Ondacinema

recensione di Matteo Pernini
8.0/10

Let the sky fall, when it crumbles 
We will stand tall 
And face it all together 
At sky fall

(Skyfall, Adele)

"Si vive solo due volte, signor Bond", chiosava il malefico (e gattofilo) Ernst Stavro Blofeld nell'omonimo film con Sean Connery; ora Daniel Craig, legato ad una sedia e alle prese con gli approcci di un ossigenato Bardem (un plauso al coiffeur), lo chiarisce in prima persona: l'hobby del più longevo e raffinato agente segreto britannico è la resurrezione.

Giunta al ventitreesimo capitolo ufficiale, la serie sulla spia al servizio (segreto) di Sua Maestà può fregiarsi del contributo registico di un riconosciuto autore nel panorama contemporaneo quale Sam Mendes, celebre (senza ragione) premio Oscar per "American Beauty" e celebrato (con ragione) artefice di opere quali "Era mio padre" e il recente "Revolutionary Road". Abbandonato il realismo patinato del reboot di Martin Campbell (che con solido mestiere aveva donato nuova linfa ad una serie agonizzante) e allontanata l'infelice parentesi di Marc Forster (troppo impegnato a cacciare aquiloni per indagare con perizia il "Quantum of Solace" di cui necessita il protagonista), lo sguardo di Mendes  si muove tra le schegge di un universo in frantumi, spazia confuso e fuori fuoco nelle geometrie di un incipit rocambolesco, in cui l'occhio si perde tra la vegetazione e i corpi diventano forme dinamiche da intuire nella confusione dei gesti. E quando un colpo di pistola demolisce in un attimo l'ineluttabilità di uno schema fondante (neppure una pioggia di proiettili aveva mai scalfito il corpo dell'agente segreto), si comprende quanto profondo e netto voglia essere lo scarto dalla tradizione.
Le acque che accolgono il fisico sfregiato di Bond divengono, così, l'emblema amniotico di una rinascita, che muove dalle pieghe della carne, dalla mutazione inarrestabile di un corpo, capace di dialogare con la dimensione del racconto fino ad esibire i segni del tempo e le ferite della storia, senza spegnersi nell'inamovibilità dell'oggetto di culto.

Ma la mutazione non riguarda solo il fisico spossato e imbolsito di Bond; è lo stesso corpo del film, la sua memoria di celluloide ad essere investita dal cambiamento. Dopo mezzo secolo in cui il personaggio di Fleming ha saputo difendere orgogliosamente i pilastri della civiltà occidentale dagli attacchi di chi voleva minarne alle fondamenta la solidità (e poco importa, nell'ideologia manichea, istintiva e blandamente sciovinista dello scrittore inglese, che si tratti di un'organizzazione segreta paramilitare, della Russia comunista o di maniaci desiderosi di scatenare una terza guerra mondiale - tutt'altro che astratto lo spettro di un conflitto nucleare negli anni sessanta) era necessario, nell'era del digitale e delle comunicazioni di massa, trovare un nuovo nemico da fronteggiare. E se Campbell aveva intuito la centralità delle dinamiche finanziarie in un'epoca imbrigliata nelle reti dell'economia, Mendes scava nel disagio percettibile di un universo rizomatico, "onniconnesso", in cui la ragnatela di informazioni binarie è appannaggio di chiunque sappia violare un sistema di sicurezza.

Ma il filtraggio, la diffusione continua dei dati, l'esibizione planetaria degli stessi rimangono il semplice veicolo di un dramma intimo, che si consuma dentro i protagonisti, nella loro storia, nella memoria e che rivela tangibile i suoi segni sul volto scomposto di Javier Bardem (splendida la sua presentazione), ghignante perno attorno al quale ruotano le contraddizioni di un rapporto edipico, morboso e vendicativo. Ancora il legame parentale, dunque, sotto la lente del regista, meglio: il nucleo famigliare - vero o presunto poco importa - una dimensione filiale che vive nel rancore di un tradimento indelebile, mentre la Storia si fa storia e le ragioni dei protagonisti si intrecciano in un moltiplicarsi di prospettive che ne scardinano l'identità, costringendoli ad una continua messa in discussione dei principi fondanti il loro agire. Uno slittamento dei caratteri che investe tanto Bond (costretto a riesumare le tracce di un passato coscientemente rimosso) quanto M (obbligata a rispondere dei mediocri risultati di una gestione troppo cinica dell'MI6).
Liberato dall'impudenza e dalla freddezza di "Casinò Royale" ("La puttana è morta"), Craig dà corpo ad un Bond confuso e problematico, disposto a riflettere su cosa rimanga di questa icona analogica del passato nell'epoca di Jason Bourne. E lo fa simbolicamente alla National Gallery, dinanzi alle spoglie della valorosa Téméraire, che viene condotta alla demolizione dopo aver servito la marina britannica nella vittoriosa battaglia di Trafalgar. Anch'egli relitto di un'epoca trascorsa, corpo consunto dalla fatica e l'inoperosità, Bond riafferma con decisione, nello scontro tra vecchio e nuovo, il valore dell'esperienza e della maturità ("La giovinezza non è garanzia di innovazione"), azzerando il folclore dell'eccesso (di gadget, di umorismo, di protagonismo) che lo aveva investito sin dall'era post-Connery e ripartendo dall'essenziale: una pistola e una radio. E la licenza di uccidere.

Coadiuvato dall'ottimo Deakins alla fotografia, Mendes rinuncia (quasi del tutto) alle geografie esotiche, al glamour patinato degli spazi sontuosi e orchestra una partitura di luci calde e insonnolite, di squarci ombrosi, profili netti, tagliati da lame di sole nell'incipit ad Istanbul, che si raggela nel frigido contrasto di luci al neon nella parentesi cinese (regalandoci una delle scene d'azione meglio coreografate della serie) e si adagia, infine, umida e infreddolita, tra le nebbie del contado scozzese.

E in tutto ciò dov'è l'ironia (di Sean), dove lo sberleffo infantile (di Roger), la postilla boccaccesca (di Pierce)? Non temano i fan della prima ora, perché la frantumazione dell'epos attuata sul personaggio si allarga all'intera sua mitologia, qui recuperata (e riscritta) in chiave nostalgica e sottilmente autoironica. Dall'esplicito citazionismo dei dialoghi al recupero dei modelli della tradizione, la sceneggiatura di John Logan, Neal Purvis e Robert Wade tratteggia un raffinato gioco di rinvii, che se, da un lato, amplifica la componente dissipativa di un'epopea al crepuscolo, dall'altro si fa stupita e malinconica elegia dei tempi trascorsi, assimilando nel corpus della trama le tracce capillari di una memoria pronta a rifulgere negli occhi degli spettatori quando la storica Aston Martin DB5 (nella sua indimenticabile versione superaccessoriata dal film "Missione Goldfinger") torna nuovamente a ruggire per le strade di una Londra uggiosa sotto il tocco di Daniel Craig.

Per saperne di più: Daniel Craig, Sam Mendes, Naomi Harris - Speciale Skyfall


02/11/2012

Cast e credits

cast:
Daniel Craig, Javier Bardem, Judi Dench, Ralph Fiennes, Naomie Harris, Bérénice Marlhoe, Ben Whishaw, Albert Finney


regia:
Sam Mendes


titolo originale:
Skyfall


distribuzione:
Warner Bros. Pictures


durata:
143'


produzione:
Barbara Broccoli, Michael G. Wilson, Eon Production, MGM, United Artists, Columbia Pictures


sceneggiatura:
Neal Purvis, Robert Wade, John Logan


fotografia:
Roger Deakins


scenografie:
Dennis Gassner


montaggio:
Stuart Baird


costumi:
Jany Temime


musiche:
Thomas Newman


Trama

Dopo il fallimento di una missione ad Istanbul, Bond è ritenuto morto dai suoi superiori, caduto sotto fuoco amico. Ma quando M si trova a dover fronteggiare un misterioso avversario capace di insinuarsi nel suo sistema informatico e colpire al cuore la sede dell’agenzia segreta britannica, l’agente 007 farà il suo ritorno in servizio. Incaricato di rintracciare il responsabile dell’attacco (nonché della diffusione pubblica di informazioni sull’identità di agenti infiltrati in organizzazioni terroristiche), Bond dovrà fare i conti con la propria storia e con i segreti del misterioso passato di M.

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