Ondacinema

recensione di Giancarlo Usai
8.0/10

Nell'ultimo decennio siamo stati abituati a un concetto di indie, riferito alle produzioni statunitensi, sensibilmente diverso dal significato originario di cinema indipendente. Una definizione sfuggente, che nel sentire comune si è identificata con un certo canone estetico, un uso specifico di fotografia e colonne sonore, una chiara scelta di ambientazioni, geografiche e sociali. E tutto questo ha portato chiunque, si trattasse della critica o del pubblico, a cadere in un colossale equivoco, percependo come "indipendente" qualcosa che in realtà indipendente davvero non era, perché, anzi, pienamente integrato nel business dell'industria hollywoodiana, con le sue regole non scritte, le sue convenzioni e le sue ipotesi di guadagno.

Per tornare allora alla purezza del concetto è bene, periodicamente, rispolverare nei cassetti della memoria il magnifico cinema di John Sayles, un vero samurai del cinema indipendente americano, capace di rimanere ai margini dei grandi studi a stelle e strisce praticamente per tutta la carriera, in grado di finanziare nuovi progetti autonomi con i compensi relativi a sceneggiature scritte per altri. Rinunciando alle grandi star, ai grandi incassi e alle enormi capacità di spesa delle major, Sayles ha mantenuto fede nel tempo al più profondo e puro concetto di cineasta indipendente. Nel suo cinema, e in "Casa de los Babys" arriva l'ennesima conferma, non ci sono stereotipi visivi ricorrenti, non c'è la rincorsa a uno standard comunemente accettato; anzi, ogni sua opera sorprende per la capacità di innovare, di cambiare, di spostare il centro focale del discorso artistico su nuovi temi e nuovi stili. Ciò che invece rimane intatta è la incredibile meticolosità del suo sguardo cinematografico unita alla perizia prodigiosa con cui Sayles scrive i suoi script. Osservando da lontano una carriera ultratrentennale ne emerge un quadro composito impressionante sulle complessità dell'America, sulle ipocrisie della sua Storia e sulle contraddizioni del suo presente. E ciò che ancor più desta ammirazione è che questa osservazione attenta e dettagliata avviene sempre senza mai sacrificare la purezza della messa in scena, il gusto creativo per un racconto per immagini che sa continuamente stupire per bellezza e senso estetico.

Nel suo film del 2003, Sayles compie un ulteriore passo riguardo un tema a lui molto caro, quello dei rapporti costanti e sempre inquinati fra gli Usa da una parte e l'America Latina dall'altra. Vicini e distanti, confinanti e nemici, alleati ma sospettosi, gli States e i Paesi del subcontinente latino hanno involontariamente creato una vasta terra di mezzo in cui le due etnie, le due politiche e le due differenti visioni del mondo si compenetrano loro malgrado, dando cittadinanza ideale a migliaia di uomini e donne alla deriva proprio perché incapaci di sentirsi pienamente parte di una comunità ben definita. Le origini ibride e mai pacificate del popolo americano sono motivo di tormento per i personaggi di "Promesse, promesse", "Fratello da un altro pianeta", "City of Hope", "Stella solitaria", "Angeli armati" e, infine, "Casa de los Babys", in cui sei donne americane si ritrovano in un Paese del Sudamerica non meglio precisato: qui devono completare un faticoso e oneroso iter burocratico prima di poter tornare a casa con un bambino adottato. Da queste parti, infatti, centinaia di neonati vengono abbandonati e diventano una forma di entrata economica per il Paese: gli americani hanno rinunciato, in tutto o in parte, all'idea del concepimento, della gravidanza, della natura intrinseca all'essenza stessa della genitorialità. E così, quando non hanno più altre possibilità per avere dei figli, spendono parecchi soldi per adottarli in villaggi e cittadine devastate dalla miseria. Nel cinema di Sayles non c'è spazio per lo sviluppo narrativo classico: le sue storie non hanno una fine, così come non hanno un principio, sono fotografie di una certa contemporaneità, immortalata da un momento X nel tempo a un momento Y successivo. Ecco perché le sue pellicole sono drammaticamente difficili da distribuire: lo spettatore si trova spiazzato dalla difficoltà a sentirsi pienamente soddisfatto con l'immediatezza con cui è solito uscire da una sala cinematografica.

In questo cinema l'appagamento della visione è di altro tipo e le vicende vanno, più che seguite, vissute al fianco dei protagonisti, con un esercizio di immedesimazione che richiede impegno e dedizione. Le sei donne, infatti, sono già lì, sul posto, quando il film comincia e per diversi minuti ci mostra altro: la sorte dei bambini non adottati rimasti nel Paese e ridotti ad atti di piccola criminalità per sopravvivere; il disprezzo soffocato dei gestori dell'orfanotrofio verso gli Yankees e la superficialità della loro condotta, disprezzo appunto taciuto perché comunque sono i visitatori venuti dal nord che danno da mangiare a tante famiglie; e poi, ancora, squarci di vita comune, in altalena fra pochi slanci di entusiasmo e la routine di giornate in cui lo scopo principale è quello di arrivare sani e salvi fino all'indomani.

È all'interno di questa comunità che fanno capolino Nan, Jennifer, Skipper, Eileen, Gayle e Leslie, ognuna con il proprio passato, le proprie sconfitte personali e la propria personale determinazione nel tornare in patria con un figlio. Il film di Sayles non è un film sul traffico di neonati, né sul mondo degli affari che gira attorno alle adozioni internazionali, né tantomeno un atto d'accusa contro la borghesia statunitense, sarebbe troppo facile. Il regista originario di Schenectady, come sempre, riesce a usare i personaggi che crea come elementi di un quadro molto più complesso, di cui lo spettatore deve riuscire ad avere una visione organica: per questo è un cinema difficile, nonostante la sua apparente convenzionalità, anticonformista nonostante la sua adesione ai criteri della suddivisione per generi. Sayles è un romanziere che sa scrivere pagine dense di significato sull'umanità del 21° secolo, dandone, film dopo film, un'impressione generale che si arricchisce costantemente di nuovi spunti, di nuove riflessioni. Eccezionale nella scrittura di caratteri ispirati a tracce di realtà vissuta, impareggiabile nella pura arte del racconto, ci troviamo di fronte a un autore che non rinuncia a una delicatezza sopraffina nelle scelte registiche, dalle panoramiche mozzafiato con cui riesce a cogliere l'essenza di ogni scenografia al montaggio da lui stesso curato che esalta al massimo i tormenti di corpi e volti umani.
In "Casa de los Babys" c'è una scena che sintetizza la grandezza del cinema di questo autore: Eileen (interpretata da Susan Lynch) si trova faccia a faccia con una addetta alle pulizie della struttura, una non parla spagnolo, l'altra non parla inglese. Sayles mette in scena una sequenza magistrale: un colloquio sulla maternità che sarà e su quella perduta con due lingue diverse che si confrontano. Un tema universale, una comunicazione universale tra madri, seppure con esperienze opposte. Ecco, l'arte di John Sayles è universale e capace di parlare a tutti.


10/05/2020

Cast e credits

cast:
Marcia Gay Harden, Maggie Gyllenhaal, Daryl Hannah, Susan Lynch, Mary Steenburgen


regia:
John Sayles


durata:
95'


produzione:
IFC Films, Springall Pictures


sceneggiatura:
John Sayles


fotografia:
Mauricio Rubinstein


montaggio:
John Sayles


musiche:
Mason Daring


Trama
Sei americane si recano in America Latina per trovare dei bambini da adottare. La legge prevede che le madri adottive si installino nel paese d'origine dei nuovi figli e si adattino agli usi locali. Tra le donne c'è un'operaia, membro di un'associazione di alcolisti anonimi, un'ebrea newyorkese lunatica, una ragazza benestante, una bostoniana in difficoltà economiche e un'atleta...