Ondacinema

recensione di Giuseppe Gangi
8.0/10

Jafar Panahi, dopo diversi problemi con la censura e con le autorità della Repubblica islamica, è stato arrestato e condannato nel 2010 all'interdizione di girare film e a lasciare il paese per venti anni (oltre a sei anni di carcere ridotti a uno). Durante il processo gira "This Is Not A Film", un video-diario in cui mette al centro se stesso e l'ansia per l'esito del dibattimento. Da sempre considerato un regista politico e dissidente, da questo momento Panahi diviene il volto di una resistenza artistica e di una disobbedienza civile attraverso un cinema umanissimo e umanista. Riguardo ai suoi ultimi lavori si è spesso sentito dire che il regista iraniano venisse premiato a causa della sua singolare posizione e del suo impegno, dei temi dei suoi film: i premi servono a mantenere un riflettore puntato su di lui, dandogli quel margine di movimento per lavorare. Anche se la dietrologia può avere un fondo di verità, è a ben vedere dall'esordio, "Il palloncino bianco" datato 1995, che Panahi miete successi nei festival e da allora non è mai tornato a mani vuote da un concorso internazionale, restando tra i registi contemporanei più apprezzati e premiati nel circuito dei festival. "Gli orsi non esistono" si è aggiudicato il Premio speciale della giuria alla 79ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia e per molti critici ne è di fatto il vincitore morale. Panahi è stato nuovamente arrestato l'11 luglio 2022, per essersi recato alla procura di Teheran per avere aggiornamenti sul caso del collega Mohammad Rasoulof, e rischia di dover realmente scontare sei anni di carcere.

In "Tre volti" Panahi era chiamato, in qualità di regista, a dirimere un piccolo mistero: capire se un video in cui si simulava un suicidio fosse reale oppure una messa in scena. L'ambiguità del reale e della sua forma una volta diventata messinscena, la riflessione sul dispositivo e la perpetua, baziniana interrogazione riguardo l'ontologia del cinema - tipico di alcuni capolavori del cinema iraniano post-rivoluzionario - sono riproposti ancora una volta in "Gli orsi non esistono". Il film si apre su Bakhtiar che sta portando alla sua compagna Zara un passaporto falso così da poter raggiungere l'Europa, ma Zara si rifiuta di partire perché dovrebbe poi aspettare che l'uomo riesca a ottenere un secondo documento. Il virtuosismo è interrotto da un "cut!" e uno zoom-out mostra che la scena è supervisionata da Jafar, tramite il monitor di un laptop: il regista, che non può lasciare il paese, sta dirigendo da remoto il film ambientato oltreconfine in Turchia, grazie al fidato assistente Reza. 
Questo primo livello di "Gli orsi non esistono" è introdotto dal virtuosismo del piano-sequenza, un tratto distintivo dello stile di Panahi e dei suoi incipit, presentando subito dopo Jafar dirigere da una modesta stanza in cui la connessione internet è poco stabile: confluiscono così i due stili del regista, quello che si concentra sul piano-sequenza e (soprattutto nei primi lavori) sul movimento circolare, sia della macchina da presa sia del racconto, e quello inevitabilmente autoriflessivo di quest'ultima fase basato spesso sul piano fisso, angolazioni e ambienti più stretti. Cornici, finestre e schermi sono figure peculiari dell'ultimo Panahi poiché la trasparenza della realtà si combina inevitabilmente a mostrarne i limiti, i bordi, la composizione di messa in scena, invitando lo spettatore a guardare quel mondo e a interpretarlo. In questo modo, Panahi continua la tradizione di Abbas Kiarostami che credeva in un cinema incompiuto che spingesse gli spettatori a reinterpretare e a completare le immagini. "Gli orsi non esistono" inizia con la rivelazione di una mise en abyme, ma i livelli e il gioco di specchi tra realtà e fiction, fiction e vita sono molteplici e attraversati dal corpo del regista stesso. 

Un secondo livello comprende l'elemento politico e geografico del suo cinema che torna ad ambientarsi in un villaggio del Nord-Ovest del paese (come in "Tre volti"). Jafar si trova vicino al confine e il suo assistente combina un incontro notturno, col placet dei contrabbandieri, per dargli la possibilità di fuggire dal paese. La sequenza si svolge di notte, in cui il digitale lievemente sgranato rende l'immagine meno nitida quasi evanescente. Reza conduce Jafar su un promontorio seguendo il sentiero di contrabbandieri e trafficanti di esseri umani: quasi come in un western, il villaggio si mostra come un limbo tra la Legge dell'Iran e l'assenza di Stato dei luoghi liminari. "Dov'è il confine?" chiede improvvisamente Panahi, smettendo di avanzare. "Ci sei sopra", gli risponde Reza. Il protagonista vedendosi vicino a fuoriuscire dal paese che lo perseguita, che lo costringe a lavorare in semi-clandestinità limitando le sue libertà, si ritrae atterrito. Eppure la scena chiave, che rompe l'equilibrio tra l'individuo Jafar e la piccola comunità non è questo: il giorno prima, mentre il paese era in festa e partecipava a un antico rito locale, Jafar scatta delle fotografie, alcune di queste (forse) a una coppia di amanti segreti che sta meditando di lasciare il paese in clandestinità. La scena è girata senza alcuna enfasi: la macchina da presa inquadra semplicemente Jafar di spalle che fa diversi scatti e di alcune il soggetto è lasciato fuoricampo; infatti, non viene mai certificato che quell'immagine esista veramente (la comunità è chiaramente convinta di sì, Jafar nega recisamente cedendo persino la memory card). Come un sassolino che diventa una slavina, il gesto automatico del regista-in-scena ha conseguenze inaspettate e imprevedibili, perché la famiglia del promesso sposo della ragazza adesso pretende la foto che dimostrerebbe il tradimento. La sottotrama degli amanti che desiderano la fuga ha il suo riverbero nella storia del docu-drama interno al film, ma il gioco metacinematografico è come uno specchio che, scivolando dalle mani del suo demiurgo, rovinosamente s'infrange.
Lo spazio del villaggio che prima abbraccia Jafar, poi lo inquisisce e infine lo costringe all'esilio è la naturale allegoria dell'Iran, che mette sotto assedio e sotto processo quelli che provano a guardare ciò che c'è oltre la cornice, oltre i limiti del quadro imposto dal regime.

Un terzo livello riguarda Jafar Panahi, ormai assurto a corpo cinematografico che attraversa e incopora la propria opera. Facendo di necessità virtù, Panahi ha nell'ultimo decennio affinato l'arte di far di se stessi cinema e "Gli orsi non esistono" si presenta quale (temporanea) chiusura e summa di questa fase del regista. C'è una scena che si potrebbe tacciare di retorica se non fosse girata e interpretata da Panahi stesso. A Jafar viene chiesto di partecipare a un rituale del paese, un giuramento sul Corano che deve mostrare a tutti la sua onestà e chiuderebbe la contesa intorno alla foto che ha/non ha scattato. Jafar si presenta con la sua videocamera e invece di giurare sul libro sacro islamico, filma la propria confessione: la sua religione è il cinema, la sua fortezza morale e la sua onestà intellettuale devono essere processati dall'occhio della macchina da presa. Benché i modi siano sempre gentili c'è sempre un non detto sotterraneo che rende i rapporti tra lui e la piccola comunità del paese via via più tesi. La sua disobbedienza verso un rito religioso che per lui non ha alcun senso (come la minaccia degli orsi, una superstizione per spaventare gli abitanti in un luogo in cui non esistono orsi) inevitabilmente rompe il patto ospitalità e il regista è costretto a lasciare il paese. Transitando da quelle strade con la sua macchina vediamo altre tragedie che si sono consumate, senza che Jafar abbia potuto fare nulla, se non assistervi da spettatore esterno. 
Panahi, artista benestante, può sempre salire sulla sua auto e tornare a Teheran (oppure fuggire in esilio). Alla maggior parte dei suoi connazionali questo privilegio non è concesso. Nello splendido "Lo specchio" (1997) Mina fissava l'occhio della cinepresa dichiarando di non voler più recitare fuggendo dal film di cui è protagonista, mentre in "Closed Curtains" (2013) i protagonisti si rivelavano quali personaggi filmici elaborati dal regista e, al contempo, quali fantasmi della sua coscienza, scisso tra l'artista-intellettuale che si isola per creare e la dissidente che aspira al suicidio-martirio. Zara è l'estensione del personaggio femminile di "Closed Curtains", persona-personaggio che vuole fuggire dentro e fuori la ricostruzione cinematografica, denunciando le torture e i tentati suicidi per la sua condizione di perseguitata. Ne "Gli orsi non esistono" è lei a inchiodare il regista alle sue responsabilità, praticando l'ennesima rottura della quarta parete e ribellandosi alle costrizioni del cinema, alla realtà ri-messa in scena da Panahi attraverso la carne viva e i veri sentimenti della donna.  

È interessante pensare al Jafar di questo film non solo in relazione alla filmografia del suo autore, ma anche a un capolavoro degli anni Dieci, ossia "Neruda" di Pablo Larraín. Come Neruda anche Jafar è al bivio tra la tentazione della fuga e la possibilità di continuare a pungere il Potere con la sua potente voce di artista, ma al contrario del film di Larraín qui la reinvenzione implica la sua presenza, lo coinvolge e gli impedisce di operare uno straniamento. Ne "Gli orsi non esistono" Panahi è giudice e imputato, vittima e involontario carnefice. L'interrogazione teorica di Panahi si risolve in un film maturo e densamente problematico, dove gli usuali toni da commedia lasciano il posto a un senso  crescente di inquietudine e paranoia. Nel momento in cui nessun luogo è sicuro e dietro ogni volto amico si potrebbe celare un delatore, ad attendere ci sono solo la morte, la fuga e lo schermo nero.


13/10/2022

Cast e credits

cast:
Jafar Panahi, Naser Hashemi, Vahid Mobasheri, Reza Heydari, Bakhtiar Panjei, Mina Khosravani


regia:
Jafar Panahi


titolo originale:
Khers nist


distribuzione:
Academy Two


durata:
106'


produzione:
JP Production


sceneggiatura:
Jafar Panahi


fotografia:
Amin Jafari


scenografie:
Babak Jajaie Tabrizi


montaggio:
Amir Etminan


costumi:
Leyla Siyahi


Trama
Una strada e una coppia. Lui ha procurato per lei un passaporto falso per consentirle di espatriare ma quando la donna apprende che non partiranno insieme rifiuta di lasciarlo. Uno "Stop" ci informa del fatto che si tratta di una scena di una docufiction che Jafar Panahi sta cercando di dirigere a distanza da un villaggio in cui il segnale è estremamente precario. Ma anche la vita in quel luogo è precaria.