Ondacinema

recensione di Rudi Capra
6.5/10

è stata la mano di dio

Il cinema di Sorrentino è da sempre cinema dell'eccesso e cinema del rimosso, laddove il primo aspetto si sforza di compensare il secondo attraverso un immaginario fastoso e pirotecnico, tra calciatori di duecento chili che palleggiano in una clinica svizzera e giraffe che svaniscono alle terme di Caracalla.

Per la prima volta, "È stata la mano di Dio" non intende riempire il vuoto ma esplorarlo, per quanto si tratti del vuoto immenso e inesprimibile che coincide con la perdita dei genitori. Diciamolo subito: non è, com'è stato detto e sbandierato, il lavoro migliore di Sorrentino. Ma è senza dubbio il più sincero. E il più difficile. Una riflessione autobiografica che si accompagna a una meditazione poetica sulle proprie fascinazioni, le proprie radici, un bilancio della vita e dell'opera attraverso un ritratto dell'artista da giovane.

Equamente spartito dall'epicentro drammatico in due macro-segmenti narrativi, "È stata la mano di Dio" colleziona nella prima parte una galleria di figure, volti da commedia all'italiana. Alcuni suggestivi, come il san Gennaro Enzo Decaro, nume tutelare della comicità napoletana, altri macchiette un po' forzate, come la Signora Gentile, i vicini altoatesini, lo zio Alfredo irriducibile maradoniano. Vizi e virtù di una famiglia borghese, un po' come lo Scola di "Una famiglia" (1987), incastonati in un racconto corale ambientato non nel rione romano Prati ma in una Napoli sfacciata, vertiginosa, ripresa in campi lunghi e panoramiche sempre sul punto di stracciarsi nel grande blu marino o celeste, mentre traluce in lontananza lo "spettro azzurro di Capri" (copyright Curzio Malaparte).

Sono gli anni di Maradona, Troisi, e della gioventù di Sorrentino, interpretato da un giovane e bravissimo alter ego (Filippo Scotti, premio Mastroianni). La resa non può che essere idillica, fortemente patemizzata, a partire dal sonoro e dall'inquadratura che contiene altri quadri, soggetti inchiodati allo spaccato di una porta, un arco, una finestra. La stessa evocazione dei personaggi richiama più il modello indulgente e nostalgico di Fellini che quello tipicamente satirico, acre, della commedia all'italiana.
Fellini, appunto. Che arriva a Napoli per un provino e non viene mai inquadrato. Ne abbiamo traccia soltanto attraverso la voce e le foto di donne, un elenco inesauribile di desideri e bellezze come lo è il cinema felliniano, grande rimosso dell'immaginario di Sorrentino. Volendo giocare in maniera infantile con le parole, potremmo dire che Sorrentino ricorre all'immaginazione e Fellini alla fantasia, perché l'uno produce immagini e l'altro fantasmi: spettri della memoria, del desiderio.

Con questa eredità difficile si relaziona la seconda parte del film, che prende gradualmente commiato dalle visioni (l'auto d'epoca, san Gennaro, il munaciello, la tv che si spegne sulle immagini del primo scudetto di Maradona) per dedicarsi (più in linea con il mentore Antonio Capuano) alle storie della città, e a una in particolare: quella di Fabio Schisa, del suo relazionarsi con un altro vuoto, un altro rimosso, non solo la morte dei genitori ma il fatto puro e triviale che da morti "non glieli hanno fatti vedere."
Un non-fatto, o non-visto, che percorre carsicamente l'intera filmografia sorrentiniana in rimandi obliqui, allusivi. In "This Must Be The Place" si dice ad esempio che "a tutti, senza alcuna distinzione, è stata strappata la giovinezza". Qui il racconto di formazione non forma immagini auto-evidenti, eidetiche (il Sean Penn struccato e sbarbato del finale, maturato e ripulito), ma enigmatici mantra da interiorizzare, due su tutti: "la realtà è deludente" e "non ti disunire."

Quindi soltanto il cinema può riscattare la realtà, ma solo a condizione di quell'integrità poetica che, piaccia o non piaccia, è ormai cifra stilistica riconoscibile di Sorrentino auteur. Vengano dunque la stucchevole romantizzazione dell'epos maradoniano, le improbabili caricature, la parata di freaks con i microfoni in gola, le baronesse miserabili, le grasse signore che sbranano mozzarelle, l'umorismo più deprecativo che ispirato, le cartoline di Stromboli, i furti di canederli, gli offshore che fanno tuff-tuff e il sipario che cala su Napule è.

Cechov scriveva, "L'arte ha questo di particolarmente grande: non tollera la menzogna," ma è anche vero che l'arte è essenzialmente menzogna, una raffinata negazione della realtà in cui di reale troviamo soprattutto i sentimenti; quelli particolari di chi guarda, di chi crea, quelli universali come il dolore per la perdita di un'epoca, di una persona, di una parte di noi. "È stata la mano di Dio" assomiglia per Sorrentino a un O.K. Corral dei sentimenti, una resa dei conti dal sapore crepuscolare, ma potrebbe anche coincidere con l'alba di una nuova fase in una delle filmografie più significative del cinema italiano del nuovo millennio.

E comunque, era meglio Pelé.


05/12/2021

Cast e credits

cast:
Filippo Scotti, Rossella Di Lucca, Marlon Joubert, Sofya Gershevich, Biagio Manna, Ciro Capano, Enzo Decaro, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Betti Pedrazzi, Luisa Ranieri, Teresa Saponangelo, Toni Servillo, Monica Nappo


regia:
Paolo Sorrentino


titolo originale:
È stata la mano di Dio


distribuzione:
Netflix, Lucky Red


durata:
130'


produzione:
The Apartment, Fremantle


sceneggiatura:
Paolo Sorrentino


fotografia:
Daria D'Antonio


scenografie:
Carmine Guarino


montaggio:
Cristiano Travaglioli


costumi:
Mariano Tufano


musiche:
Lele Marchitelli


Trama
Sono gli anni di Maradona, Troisi, e della gioventù di Sorrentino, interpretato da un giovane e bravissimo Filippo Scotti a.k.a. Fabio Schisa. Racconto di formazione che narra il relazionarsi del protagonista con il grande vuoto della morte dei genitori