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recensione di Matteo De Simei

Prologo


1989. Aleksandr Sokurov è già da diversi anni un affermato cineasta all'interno delle rigide mura dell'Unione Sovietica, dopo un lungo calvario professionale durato più di un decennio. Alle sue spalle ha già diversi cortometraggi e documentari, molti dei quali eclissati da una forte corrente di censura da parte delle autorità nei primi anni 80. In questa fase di profondo cambiamento per la Russia e a ridosso di un avvenimento fondamentale per la Storia europea, Sokurov si prepara alla realizzazione del suo settimo lungometraggio, dal titolo "Il secondo cerchio". Mentre assiste alla progressiva mutazione dell'URSS in quella che diverrà la Repubblica russa, la sua concezione di cinema subisce improvvisamente una sterzata nel processo di scrittura. Ricevuta la sceneggiatura del nuovo progetto, Sokurov taglia di netto oltre 580 pagine delle 600 scritte dall'autore Jurij Arabov, suo fedele collaboratore. La struttura narrativa viene ridotta all'osso, le parole vengono isolate e rese essenziali, il valore espressivo dell'immagine teso a scavalcare qualsiasi altra fonte compositiva della pellicola. All'insegna di una impegnativa introspezione umana e di una ricerca che trova nell'arte universale le sue radici, il linguaggio cinematografico di Sokurov si presenta come una nuova, coraggiosa, esperienza visiva dalla quale filtrano senza soluzione di continuità sentimenti primitivi e imprescindibili. A ridosso dei primi segnali di sgretolamento del muro tedesco, l'arte cinematografica acquista con Aleksandr Sokurov una forma di linguaggio trascendentale, senza confini, votata al rapporto tra l'uomo e l'arte, libera da convenzioni e soprattutto dal racconto. Perché, come sostiene lo stesso regista, "se il film è basato sul principio di storia, ciò non è arte1".



AMORE (E OLTRE)


1997. Dopo quasi vent'anni di esperienza professionale volta a ricercare la forma che meglio illuminasse il suo pensiero, vede la luce "Madre e figlio", la pellicola che lo presenta alla critica e al pubblico internazionale. In poco più di sessanta minuti, Amore, Natura e Arte si legano indissolubilmente per dare vita a un'opera di smisurata bellezza, capace di toccare le corde dell'anima. Mentre il suono del vento accompagna lo spettatore tra il fluire scarno dei titoli di testa, scorgiamo l'immagine distorta di un uomo disteso che protegge il sonno di una donna, sua madre. Sta morendo, sola tra le braccia del figlio. Senza che l'invisibile tessitura narrativa e i dialoghi isolati riescano mai strappare i nomi dei due (creando così l'idea di un "impianto" visivo universale), quelle saranno le uniche vite umane a essere inquadrate dalla cinepresa di Sokurov per l'intera durata del film.


Più forte della malattia e della morte la madre insiste nel voler uscire tra le lande deserte della campagna russa. Le loro anime si mimetizzano così con i colori della natura, diventano tutt'uno, attraversano case diroccate e vegetazioni incolte in un silenzio che acuisce i suoni acusmatici degli uccelli e del vento che sferza l'aria come un coltello. La premura del figlio diviene poesia quando lui la porta in braccio per lunghi tragitti, le porge il braccio come cuscino nel momento del riposo. Lei diviene così piccola tra le braccia dell'uomo che è come se lui stesse accudendo un bambino (il biberon offerto alla madre). I destini e i ruoli dei due si invertono in quello che è, al tempo medesimo, il triste e straordinario corso della vita e della Natura. La stessa poesia per la quale i due scoprono, in uno dei rari momenti di dialogo, di vedere gli stessi sogni. Sogni che rimandano a reciproci tormenti e oppressioni, forse causati dalla solitudine ("io non voglio fare a meno della gente") sicuramente dalla paura della morte, come apertamente dichiarato dalla donna, ma anche "dalla pena infinita verso il figlio, sino alle lacrime". I dolori lancinanti della madre non sono solo quelli della malattia ma sono urla nere che evocano ferite ancora aperte tra le pieghe dei ricordi (la lettura delle cartoline), paure e tormenti del distacco imminente. I due tornano indietro nel tempo, si ricordano di quando lei aveva paura che il figlio venisse rapito e lui che la madre non tornasse più a casa dal lavoro. Un incedere travolgente di reciproche premure, un'overdose d'amore che raggiunge profondità indefinite, che scava oltre al semplice e inevitabile richiamo in materia psicologica del celeberrimo Complesso di Edipo e che assurge alla ricerca di una risposta a cui non ci è dato conoscere: dove va a finire l'amore dopo la morte?


L'uomo cerca la risposta in solitudine tra la Natura, l'attraversa in lungo e in largo, poi improvvisamente comincia a correre per manifestare il suo attaccamento alla vita, per sentirsi ancora vivo. Si sdraia, abbracciando la terra sotto le sue scarpe. Piange come un bambino quando non può mentire a sé stesso che la madre sta morendo, che quella separazione sta diventano una lacerazione prodotta dal troppo amore. ("L'eccedenza è pericolosa. Pensiamo sempre a ciò che ci manca ma trascuriamo la questione del troppo, ad esempio del troppo amore"2). Caduca ed effimera come l'esistenza di una farfalla, la vita della donna se ne va, lasciando al figlio l'arduo compito di individuare dove sia destinata a muoversi questa eccedenza d'amore rimasta spezzata, separata.



NATURA


Koltushi è un villaggio campestre situato nella periferia di San Pietroburgo, dove si estendono lunghe vallate di campi incolti, case disfatte e dove la presenza dell'uomo è quasi impercettibile e smistata in sporadiche abitazioni tra le sconfinate pianure. Sokurov ha scelto questo luogo per la realizzazione scenica del film, un habitat ambientale quasi incontaminato, dove l'equilibrio e la pace della Natura accoglie a braccia aperte le anime tormentate di una madre morente e del proprio figlio, e ne diviene l'indiscussa protagonista in concomitanza con l'incombente approssimarsi della separazione e della morte. In "Madre e figlio" la ricerca costante dei corpi e il bisogno innato del contatto sono prerogative imprescindibili al fine di accrescere il legame tra i due e al tempo stesso assottigliare il dolore dovuto al distacco. Ma la magnificenza del linguaggio sokuroviano raggiunge livelli indefinibili e indescrivibili quando il cineasta russo pone sulla stessa linea d'onda delle vite umane la Natura a loro circostante, partecipe dei loro stessi destini e portatrice di una bellezza abbacinante, seppur desolatamente infelice, miracolosamente in armonia con la malattia della donna e l'imminente arrivo del trapasso. Leopardi nel "Dialogo della Natura e di un islandese" immaginava l'uomo rifuggire dalla Natura stessa convinto che questa rendesse gli uomini infelici. Sokurov ne ribalta il pensiero, affidandone le chiavi dell'esistenza e facendo convivere e confluire la difficile e angosciante presenza dell'uomo su questa terra.


Così, in egual misura, l'eccesso d'amore scaturito dal profondo legame affettivo tra madre e figlio fa da sfondo a un altrettanto eccesso, quello del verde, degli alberi, dei fiori, di elementi primari come fuoco e acqua, terra e aria, in uno stato di eterna immobilità e di struggente bellezza. Sokurov annienta il livello temporale, cristallizza lo spazio circostante creando uno stato di quiete incessante, a tratti edenica. D'improvviso un treno in lontananza attraversa le deserte campagne russe rafforzando il concetto di esilio e di assenza. Un isolamento frutto di una scelta personale, che prende le distanze dal carattere materialista della società moderna, sinonimo di perdizione e di rifiuto nella ricerca interiore. Sokurov ripone nella bellezza della Natura una componente essenziale per la forma del suo cinema, una fonte di nutrimento in grado di far germogliare idee, pensieri ed emozioni all'interno del contesto filmico. Torna alla mente il paesaggio siberiano di Syktyvkar ne "Il secondo cerchio" e le sue lunghe distese innevate. E non è certo un caso che proprio questo film, di cui si è già accennato in apertura, costituisca molteplici punti di contatto con la forma e il contenuto di "Madre e figlio". Forse ancor più di "Padre e figlio" (2003) con cui condivide, insieme a un terzo film ancora in lavorazione ("Due fratelli e una sorella" è il titolo provvisorio), la trilogia sulle strette relazioni familiari.



ARTE


Pur essendo uno dei più importanti cineasti contemporanei, Aleksandr Sokurov non ha mai nascosto di considerare il cinema una forma d'arte secondaria, derivativa. Un pensiero che è decisamente coraggioso se non paradossale proprio perché a manifestarlo è un regista, persona che solitamente in primis dovrebbe nutrire un forte sentimento d'amore e di attaccamento per la settima arte. Così non è per Sokurov che immagina il cinema quale un contenitore multiforme costituito da quelle arti che egli ritiene essenziali: la letteratura, la pittura e l'arte figurativa, la poesia, la ricerca musicale. In questo modo la sua concezione di "arte cinematografica" travalica i canoni del genere e della forma spazzando via qualsiasi impronta stilistica precedentemente codificata ma adottando pur sempre la stessa formidabile coerenza stilistica che lo ha accompagnato dalla fine degli anni settanta sino ai giorni nostri. Fiction, documentari ed elegie sono opere tipologicamente differenti le une dalle altre ma in mano a Sokurov divengono un'unica forma di espressione cinematografica.


La pittura in "Madre e figlio" riveste un ruolo predominante. L'uso di lenti deformanti e la fotografia che verte la sua tavolozza cromatica sul verde scuro e sull'ocra, rendono la pellicola un quadro vivente, una pittura in movimento. Così come gli impercettibili spostamenti della macchina da presa e i numerosi piano sequenza donano al film una costante aura di immobilità. Il carattere sublime di William Turner e la Natura informe di Caspar David Friedrich (in particolare i dipinti "Abbazia nel querceto" e "Monaco sulla riva del mare") sono i riferimenti più evidenti di una passione che costituisce il cuore pulsante della vita artistica di Sokurov e che si ricollega alla corrente dello Sturm und Drang che ha posto le basi per la nascita del Romanticismo tedesco. In un componimento così elegiaco e introspettivo dell'immagine, poesia e letteratura non possono che forgiare una robusta sinergia che accompagna l'intero scorrere del film: l'imponente formazione culturale del regista ripiega sulle orme dei connazionali Tjutčev (più volte citato anche da Tarkovskij) e soprattutto Lermontov. "Madre e figlio" doveva inizialmente chiamarsi "Essere solo con te, fratello mio", verso tratto proprio da una poesia di Lermontov ("Testamento") che evoca la solitudine dell'uomo e il desiderio di avere un fratello. Nel film la situazione si riflette con l'uomo che nella sua vita non ha nessun altro se non sua madre. I dialoghi del film sono versi parzialmente rivisitati del Faust di Goethe, in particolare il dialogo iniziale sul sogno, mentre i componimenti musicali di Glinka, Nussio e Verdi contribuiscono a raggiungere la completa ed estatica perfezione dell'opera.


L'incanto artistico allestito da Sokurov ha permesso di coniare un nuovo linguaggio all'interno della cinematografia contemporanea. Pur riconducendo all'intensità emotiva di Ozu, all'intimità e all'esistenzialismo di Bergman e alla potenza espressiva di Dreyer, il regista russo ha altresì il merito di evidenziare un'arte visiva totale in grado di annichilire l'uso della parola, un impeto passionale che cinge filosofia, poesia, letteratura, musica e pittura, e che solo in conclusione si riversa in cinema. In "Madre e figlio", per di più, la forte componente naturalistica utilizzata da Sokurov agisce da preludio per i sui suoi futuri progetti documentaristici permeati di vivido esistenzialismo, dove uomo e Natura divengono un Giano bifronte dall'inscindibile unione (in tal senso è impossibile non citare Herzog, anche se forma e stile agiscono nel regista tedesco in modo diametralmente opposte). Sokurov non lo ha mai ammesso apertamente ma se un accostamento deve essere fatto all'interno della sua poliedrica carriera, questo riporta inevitabilmente al cinema del connazionale Tarkovskij. Amici, ancor prima che colleghi, l'autore di "Solaris" contribuì a tenere alto il valore sommerso di Sokurov durante i difficili anni della censura sovietica. Entrambi accomunati dall'uso di una dilatazione spazio-tempo e da una nutrita integrazione di immagini poetiche e oniriche, oltre che da temi familiari e naturalistici, di tormento, solitudine e morte. "L'arte è un metalinguaggio per mezzo del quale gli uomini tentano di entrare in contatto l'uno con l'altro3". Le parole (e il cinema) di Tarkovskij sono lo specchio del cinema di Sokurov. Il cinema come arte. L'arte come salvezza dell'anima.



Epilogo


Prima di raggiungere la consacrazione dirigendo la famosa trilogia sul potere con la quale ha descritto i dittatori e gli imperatori più carismatici del novecento, prima del Leone d'Oro con il "Faust" alla 68° Mostra del Cinema di Venezia, Aleksandr Sokurov ha avuto il merito di infondere un cinema multiforme dove arte e vita dialogano incessantemente e si interscambiano. La profonda introspezione di "Madre e figlio" e la sua magniloquenza visiva raggiungono gli anfratti più bui e nascosti del sentimento umano e creano un punto di contatto tra gli esseri viventi. Perché solo l'arte, in ogni sua forma, può creare uno stato di armonia e di intima unione. Solo la poesia, la pittura, la letteratura, la musica possono costituire l'unica àncora di salvezza e scardinare il tormento angosciante della vita. Con "Madre e figlio", e grazie ad Aleksandr Sokurov, sappiamo che questa salvezza può essere raggiunta anche mediante il meraviglioso mondo del cinema.

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1 A. Sokurov, intervistato da Jeremi Szaniawski in "An Interview with Aleksandr Sokurov", tratto da "Critical Inquiry", vol.33, autunno 2006, pag. 13

2 A. Sokurov, cit. da "Osservare l'incanto. Il cinema e l'arte di Aleksandr Sokurov", di Denis Brotto, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, 2010, pag. 134

3 A. Tarkovskij, cit. da "Scolpire il tempo", di Andrej Tarkovskij, Edizioni Ubulibri, 2002, pag. 40


08/09/2013

Cast e credits

cast:
Aleksei Ananishnov, Gudrun Geyer


regia:
Aleksandr Sokurov


titolo originale:
Mat i syn


durata:
73'


produzione:
Severny Fond, Zero Film GmbH, Lenfilm Studio, O-Film


sceneggiatura:
Yuri Arabov


fotografia:
Aleksei Fyodorov


scenografie:
Esther Ritterbusch, Vera Zelinskaya


montaggio:
Leda Semyonova


musiche:
Mikhail Ivanovich


Trama
Un uomo si prende cura della madre morente