari e vive in una clinica dai metodi piuttosto rigidi, lui suona la tuba e ha dei disturbi non ben definiti.
Camminano in giro per la città, nella speranza di partire per Berlino, si ritrovano a casa dei genitori di lei, e poi di nuovo in giro.
"Don't forget me" è un film piccolo nel suo svolgersi, ma denso. I due personaggi sono delicatamente fragili, e gli attori che gli danno corpo davvero bravi. Lo spostamento dalla normalità è una difficile condizione da sostenere. Con una società attorno assente, o che soffoca nel momento in cui si palese, la vita è un continuo sforzo alla ricerca di un momento di pace. (Alessandro Viale)
Voto: 7
Festa Mobile
PROFESSOR MARSTON & THE WONDER WOMEN (Usa, 2017, 108')
di Angela Robinson
Ci sono film che rimangono interessanti anche solo per la storia che raccontano, e questo è uno di quelli, perché il professor Marston era senza dubbio un personaggio incredibile. Alla fine di "Professor Marston & the Wonder Women" c'è la voglia di andarsi a cercare i primi numeri di Wonder Woman, e leggerli (o rileggerli) con un occhio consapevole.
Per il resto rimane un film dalla forma piuttosto convenzionale ma tutt'altro che squilibrata, perché non si eccede in facile retorica e l'ambiguità è sottilmente lasciata sospesa. Certo vien da pensare che un soggetto del genere in mano al David Cronenberg dei bei tempi sarebbe stato un capolavoro, perché proprio quell'ambiguità fra "perversione" e normalità, fra bondage e voglia di amare, fra loro e la società perbene sarebbe stato un materiale esplosivo.
Invece tutto fila via un po' troppo velocemente. (Alessandro Viale)
Voto: 6/7
After Hours
THE CRESCENT (Canada, 2017, 99')
di Seth Smith
L'accoppiata horror + maternità dà spesso buoni frutti, e senza risalire forzatamente a Polanski lo testimonia il recente passato con le varie interpretazioni di "Babadook", "Kotoko", "Prevenge", eccetera. In "The Crescent" madre novella vedova e figlio di due anni si trasferiscono in una casa in riva al mare su una spiaggia deserta, in cui la ripetitività del susseguirsi identico dei giorni crea un limbo narrativo infestato dai fantasmi di una straziante elaborazione del lutto.
Seth Smith, al secondo lungometraggio, infila i propri incubi infantili in una vicenda dai contorni rarefatti, e gestisce il tutto rimescolando b-movie e videoarte astrattista, formati dell'inquadratura e stereotipi di genere, arginando i danni di un twist che verrebbe bocciato a qualsiasi corso di sceneggiatura per dilettanti regalando in cambio un'atmosfera sospesa, di attesa inevitabilmente vana, ora soporifera ora ipnotica, che pure oscillando sul confine fra tematica ed estetica è quanto di meglio il film abbia da offrire in termini di coerenza. Poi però ci si perde nel litigio fra simbolismo sovraccarico e didascalismo parimenti sovraccarico, ci si contrae in direzioni opposte e "The Crescent" resta immobile, fra ricerca di senso e impatto grafico, in un'opera di cui a fine visione non rimane nulla se non l'ombra di un punto interrogativo e la voglia di dissiparla, non di approfondirla.
Voto: 5,5
Martedì 28 novembre - Giorno 5
Festa Mobile
MY LIFE STORY (Regno Unito, 2017, 96')
di Julien Temple
Julien Temple, habitué del TFF, ha la capacità di coinvolgere nei propri film anche i non-fan dei musicisti presi in esame di volta in volta. Non fa eccezione Graham "Suggs" McPherson, cantante dei leggendari rude boys britannici Madness, protagonista di un racconto autobiografico che a partire dalla forma della stand-up comedy ne assume molte altre, cambiando tagli e registri, dividendosi su due livelli temporali. In quello di base Suggs mantiene la promessa del titolo, cioè narra la storia della sua vita, avanzando cronologicamente da quando era un bambino gracile nella Swinging London a quando è diventato il leader di una ska band fra le più venerate non soltanto in patria, in una sequenza di filmati d'epoca o girati ad hoc che intrecciano spirito documentario e caustico umorismo british.
Dentro questo contenitore Temple scava nel presente del cantante, che si mette difronte ai cinquant'anni appena compiuti e si lancia alla ricerca di tracce di un padre fantasma, andando a rovistare fra certificati di morte e piccole bugie materne, disegnando un ritratto di sé che nella spensieratezza degli aneddoti sulle rivalità fra gang (rockers, punk, mods, hooligans, ecc.) e sulla vita da tour, oltre a dare conto di un'intera stagione musicale-sociale, è in grado perfino di commuovere.
Dedicato a tutti. Tranne ai fan degli Oasis. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7
After Hours
THE CURED (Irlanda, 2017, 95')
di David Freyne
Variazione sugli zombie numero X. Meglio: infetti, come idoneo nel post-Boyle.
Nel debutto di David Freyne si è trovata una cura al solito virus idrofobo, e gli ex infetti tornano a un'esistenza quasi normale, eccetto che mantengono in memoria tutti i ricordi di quando erano malati, e quindi di tutti i bagni di sangue di cui sono rei. Non vivono proprio sereni, diciamo. Oltre ciò, per colpa della passata condizione virale sono discriminati dall'opinione pubblica, contraria al loro reinserimento in società. Ellen Page, madre vedova, ospita in casa il cognato redivivo, custode di un segreto non da poco che la riguarda. Nell'interazione fra queste due figure tragiche, "The Cured" si fonda sul dramma piuttosto che sull'horror e conta sulle dita di una mano monca le incursioni zombesche, compensando solo nel finale. In più raduna una vasta serie di metafore legandole attorno a temi di cocente attualità - l'immigrazione, il terrorismo, l'estremismo politico, la paranoia del contagio - esaurendole però abbastanza in fretta in virtù dello struggimento sentimentale.
Data per scontata la riflessione sul nostro tempo e abbandonata per strada l'idea potenzialmente buona di uno zombie movie psicoanalitico, cosa resta se non "28 giorni dopo"? Ben girato e saldo da capo a piedi ma altrettanto anonimo, "The Cured" è un film che restando nel mucchio fa torto anzitutto a se stesso. (Matteo Pennacchia)
Voto: 6-
Festa Mobile
TAEKSI WOONJUNSA - A TAXI DRIVER (Corea del Sud, 2017, 137')
di Jang Hoon
Una storia talmente cinematografica da essere vera: nel 1980 nella Corea del Sud in piena legge marziale, scossa dai moti rivoluzionari studenteschi, un reporter tedesco si fa accompagnare clandestinamente da un tassista a Gwangju, cittadina blindata, teatro del massacro di oltre seicento dissidenti da parte delle forze militari.
Il film di Jang Hoon, regista rappresentate coreano agli Oscar 2012, mette allo specchio due estraneità, quella del reporter Peter, culturale, e quella del tassista Kim, politica.
A chi "parlano" gli ideali rivoluzionari, qual è il loro referente? Kim (col volto noto del bravissimo Song Kang-Ho), centro di un racconto corale, è un antieroe working class che pensa solo a mangiare e guadagnare, prima di essere testimone e vittima per caso delle efferatezze dei soldati. Ciò che si sviluppa in lui non è una presa di coscienza politica, la cui teoria continua ad essergli distante, ma una presa di posizione morale pragmatica, in risposta a un'esigenza oggettiva. In questo senso "A Taxi Driver", dapprima commedia bislacca, poi dramma avventuroso che non risparmia brutalità, non celebra il "movimento" ma racconta un episodio storico attraverso una galassia di sguardi e iniziative personali concrete, compiute in nome di una verità priva di retorica.
Jang Hoon, come sovente gli orientali, estenua il finale, lo prolunga all'inverosimile, ha la fissa del pathos alla potenza massima; comunque non per pilotare reazioni e spremere lacrime facili, ma con intenzione così genuina e partecipe di suscitare emozione in platea che non gli si può voler male. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7
TFFDoc/Viaggio
NAPALM (Francia, 2017, 100')
di Claude Lanzmann
Dopo essere stato membro della prima delegazione europea invitata ufficialmente a visitare il paese dopo l'ecatombe (quattro milioni di morti nella guerra del '50-'53), il grande documentarista Claude Lanzmann ("Shoa", "L'ultimo degli ingiusti") è tornato nel 2015 in Corea del Nord, dopo un'immaginabile trafila di autorizzazioni richieste e negate. Lì dove il tempo si è fermato a sessant'anni fa e un popolo-esercito senza guerra da combattere è premiato per la sua abnegazione con del semplice tabacco, Lanzmann ha vissuto nel 1958 una (dis)avventura sentimentale con un'infermiera locale ustionata dal napalm sganciato dagli americani durante il conflitto. "Napalm" ne fa un racconto reso in forma di lungo confessionale, in gran parte con il solo Lanzmann inquadrato in primo piano, impegnato in un discorso che è mille discorsi differenti sostenuti da una fitta dialettica fra vicenda privata e resoconto politico, una tela dove si incrociano il tempo, la memoria, la prospettiva della morte, il dolore di ciò che è andato perduto, in uno spettro di riflessioni che iniziano difronte alla Città Proibita di Pechino, passano ai piedi delle statue alte venti metri dei leader coreani e finiscono in una lettera d'amore mai nato.
Architettura monumentale e impermanenza; storicismo e immagine riprodotta; una capacità intellettuale (ed emozionale) di stabilire nessi fra le "cose" umane che ha un suo simile forse solo in letteratura con W.G. Sebald. (Matteo Pennacchia)
Voto: 9
Festa Mobile
THE REAGAN SHOW (Usa, 2017, 74')
di Pacho Velez e Sierra Pettengill
Durante l'era Reagan la Casa Bianca ha prodotto il quintuplo di materiale video destinato alla televisione rispetto a qualunque altra amministrazione americana. Il presidente attore, affermazione definitiva del rapporto fra spettacolo e politica già intrapreso da Kennedy, è sempre stato tacciato di scarsa predisposizione a governare un paese ma di enorme abilità nelle pubbliche relazioni, e questo documentario mette in luce falle, contraddizioni e involontaria comicità del matrimonio fra mass media e potere, guardando la tensione fra Stati Uniti e Unione Sovietica con la lente dei telegiornali dell'epoca e dei messaggi istituzionali presidenziali, spesso trasformati in veri e propri show per famiglie. L'immagine di Reagan perpetuata sugli schermi ricompone una personalità ridicolmente attaccata alle formule della gestualità e del copione scritto, in competizione con Gorbaciov più in materia di telegenia che riguardo agli armamenti nucleari e a una guerra fredda vicina all'acme.
"The Reagan Show" forse coltivava pretese maggiori: risultato, un divertissement. (Matteo Pennacchia)
Voto: 6
Concorso Torino 35
LORELLO E BRUNELLO (Italia, 2017, 85')
di Jacopo Quadri
Lorello e Brunello sono due gemelli che lavorano la campagna in Maremma, fra pecore e steccati da costruire, la loro vita fatta di grandi fatiche va avanti mentre il mondo contemporaneo sembra lontano anni luce.
Jacopo Quadri segue le quattro stagioni del lavoro con un occhio partecipe ed esperto il non evolversi della loro storia, come se il ciclo di quella vita fosse condannata a ripetersi in eterno. "Lorello e Brunello" è un film lineare a pulito, a cui manca un guizzo per staccarsi da innumerevoli documentari di osservazione. Dispiace perché il materiale umano era notevole, e lo si capisce soprattutto con il bellissimo e tristissimo discorso finale di Ultimina, la vicina di casa, che offre una sintesi quasi nichilista. Perché lavorare come bestie per tutta la vita se poi non ti rimane nulla in mano?
E invece di partire da lì per una riflessione sulla vita e anche sul cinema, il film si chiude. Lasciando la sensazione che tutto si dimenticherà in fretta.
Spesso mi capita di vedere lavori di questo genere, e spesso mi ripeto: se si deve far un film è sempre bene che non sia la stessa persona a scrivere, dirigere e montare. Si rischia di appiattire le possibilità. (Alessandro Viale)
Voto: 6
Concorso Torino 35
THE SCOPE OF SEPARATION (Cina, 2017, '71)
di Yue Chan
Liu Shidong eredita dal padre morto dei soldi, non si sa quanti, ma sufficienti per condurre una vita inutile fra bar e giocate a mahjong. Incontra tra una sigaretta e l'altra prima una ragazza, poi un'altra con cui va a vivere. Quando quest'ultima parte per la Francia riesce a farsi assumere da un amico ricco per allestire un locale esclusivo.
Non è una sintesi della trama questo, ma la trama, abbastanza nel dettaglio tra l'altro. Un film che ha almeno il pregio di essere breve. Ma nonostante ciò riesce ad essere pure noioso.
Non aiutano certo a risollevarsi i modelli alti a cui si ispira.
Non si tratta affatto di un film fatto male, piuttosto infastidisce la sua totale inutilità. (Alessandro Viale)
Voto: 4,5
Lunedì 27 novembre - Giorno 4
Festa Mobile
KINGS (Belgio, Francia, 2017, 92')
Di Deniz Gamze Ergüven
Durante il processo ai quattro poliziotti che massacrarono di botte Rodney King la tensione sale a Los Angeles. Millie (Halle Barry) è una mamma single, con un esercito di bambini in affido, che cerca di gestire la situazione esplosiva.
Di per sé il film ha dei momenti anche riusciti, di tensione emotiva. Ma ha un problema di base troppo grave: una sceneggiatura con dei buchi narrativi eccessivi. Va bene che lo spettatore può ricomporre gli elementi, ma ci son troppe cose che non si spiegano (il personaggio di Daniel Craig è spaventoso, ma non nel senso di protagonista di film horror), troppi momenti costruiti solamente per arrivare alle emozioni facili. A tratti viene il dubbio che in fase di montaggio si siano dimenticati dei pezzi, oppure che siano andate perse delle pagine di sceneggiatura mentre che giravano.
Riesce difficile salvare qualcosa perché tutto fa pensare a una operazione di basso livello. Nemmeno Nick Cave e Warren Ellis alla colonna sonora fanno la differenza.
Viene quindi da domandarsi cosa avesse in mente la regista, perché pure l'idea di confondere dramma e tratti più leggeri, vicini alla commedia, poteva funzionare. Invece vanno a creare ulteriore confusione al film. (Alessandro Viale)
Voto: 4
Festa Mobile
THEY (Usa, 2017, 80')
di Anahita Ghazvinizadeh
J ha un corpo di un ragazzino, ma non sa se è un maschio o una femmina, allora con una cura ferma la crescita degli ormoni per potersi capire e prendere una decisione.
Non è un film di genere, non è un film sulla sessualità "They", è un film sulla complessità. Una complessità di pensiero, che nello specifico è impersonato da J; tutto quello che ha intorno riverbera il suo stato d'animo, è simbolo, metafora in accumulo. Anahita Ghazvinizadeh dimostra una padronanza del mezzo cinematografico da veterana, specie nel costruire infinite immagini che delineano lo stato d'animo di J, prima di tutto il fuori fuoco ripetuto, il volto specchiato, dietro vetri, oscurato. E in parallelo un mondo aggrovigliato e vivo, fatto di perenni passaggi, cambiamenti: gli iraniani farsi (che però parlano di Kurdistan), il matrimonio (che è per ottenere i documenti americani), i genitori assenti (che però accudiscono una zia malata), la zia allontanata (che però ha dimenticato la strada per tornare a casa). E un buco nel muro, trapasso fra due luoghi.
J ha un corpo di ragazzino ma un universo infinito nella testa. (Alessandro Viale)
Voto: 8+
Concorso Torino 35
A FÁBRICA DE NADA (Portogallo, 2017, 177')
di Pedro Pinho
Una fabbrica, a causa della crisi economica, viene chiusa e agli operai che vi lavorano viene offerta una magra ricompensa economica per andarsene. C'è chi accetta i soldi e se ne va, chi invece, per amore del lavoro e della propria dignità, decide di occupare il fabbricato e condurre un'autogestione industriale.
Pedro Pinho mette in scena la resistenza umana al capitalismo, dichiarando in maniera nemmeno troppo velata il fallimento umano di fronte al denaro e al plusvalore del lavoro. "A Fábrica de Nada" è un film che mescola documentario, finzione, musical e film teorico, in un mix che funziona incredibilmente bene. C'è spazio per molte riflessioni e metafore particolarmente riuscite (la scena degli struzzi e delle armi sotterrate, a ricordare il passato recente del Paese e alla sua rivoluzione) nelle tre ore. Con inframezzi di pura teoria economica e stralci di vita vissuta.
Forse i tempi dilatati, perché dei 180 minuti si poteva senza problemi togliere parti non necessarie, non permettono un avvicinamento al film, e in questo il cinema portoghese non è certo accondiscendente. Alcune volte si dovrebbe voler bene non solo ai personaggi dei propri film, ma anche agli spettatori. (Alessandro Viale)
Voto: 7
Concorso Torino 35
À VOIX HAUTE (Francia, 2017, 99')
Di Ladj Ly, Stéphane de Freitas
Ogni anno all'Università di Saint-Denis si svolge una gara oratoria in cui gli studenti si sfidano nell'elaborazione e nell'esposizione di discorsi imbastiti su argomenti vari (il tutto è inserito in un progetto su tutto il territorio francese che coinvolge studenti delle scuole medie, superiori e università).
Il documentario segue il percorso di formazione che alcuni studenti seguono, e le gare che porteranno al vincitore finale.
Ci son film in cui il contenuto sovrasta la forma spazzandola via, nel bene e nel male. E questo è uno di quei film. Per due motivi opposti, da un lato c'è una sferzante vitalità nei protagonisti del documentario, giovani universitari della periferia parigina, un insieme multiculturalmente francese, dall'altra una visione registica piuttosto evanescente. Non si capisce se per volontà o meno ma la mano dei registi si vede poco, e anzi quando ci son interventi troppo marcati (la musica per esempio aggiunge una retorica non necessaria) un po' si spezza la forza del racconto.
La forza della parola è dimostrata, sarebbe bello ci convincessimo anche della forza del pensiero. (Alessandro Viale)
Voto: 7
Concorso Torino 35
KISS AND CRY (Francia, 2017, 78')
di Chloé Mahieu e Lila Pinell
La kiss and cry è l'area dei palazzetti del ghiaccio dove, durante le competizioni di pattinaggio artistico, atlete e allenatori siedono in attesa dei giudizi. Pattinatrici adolescenti e allenatori isterici sono sotto i riflettori di Mahieu e Pinell, duo al femminile proveniente dai reportage tv e dal documentario. "Kiss and Cry" prende questa impostazione di partenza e la estende in un ibrido in cui le giovani protagoniste recitano se stesse e le maglie della presa diretta cedono in potentissime dilatazioni oniriche. C'è una protagonista, Sarah, che incarna tutta l'inquietudine dell'adolescenza: nelle relazioni familiari e amicali, nel desiderio di trasgressione, nell'ingenuità, nella malizia inavvertita. E c'è un mondo adulto nevrotico e frustrato, che nevrotizza e frustra imponendo divieti, proiettando aspettative, rifacendosi su pelle altrui dei propri fallimenti. Nello spazio di separazione, il film fa di un canovaccio, tratto da un precedente mediometraggio, la direttrice attorno a cui esplodono i conflitti, le esuberanze e i prodromi di autocoscienza di un gruppo di ragazzine poste di fronte a una sfida imminente (l'allenamento estenuante in vista di un campionato nazionale) che ne racchiude un'altra più fondamentale, quella con l'imperfezione della vita. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7,5
Festa Mobile/TorinoFilmLab
THICK LASHES OF LAURI MANTYVAARA (Finlandia, 2017, 90')
di Hannaleena Hauru
Inclassificabile esordio finlandese che parla di primi amori e ultimi riti, ma più che un coming of age è un'istantanea sugli eccessi di cui vivono le emozioni adolescenziali di Heidi e Satu. Amiche inseparabili e terroriste matrimoniali, con fantasiose azioni di guerriglia (detonazioni di bouquet, rapimenti dello sposo) si ostinano a sabotare il lavoro della wedding planner locale, colpevole di svendere l'amore. La crisi scoppia quando la cotta di Heidi per una giovane promessa dell'hockey ridiscute i termini del loro rapporto, tramutando qualcosa che era previsto durasse per sempre in qualcosa che forse sbiadirà presto.
"Thick Lashes of Lauri Mantyvaara" dà corpo e immagine ai sentimenti nel montaggio, fra transizionisi frenetiche, split screen, persistenti soggettive libere indirette di sapore fumettistico, e nei tratti iniziali sembra apprestarsi a essere un oggetto ultrapop e linguistico alla "Scott Pilgrim vs. the World". Dopodiché si stabilizza invece fra trovate assurdamente verosimili (la Scandinavian Geisha School, per insegnare alla neo-moglie provetta a mantenersi appetibile agli occhi del neo-marito) e una profusa malinconia, denominatore comune a tutti i personaggi e colore emotivo dominante. Sconquassi del cambiamento, piccole rivoluzioni surreali: un film che filtra il materiale narrativo nel modo di leggere e trasformare la realtà delle sue protagoniste, assumendo su di sé il loro carattere: goffo, impulsivo, talvolta irritante, ma pieno zeppo di una vitalità contagiosa che non sa bene come fuoriuscire e quindi lo fa a casaccio, senza criteri e direzioni nette, in un mondo dove i baci sono romantici anche se scambiati sul ritmo impazzito di "Inertiatic ESP" dei Mars Volta. (Matteo Pennacchia)
Voto: 8
After Hours
SEQUENCE BREAK (Usa, 2017, 80')
di Graham Skipper
Quando l'ondata revival anni Ottanta si infrangerà e tornerà indietro tireremo tutti un bel sospiro di sollievo. Fino ad allora tocca legittimare l'esistenza di prodotti come "Sequence Break", che non avendo niente da dire (e spesso neanche da ribadire) si accontentano di esporre segni di riconoscimento. In questo caso i videogiochi arcade su cui smanetta Oz, supernerd asociale che comincia una relazione con una sua pari mettendo in discussione il proprio mondo circoscritto, e così sprofondando in un incubo di tecnologia carnale, circuiti che secernono lubrificante organico e campionario cronenberghiano assortito, fotocopiato da "Videodrome" e "eXistenZ".
A una prima parte che in chiave horror convenzionale dichiara gli omaggi "a voce", in un discorso cinematografico sostanzialmente attuale, succede una seconda che accantona la trama e sconfina in un formalismo da qualche anno a questa parte riferito in modo generico a Refn (ma sperimentato da cineasti di ogni categoria, dal Glazer di "Under the Skin" al Panos Cosmatos di "Beyond the Black Rainbow"), inclusa soundtrack synthwave. Fra odissee mentali, luoghi astratti e discrepanze concettuali, ciò che doveva essere un metaforico tracollo nervoso dovuto al venir meno delle abitudini consolidate, si smarrisce affastellando ambizioni e citazioni che al netto dell'accuratezza estetica non superano la riproposta dei testi ispiratori, decontestualizzandoli, svuotandone ogni senso. (Matteo Pennacchia)
Voto: 5,5
Domenica 26 novembre - Giorno 3
Festa Mobile
TESNOTA - CLOSENESS (Russia, 2017, 118')
di Kantemir Balagov
Ritratto di famiglia ebrea nel Caucaso anni Novanta, fra tensioni etniche e lacerazioni dell'anima. In primo piano Ilana, ventiquattrenne che lavora nell'officina del padre, ha una relazione con un "nemico" Cabardo e cerca di sottrarsi a un matrimonio combinato. Nel frattempo deve vedersela con il rapimento del fratello e con il senso di violenza della situazione cecena a due passi, sparso nell'aria come odore cattivo.
Kantemir Balagov ha studiato alla scuola di cinema di Sokurov non limitandosi ad adeguarsi all'impronta del maestro. "Tesnota" è un film doloroso, stretto in un 4:3 che racchiude tutta l'insofferenza di Ilana (una tesissima Darya Zhovner). Balagov, classe 1991, si cala in profondità ma non è impietoso, e smussa la ritenzione di una messinscena in cui molto viene detto in un sussurro connotando l'immagine tramite viraggi diegetici espressivi, come il rosso inattinico di un (primo?) rapporto sessuale osservato a distanza - non soltanto rito di passaggio privato, anche affermazione pubblica di indipendenza, e ingaggio di duello contro il dominio materno.
Se la storia ha un cardine, oltre alla protagonista, è l'ambivalenza dei legami familiari, comprensivi di amore enorme e altrettanto enorme odio. Tutto ciò che Ilana fa per emanciparsi dalle tradizioni dei genitori in realtà finisce per riferirsi immancabilmente al rapporto con loro, tanto che quando li accusa di aver fatto girare il mondo sempre attorno al fratello sembra davvero stia sfogando una propria incapacità a staccarsi da certe abitudini conflittuali.
Opera prima asciutta e tormentata, ogni minuto è un peso sul cuore; sofferenza ripagata da una densità emotiva e intellettuale che è bello trovare in un esordio. (Matteo Pennacchia)
Voto: 8,5
Festa Mobile
CASTING (Germania, 2017, 91')
di Nicolas Wackerbarth
Realtà e fiction si intrecciano sul set di un remake di "Le lacrime amare di Petra von Kant" di Fassbinder. Mentre la produzione si affanna a caccia di una protagonista, Gerwin, sparring partner delle attrici provinate, diventa il centro nevralgico della tensione diffusa nella troupe, dove si agitano defezioni e scontri sulla direzione artistica.
"Casting" mette in scena una messa in scena, con taglio documentaristico rafforzato dalla libertà di improvvisazione che il regista Nicolas Wackerbarth, alla sua seconda prova, ha concesso agli attori. Opera percorsa da un umorismo affilato, in pieno cortocircuito di copioni, ruoli, personalità, atmosfere, come "Venere in Pelliccia" senza il gusto polanskiano per il grottesco ma con sguardo diviso fra empatia e cinismo: in mezzo, tutta l'ipocrisia del dover apparire per poter essere. (Matteo Pennacchia)
Voto: 8
Festa Mobile
GRANDEUR ET DÉCADENCE D'UN PETIT COMMERCE DE CINÉMA (Francia, 1986, 92')
di Jean-Luc Godard
Godard gioca in un altro campionato. Come al solito la grammatica cinematografica salta dalla prima inquadratura, anzi dai titoli di testa, anzi dal titolo, che compare, spezzato, mai completo, nel corso dei primi dieci minuti del film. Leaud non è anziano, ma negli anni '80 è già il simbolo di un cinema che non esiste più, in un mondo che ha cominciato ad andare all'indietro. Tra errori tecnici di trasmissione, esperimenti col video ma soprattutto con il sonoro sovrapposto, Godard si diverte a giocare con il mezzo televisivo ma ci sta raccontando (il rischio del) la morte del cinema. Non siamo però dalle parti del metacinema, si tratta di un film ricco, che ruota attorno a scelte di casting quasi ipnotiche, ma arriva a toccare il mito di Euridice e, scherzosamente, il polar. Forse la sequenza di volti è lì a ricordarci che "E' ora che la vita restituisca al cinema un po' di quello che gli ha rubato". (Alberto Mazzoni)
Voto: 8
Festa Mobile
REY (Cile, Francia, 2017, 91')
di Niles Atallah
In quest'epoca insipida è bello celebrare chi nel passato sognava con intensità. Orélie-Antoine de Tournes - avvocato francese di metà '800 autoproclamatosi re della Patagonia - di sicuro era tra questi. Si richiedeva alla messa in scena lo stesso grado di follia, e su questo il regista Atallah non ci delude, ma allo stesso tempo un controllo maggiore di quello che il nostro eroe esercitava sulla realtà, mentre qua e là la materia sfugge di mano lasciando spazio a giochi ottici un pò fini a sè stessi. Al netto di queste sbavature l'opera è veramente originale e pregevole. Sopra a tutto l'uso delle maschere di cartapesta come maschere greche di emozioni è eccezionale, e altrettanto intense sono l'emozioni che da' il trattamento della pellicola, di cui molte bobine sono state lasciate - pare - per tre anni sottoterra al fine di essere adeguatamente danneggiate. Come insegna la terza stagione di Twin Peaks, i tempi sono maturi per i Lucio Fontana del cinema, che operino non all'interno del film ma sulla materia stessa di cui è composto. (Alberto Mazzoni)
Voto: 7,5
Concorso Torino 35
BAMY (Giappone, 2017, 100')
di Jun Tanaka
Una coppia, lui vede i fantasmi e lei no. Poi lui incontra un'altra donna che ha il suo stesso "potere" e decide di non sposarsi con la sua compagna per andare a stare dall’amante. I fantasmi però spariscono dalla sua vista e decide quindi di tornare dalla sua promessa sposa. Difficile da analizzare un film del genere. Specie se durante una lunga scena ti viene il dubbio che stiano proiettando una copia sbagliata, con una compressione errata (colori all’improvviso desaturati, video che va a scatti e non capisci se è una scelta o meno). Quando invece pensi che sia il film che il regista voleva allora non riesci a credere alla pochezza dell’intera operazione. Dispiace sempre massacrare un film piccolo. Questo si dice sia costato 6000 dollari. Ma andrebbe fatto l'elenco delle cose buone che uno potrebbe fare con quei soldi, al netto della vita effettivamente più dispendiosa in Giappone. Anche solo andare cento volte in un ristorante da 60 dollari. (Alessandro Viale)
Voto: ng
Sabato 25 novembre - Giorno 2
After Hours
LES AFFAMÉS (Canada, 2017, 90')
di Robin Aubert
Difficile dire che un film è inutile, ma questo fa eccezione. Una tecnica cinematografica da principiante: nebbia, urla, lo zombie non c'è, la macchina si muove, ritorna sullo stesso posto e ZAN! lo zombie improvvisamente c'è. Niente di nuovo dal punto di vista della trama o dell'analisi dei personaggi, più di un sospetto sulla scarsa coerenza interna (quanto dura l'incubazione?). Eppure dire qualcosa di interessante sul tema è possibile anche nel 2017 (vedere "Train to Busan"). Bocciato senza appello.
Voto: 4
Onde
COLO (Portogallo/Francia, 2017, 136')
di Teresa Villaverde
Villaverde filma la disgregazione economica affettiva e psichica di una famiglia lisboneta. Grande eleganza, quasi iraniana, nell'inquadrare i personaggi all'interno dello spazio - inizialmente costretti ma anche protetti dalle stanze e dai palazzi di periferia, quindi persi nel mondo esterno. Il giorno e la notte, i rapporti familiari si confondono sotto il peso dell'assenza di denaro. Uso sorprendente della musica extradiegetica, attori con il cui terrore del vuoto è facile identificarsi. "Non è in corso una guerra, e nessuno è malato!" grida la figlia, ma la madre non risponde. (Alberto Mazzoni)
Voto: 7,5
Concorso Torino 35
ARPÓN (Argentina, Venezuela, Spagna, 2017, 81')
di Tomàs Espinoza
Germàn è il preside di un liceo argentino ed esercita l'autorità ispezionando quotidianamente lo zaino degli studenti. Cata è una ragazza con una situazione familiare complicata che pratica di nascosto alle compagne iniezioni di botulino nelle labbra. Quando Germàn la scopre i due si scontrano con durezza ma le circostanze li destinano a passare una giornata insieme, in cui emerge un comune risentimento verso la vita che pare conciliare il loro rapporto, dando a entrambi qualche sollievo passeggero. Fin quando Cata non sparisce in compagnia di una prostituta che Germàn frequenta, e per l'uomo inizia una caccia forsennata che lo avvicina pericolosamente al punto di saturazione psicologico.
La camera a mano di "Arpón" tallona i personaggi a pochi centimetri dai volti, dai corpi, ingabbiandoli nel perimetro di un'inquadratura soffocante, priva di aperture sull'esterno, in una fotografia lattiginosa e opaca, a un livello di contrasto bassissimo come se l'immagine fosse sempre in procinto di dissolvere al bianco, traducendo la pervasiva sensazione di instabilità celata nei caratteri di Germàn e Cata. Una scelta estetica azzeccata, benché scontata, intralciata non tanto nei risvolti di esame sociale impliciti nella descrizione della periferia argentina, quanto in svariate incoerenze caratteriali, in dialoghi spesso artefatti e didascalici, e in un tentativo di digressione thriller poco riuscito. Imprudenze da opera prima, certo, ma compromettenti nel lasciare sulla superficie di una confezione curata tutto il potenziale di un film che in questo modo perde forza di minuto in minuto. (Matteo Pennacchia)
Voto: 6
Concorso Torino 35
THE DEATH OF STALIN (Francia, Regno Unito, 2017, 107')
di Armando Iannucci
Iannucci è la mente dietro al stratosferico "The Thick of it" e tutto l'universo che ne è conseguito, oltre a molte altre cose notevoli. Quindi l'aspettativa per questa farsa sulla morte di Stalin aveva una discreta attesa. Direi che il tutto è stato ripagato con gli interessi, perché il film in questione è addirittura sorprendente. Si può ridere dei crimini terribili e osceni dell'umanità? Forse no, sarebbe una stupidaggine, ma ridere e deridere il meccanismo perverso che sta dietro al potere totalitario e burocratico stalinista (ma ça va sans dire si tratta di potere nel senso più ampio) è mettere a nudo la follia umana. Disinnescare ciò che porta ai crimini con l'arma più pura.
Ma non si pensi ad un arzigogolato e cervellotico film intellettuale. In superficie questo è un film incredibilmente divertente, dal ritmo serrato, che riesce a far ridere tra omicidii efferati, gulag e violenza mai nascosti o resi meno disgustosi di quel che sono. Come dire che il talento di Iannucci è ancora cristallino come ce lo ricordavamo. (Alessandro Viale)
Voto: 8
Festa Mobile
LA CORDILLERA (Argentina, Francia, Spagna, 2017, 114')
di Santiago Mitre
Gli intrighi del potere esercitano (da) sempre una forte attrattiva in chi li osserva dall'esterno, e negli anni della disaffezione politica ai massimi storici il cinema ha prodotto alcune buone rappresentazioni che, staccandosi dall'eccezionale stagione paranoico-complottista degli anni Settanta, si sono intrufolate dietro le quinte dei profili istituzionali più disparati. "La Cordillera" fa parte del girone, mettendo in scena Hernán Blanco, presidente dell'Argentina eletto dopo una campagna che ha fatto leva sul qualificarsi come "uomo comune"; cosa che adesso sconta nell'appellativo giornalistico "uomo invisibile". Incerto, incapace di assumersi responsabilità decisive per il Paese, Blanco ha forse occasione di riscattarsi volando in Cile a un summit insieme ai Capi di Stato centro-sud Americani per discutere la fondazione di un'organizzazione unitaria che si occupi degli affari petroliferi. I retroscena politici, fra accordi sottobanco, mazzette, alleanze illecite, interessi personali, si insinuano nelle spire della vita privata del Presidente (o viceversa), alle prese con lo scandalo di corruzione in cui è coinvolta la figlia.
Dopo una parte iniziale sobria, poderosa ma senza sostanziali particolarità, più Blanco sprofonda nella sfida morale del gioco di equilibri instabili del summit, e al contempo negli squilibri psicotici della relazione con la figlia, più la regia di Santiago Mitre ("La Patota") si concede libertà, prendendosi quella di scendere sul terreno di un'ambiguità quasi metafisica, fra sedute di regressione ipnotica e ricordi fantasmatici, e in definitiva comprendere lo sfuggente personaggio interpretato con la solita bravura da Ricardo Darín diventa un rebus assai ben congegnato. Ne deriva una visione per certi versi faticosa, senza dubbio straniante, colma di interminabili dialoghi la cui prolissità sospende ogni percezione temporale, eccetto nell'escalation finale che sfiora toni addirittura pre-apocalittici. Cammeo di Christian Slater. (Matteo Pennacchia)
Voto: 8
Festa Mobile
TITO E GLI ALIENI (Italia, 2017, 92')
di Paola Randi
"It always seems like you're going somewhere / Better than you've been before / While I go to sleep and I dream all night / Of you knocking at my door". Si apre con la bellissima canzone degli Eels il film di Paola Randi, ed è ovvio che i pensieri vadano subito ai mondi paralleli del padre di Mister E con quella camera che ruota di 180° e rovescia la terra (ma ancora di più dopo si ribalta letteralmente la scena nella sequenza, molto divertente, del bacio sul divano).
"Tito e gli alieni" è un film semplice, verrebbe da dire di buoni sentimenti, una commedia che non sorprende ma che emoziona, soprattutto quando non vuole essere smaccatamente sentimentale.
"Tito e gli alieni" emoziona perché è sincero e racconta lo smarrimento (degli adulti e dei bambini) di fronte alla morte con un tocco fiabesco che si adatta perfettamente al racconto. Passano in secondo piano i difetti del film, che manca forse di quella che viene spesso chiamata "solidità", perché raggiunge i suoi obiettivi in maniera molto genuina. È questo sicuramente un film non adatto a riflessioni ciniche, perché richiede comprensione.
Di tutte le scelte della regista forse la più azzeccata è quella di dare spazio a Mastandrea, che ha qui, come altrove, un tocco incredibilmente delicato. Teniamocelo molto stretto Mastandrea.
In conclusione "Tito e gli alieni" è un film che chiede allo spettatore lo sguardo del bambino, senza malizie. (Alessandro Viale)
Voto: 7
After Hours
FIRSTBORN (Lettonia, 2017, 90')
di Aik Karapetian
Vero o falso: durante una cena fra amici si svolge un gioco in cui a turno ognuno racconta qualcosa e gli altri devono indovinare se si tratta di menzogna o verità. Katrina, moglie di Francis, racconta di una sua passata esperienza sessuale, dando la prima coltellata di una lunga serie alla virilità del marito, la cui lesa maestà è l'epicentro dell'intero sviluppo di "Firstborn". Di ritorno dalla cena i due sono aggrediti da un motociclista, contro il quale Francis non riesce a fare altro che farsi prendere a cazzotti. Come non bastasse, il poliziotto a cui si rivolgono è una ex fiamma di Katrina, e frustrazione si somma a frustrazione nella psiche traballante di Francis, tanto che l'attrito genera uno sfasamento dimensionale in cui i demoni dell'io ferito convivono sullo stesso piano di realtà materiale dei personaggi. La vicenda piomba così in un universo dove il subconscio prende le sembianze di figure incappucciate che spronano ad atti di violenza, cacciatori solitari istruiscono sui metodi migliori di uccisione e creature mostruose dagli occhi rossi perseguitano Francis fino a fargli perdere del tutto il contatto con la ragione, mentre Katrina, incinta, è continuamente insidiata dalle apparizioni del motociclista, in teoria morto in un incidente.
Opera terza del lettone Aik Karapetian, fra horror interiore e frammenti sparsi arthouse: si regge all'inizio sugli antefatti della follia, si perde strada facendo riponendo nell'astrazione un anelito antinarrativo che non giustifica la confusione di elementi singolarmente efficaci, ma ripiegati in se stessi e spinti sul ciglio del compiacimento gratuito. (Matteo Pennacchia)
Voto: 5,5
After Hours
THE DISASTER ARTIST (Usa, 2017, 98')
Di James Franco
"The Room" è un cult movie, di quelli però che acquistano la fama per la loro bruttezza. Il regista, Tommy Wiseau, è stato spesso considerato l'Ed Wood dell'epoca moderna. Sebbene non sembra avere l'aura di decadente romanticismo del regista di "Plan 9 from Outer Space". Non per nulla a riportare in auge il secondo ci ha pensato Tim Burton (nel suo periodo più ispirato), e Wiseau si ritrova la faccia di James Franco.
Non c'è spazio nel film di Franco per grandi riflessioni. Che invero sarebbero state manna dal cielo, e sarebbero state anche piuttosto semplici da far partire (non certo da mettere in scena e qui sta il punto), perché ci son almeno un paio di momenti in cui si ha la sensazione che "The disaster artist" potrebbe non essere solo quel grande cazzeggio che poi in realtà è.
Detto questo, il divertimento qui c'è, ed è piuttosto ben orchestrato perché la storia di partenza è succosa, e "The Room" senza dubbio una porcheria visiva di altissimo livello, dove si può constatare con mano che la determinazione e i soldi non potranno mai sostituire un grammo di talento e di competenza.
Va preso forse per questo, un film che ti tiene lì incredulo e divertito. Fino a che non arrivi a casa e su youtube scopri che poi non è così spassoso guardarsi "The Room". (Alessandro Viale)
Voto: 6,5
Venerdì 24 novembre - Giorno 1
Concorso Torino 35
BARRAGE (Lussemburgo, Belgio, Francia, 2017, 112')
di Laura Schroder
Festa Mobile
FINDING YOUR FEET (Regno Unito, 2017, 111')
di Richard Loncraine
Lady Sandra Abbott scopra che il marito la tradisce con una amica comune. Dopo quaranta anni di matrimonio e una pensione appena raggiunta da godersi insieme il mondo le crolla addosso. Sandra cerca allora rifugio dalla sorella maggiore Bif. Le due sono non solo diverse ma proprio agli antipodi, tanto Sandra è regolamentata, rigida, e sottomessa al marito quanto Bif libera, allegra, giocosa. Ovviamente Bif la includerà nel suo mondo variegato.
Questo è il classico film di cui si può fare spoiler totale, tanto viaggia su binari collaudati. Ci son aspetti della trama così telefonati che non ci si stupisce affatto che tutto vada esattamente come ci si aspetterebbe. Ma non è certo da certe cose che si deve giudicare una commedia così british. Perché certi schemi possono essere seguiti anche pedissequamente. Si perdonano molte cose a film del genere, pure il sentimentalismo piuttosto inutile o un momento da cartolina sull'italia che quasi ti fa rivalutare l'incursione italica di Woody Allen. Glieli si perdonano per più motivi: lo humor inglese è sopraffino in più frangenti, i personaggi sono così deliziosi (sì, deliziosi) e soprattutto ci sono tre attori in scena che ti farebbero spellare le mani dagli applausi. Perché quella scuola di attori è di un'eccellenza unica. (Alessandro Viale)
Voto: 6,5
After Hours
REVENGE (Francia, 2017, 108')
di Coralie Fargeat
A quanto pare sul finire degli anni Novanta James O'Barr, autore dell'omonimo fumetto originale, si vide rifiutare dalle major il progetto di un "Corvo" al femminile perché, dissero ai piani alti, una vendicatrice donna non avrebbe mai funzionato in un film - ignorando evidentemente il rape & revenge, nonché "La sposa in nero" di Truffaut, a dirne uno. Poco dopo, quando le stesse major licenziarono "Kill Bill", O'Barr si fece una grassa risata. Da allora, molte eroine arroventate dalle fiamme della vendetta hanno compiuto massacri sul grande schermo, ultima delle quali la Jen di "Revenge", con tempismo infelicemente millimetrico adesso che il tema della violenza sulle donne è più dibattuto che mai.
"Revenge", programmatico fin dal titolo, nel suo andamento elementare sfoggia una regia estetizzante e un po' allucinata che pone una basilare sfida allo spettatore, sessualizzando al massimo grado consentito - in un'ottica patinata da spot/videoclip - le forme di Matilda Lutz, bomba sexy disinibita amante di Richard, spaccone machista con figli a casa. La coppia si fa una vacanza clandestina in una villa con piscina nel pieno di una zona desertica, dove a sorpresa arrivano due soci di Richard, subito prodighi di occhiate untuose al corpo di Jen. Nei minuti introduttivi il punto di vista della macchina da presa è il loro, il che non fa che aumentare l'acuto disagio di un'immedesimazione forzata e sgradita. Dagli sguardi allo stupro qui il passo è breve, poi le cose degenerano: Jen viene scaraventata in un burrone e si ritrova con il ramo di un albero rinsecchito piantato da parte a parte nello stomaco. Non muore, va da sé, e in un mutamento di prospettive e atmosfera, da colori pop a sabbiosi, dal corpo visivamente mercificato al corpo fisicamente martoriato (sempre in bikini, comunque), compie la sua vendetta in un tripudio di scene ad alta tensione e ad alto tasso di gore.
Nerissima ironia di fondo, rivincita femminile in un epilogo dove il total nude è maschile, colonna sonora ottantiana di prammatica e un comparto tecnico sopra la media (fotografia, montaggio e make up superlativi): l'esordio nel lungometraggio di Coralie Fargeat vive di eccessi e macabro intrattenimento senza fingere di non maneggiare, con una certa intelligenza anzitutto formale, una problematica spinosa della cultura mediatica di massa alla quale siamo assuefatti. (Matteo Pennacchia)
Voto: 8
After Hours
TOKYO VAMPIRE HOTEL (Giappone, 2017, 142')
di Sion Sono
Un'altra carneficina scolastica apre "Tokyo Vampire Hotel", ma stavolta non è il vento assassino di "Tag" a tranciare a metà i corpi di un gruppo di studentesse in gita, bensì è Giga, una killer tutta faccine e vocine manga con arsenale appresso, a fare una mattanza durante una cena di classe in un ristorante. La giovane Manami (è il suo compleanno) sopravvive non per caso e diventa il centro di una contesa secolare fra due famiglie di vampiri, i Corvin, di stanza in Giappone, e i Dracula rumeni, clan introdotti da didascalie riassuntive in font gotico che fanno tanto Hammer, versione trash.
Ma questo è Sion Sono e se già le premesse bastavano a puntualizzarlo, in meno di un quarto d'ora il film diventa un grandioso oggetto non identificato barocco, strabordante, massimalista come al regista giapponese non accadeva da tempo, stando perlomeno ai titoli transitati e/o reperibili in Italia, e perlomeno non con questa qualità. Sulla storiella della faida vampiresca Sono batte chiodi a lui congeniali (v. la psicopatologia famigliare) e dà a tutto la "forma" di qualcosa in cui siamo costretti continuamente a ricalibrare sguardo e mezzi interpretativi per rimetterci in pari, di sequenza in sequenza, con una nuova configurazione visiva, una nuova temperatura estetica ed emotiva, un nuovo folle cromatismo prosecuzione diretta di quelli di "Antiporno", così come l'intera combinazione della messinscena sembra discendere da "Love Exposure". "Tokyo Vampire Hotel" potrebbe essere un'ideale sintesi fra i due, innervata da immagini pittoriche ed esplosioni splatter esagerate al cui confronto il finale di "Why Don't You Play in Hell" pare robetta per bambini; tuttavia è ancora qualcosa di più, talmente aliena è la sostanza di cui è fatto, fonte nello spettatore di assidui interrogativi sulla propria posizione in merito agli instancabili cambi umorali della vicenda (in secondo piano) e al modo in cui sono rappresentati (in primo piano). L'hotel che nomina l'opera è l'ennesimo spazio indefinibile di Sono, pure senza metatestualità: un castello di pannelli monocromatici abbagliato da colori sgargianti che dichiarano ogni istante la propria apparenza inverosimile, salvo poi squarciarsi in fessure organiche nei muri, accesso a inferi bui e sanguinolenti, collegati all'utero di una principessa vampiro, in un caos (sceno)grafico e narrativo orchestrato con libertà tale che pochi registi sarebbero in grado di gestirlo senza perdere la bussola di una visione personale.
In origine una serie di nove episodi, prodotta e distribuita da Amazon; qui ridotta e montata apposta per i passaggi cinematografici. (Matteo Pennacchia)
Voto: 9