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recensione di Matteo De Simei

Vi era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo nel cuore degli uomini era buio
Mario Rigoni Stern, "Il sergente sulla neve"


Elogio dell'essenzialità e nascita di una nuova era

Primavera del 1961. Ermanno Olmi, Federico Fellini e Tullio Kezich attraversano in auto le strade di Milano. A un tratto Kezich domanda: "Federico, ma tu l'hai visto l'ultimo film di Ermanno, "Il posto"?". "Non me lo dire!" esclama Fellini, "E pensare che potevo essere io il rinnovatore del cinema italiano..."1. Il riferimento era dovuto al fatto che il cineasta riminese avrebbe potuto produrre il secondo lungometraggio di Olmi insieme a Rizzoli ma persero l'occasione e il progetto finì nelle mani della Titanus. Il biennio 60-61 si rivelò infatti un punto nevralgico per il "rinnovamento" del cinema del nostro paese: gli esordi folgoranti di Pasolini e De Seta, i monumenti firmati Antonioni, Visconti e dallo stesso Fellini, le prime uscite di un giovane Marco Ferreri. Tra loro, anche un giovane trentenne bergamasco impiegato alla Edisonvolta, figlio di un operaio antifascista e di un'impiegata di origini contadine. La meravigliosa storia di Ermanno Olmi comincia qua ed è una delle più rare testiomonianze di come si possa diventare maestri della settima arte pur non essendo insigniti da accademie e centri sperimentali; di come il lavoro e l'autodidattica, senza contaminazioni alcune, possano da sole reggere le fondamenta per un'impeccabile crescita professionale rimasta nel corso degli anni sempre a stretto contatto con la propria terra d'origine e il proprio passato, come in una sorta di doverosa gratitudine e riconoscenza.
Olmi rimane folgorato dagli anni d'oro del Neorealismo di De Sica e Rossellini quando ha poco più di vent'anni. Una delle più grandi fortune che il destino gli abbia concesso è aver potuto emulare quei miti adolescenziali attraverso il suo lavoro. Cinepresa in mano, infatti, viene invitato dalla Edison a documentare le gesta dei suoi colleghi nelle più comuni attività lavorative e nell'arco di sei anni realizza sedici documentari dove il trinomio tra uomo, lavoro e natura costituiscono il minimo comun denominatore. Come il meraviglioso "Michelino 1°B" (1956) una sorta di documentario fiabesco incentrato sulla crescita di un bambino ("un eroe" come asserisce la voce fuori campo) futuro operaio Edison. Il suo primo lungometraggio, "Il tempo si è fermato" (1959) segna invece un punto di rottura e non solo per quanto concerne la metratura di pellicola. Mentre il boom economico imperversa nel Paese, Olmi fa il suo approccio con la finzione soffermandosi su tutt'altro: le montagne, la neve, i silenzi. Il film racconta la convivenza forzata tra due guardiani di una diga, un giovane studente e un esperto padre di famiglia. Il vecchio e il nuovo, uno di fronte all'altro, come a sancire la fine di un'era e l'inizio di un'altra. Tra lunghe riflessioni in dialetto lombardo e uno spiccato senso di solitudine che imperversa tra un dialogo e l'altro, è però un cauto ottimismo alla fine a trapelare e a sancire la metafora di una comunicazione che, nonostante la diversità anagrafica tra i due protagonisti, non vuole accennare a interrompersi.


Le maschere di Milano

Ma torniamo a quella primavera del 1961. Mentre pellicole come "La dolce vita" e "La notte", irrompono nelle sale cinematografiche del Paese ostentando serate di gala fastose e ampollose, città già modellate dall'esplosione edilizia, opulenze sfrontate e snobismi da nouveaux riches, "Il posto" mantiene un profilo volutamente basso, l'immagine esautorata da pleonasmi e orpelli barocchi. Dai fotogrammi si respira aria di umiltà e semplicità, in parte grazie a un approccio neorealista (il punto di vista dei meno abbienti, l'uso di attori non professionisti) e in parte per merito del suo abituale stile documentaristico (l'uso della camera a mano). Con il suo secondo lavoro, Olmi realizza così il prolungamento naturale del suo film d'esordio, lasciando cioè che la solitudine e le problematicità della comunicazione prendano il sopravvento sul ben più manifesto benessere sociale e culturale del periodo. La maturità con cui viene affrontato il progetto è encomiabile se si pensa che a ideare, scrivere e dirigere il film sia un ragazzo di appena trent'anni con un solo lungometraggio di finzione all'attivo. Forse perché quella che si appresta a raccontare è la sua di storia, il desiderio di riferire agli altri quelle che erano state le sue esperienze da giovanissimo nell'impatto col mondo aziendale. Così, svincolato dalla Edison per non far pesare loro troppe responsabilità, impiega tutti i risparmi di famiglia e comincia a girare con disponibilità economiche ridotte all'osso.
Domenico è un giovanissimo ragazzo di Meda che grazie a una non precisata referenza del padre operaio, ha l'opportunità di prendere parte a dei colloqui lavorativi al fine di poter ottenere l'agognato posto fisso in una grande azienda di Milano. La storia di Domenico è, per certi versi, molto simile a quella descritta dallo stesso regista in "Michelino 1°B" pochi anni prima e ne ricalca tutta la prima parte: il primo contatto tra il ragazzo "antico" e introverso e la grande città in espansione, lo stupore di fronte ai treni, alle vetrine, ai caffè dei bar. Lo spaesamento prodotto da quei bizzarri test attitudinali che dislocano il racconto neorealista su derive grottesche2. La bonarietà e la propaganda del primo lavoro ("Quante cose nuove eh, Michelino!") lasciano però ora spazio a uno sguardo più severo e introspettivo, secondo lo stile manzoniano accadimento-riflessione. In ballo non c'è solamente la scrivania da raggiungere ma anche un amore nato in pochi istanti e in pochi istanti dissolto nel nulla. Il vuoto lasciato dalla continua assenza di Magalì stordisce il protagonista che palesa progressivamente il suo più totale disinteresse nei confronti dell'ambiente lavorativo. Paradossalmente è proprio l'organizzazione aziendale, artefice dell'incontro tra i due ragazzi, a troncare sadicamente il neonato legame, perché i meccanismi dei percorsi dell'azienda non corrispondono ai meccanismi dei sentimenti del cuore. La riflessione antropologica e sociale di Olmi è compiuta: il compromesso per il posto di lavoro ottenuto è il soffocamento dei propri sentimenti, il sacrificio delle libertà individuali.


Radici

Non c'è un singolo fotogramma de "Il Posto" nel quale non si si avverta la vivida sensazione di un'Italia ancora fortemente scossa dalla guerra, come un tremore di fondo che neanche una prodigiosa rinascita riesce a placare; o come se una calda giornata irradiata dal sole si scontrasse con l'oscurità di un animo cupo e luttuoso. Lo stesso animo che Olmi disegna all'interno delle caricaturali gallerie dei personaggi/impiegati dell'ufficio tecnico, focalizzando l'attenzione su un aspirante scrittore che, vittima della solitudine e della meccanicità lavorativa (e magari anche lui vittima di un amore non corrisposto...), si abbandona al suicidio (non a caso sarà proprio questa disgrazia a permettere a Domenico di ottenere la scrivania, il posto fisso). Infine, la lunga, desolante sequenza della festa di capodanno che precede il cinico e glaciale finale, ossimoro attraverso il quale Olmi sgretola tutti i buoni propositi di urbanizzazione ed emancipazione sociale. Perché il baccano delle macchine e dei martelli pneumatici in una Piazza San Babila sventrata dai lavori per la costruzione della metropolitana è solo una delle tante maschere della Milano degli anni sessanta. Il suo vero volto è quello di un desolante trenino in un disagiato capodanno organizzato dal dopolavoro aziendale.
Nei decenni successivi Ermanno Olmi porterà a compimento altre due monumentali opere incentrate sul lavoro, "L'albero degli zoccoli" (1979) e "Il mestiere delle armi" (2001). Nel primo, Palma d'Oro al 31° Festival di Cannes, unanimemente riconosciuto dalla critica come summa del regista, viene celebrato il funerale del mondo contadino attraverso il ricordo (e la scoperta) di gesti, azioni e parole figlie della cultura umile e armoniosa della campagna, oltre a decantare l'importanza della famiglia e del lavoro manuale per la società. "La mia cultura, uso questo termine nel senso di apprendere i saperi che in qualche modo sono traducibili in atto comportamentale, è una cultura contadina e io rivendico il primato di questa cultura. Una cultura che si apprende non nel libro dove le parole sono stampate ma nel libro dove la natura si esprime". Non è un caso che quarant'anni dopo aver filmato "Il posto", Olmi presenti il più estremo dei mestieri, quello del soldato di guerra, come lo fu Giovanni de' Medici che nel 1500 aveva il compito di uccidere per non farsi uccidere. La grandezza del suo secondo lungometraggio è allora da ricercare anche nella sua propedeuticità, perché i suoi più grandi successi forse non sarebbero mai stati scritti e realizzati senza prima l'urgenza di descrivere la propria vita ("il volto di quel ragazzo che piega la lampada per mettersi a lavorare e rimane con gli occhi sgranati, come se guardasse il suo futuro davanti a sé, interrogandosi. Quella è un'immagine che riassume il mio stato d'animo precipuo di quel momento"3). La visione maieutica e intimista di un film come "Il Posto", ha dunque permesso di creare l'humus ideale per la crescita e la fioritura del suo "albero" e del suo pensiero, corroborando l'urgenza, l'essenzialità di una natura umile e contadina che riesca a dar linfa alle proprie radici. Prima di allora solo lo sguardo brutale e ferino di chi presagiva la triste realtà a cui andava incontro la società europea del dopoguerra.


Note


1  
Citazione tratta da "Ermanno Olmi", di Charlie Owens, Gremese Editore, 2001, pag. 36.
2
L'assurdità dell'esame psicotecnico in ambito di colloquio lavorativo sarà ripreso quasi vent'anni dopo da Maurizio Nichetti, alias Mr. Colombo, nell'intro del film "Ratataplan" (1979). La forte connotazione grottesca della sala deserta al veglione di capodanno poi, sembra anticipare quella parodistica e demenziale in "Fantozzi" (1975).
3 Citazione tratta da "Ermanno Olmi", di Charlie Owens, Gremese Editore, 2001, pag. 37


Bibliografia:


- Charlie Owens, "Ermanno Olmi", Gremese Editore, 2001
- Morando Morandini, "Ermanno Olmi", Il Castoro Cinema, 2009
- Tullio Kezich, "Ermanno Olmi. Il mestiere delle immagini", Edizioni Falsopiano, 2004


06/02/2017

Cast e credits

cast:
Sandro Panseri, Loredana Detto


regia:
Ermanno Olmi


distribuzione:
Titanus


durata:
93'


produzione:
Titanus


sceneggiatura:
Ermanno Olmi


fotografia:
Lamberto Caimi


scenografie:
Ettore Lombardi


montaggio:
Carla Colombo


musiche:
Pier Emilio Bassi


Trama
Domenico è un giovanissimo ragazzo della periferia di Milano che ha l’opportunità di prendere parte a dei colloqui lavorativi al fine di poter ottenere l’agognato posto fisso in una grande azienda del capoluogo lombardo