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recensione di Giancarlo Usai

Un picchiettare sommesso sui vetri lo fece voltare verso la finestra: aveva ricominciato a nevicare. Osservò assonnato i fiocchi neri e argentei che cadevano obliqui contro il lampione. Era giunto il momento di mettersi in viaggio verso occidente. Sì, i giornali dicevano il vero: c'era neve dappertutto in Irlanda. Cadeva ovunque nella buia pianura centrale, sulle nude colline; cadeva soffice sulla palude di Allen e più a ovest sulle nere, tumultuose onde dello Shannon. Cadeva in ogni canto del cimitero deserto, lassù sulla collina dove era sepolto Michael Furey. S'ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle pietre tombali, sulle punte del cancello, sugli spogli roveti. E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull'universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti. 


Le sorelle Morkan, Kate e Julie, non si sono mai sposate. Però hanno molti amici, parenti, conoscenti. Un cerchio di rapporti umani coltivati nel tempo, insieme alla nipote Mary Jean. La notte dell'Epifania di ogni anno, da queste parti a Dublino, ai primi del Novecento, questa stima e questo affetto trovano puntuale riscontro in una serata all'insegna del buonumore e della convivialità. Arrivano molti ospiti nella casa di Usher's Island e qui, fra musiche, racconti, balli, piccoli avvenimenti che si reiterano anno dopo anno, si rinnova un'usanza cara a tutto il gruppo di persone partecipanti. Attorno a una magnifica tavola imbandita, con una gigantesca oca da tagliare e gustare tutti insieme, c'è spazio per il ricordo e le memorie dell'Irlanda che è stata, per manifestare un senso di appartenenza a una comunità, a una terra, che, forse, si sta perdendo con l'avvento della modernità. Ma in questa dimora stupendamente arredata e conservata, il cuore di ciò che significa radici, sentimento di unità e unione riesce a tenersi vivo, nonostante ogni volta si debbano ricordare le persone care che invece non ci sono più.
"I morti" è l'ultimo racconto della serie di novelle di James Joyce raccolte in "Gente di Dublino". Ne costituisce un capitolo finale assolutamente spiazzante, perché qui, in queste pagine, Joyce ha deciso di confondere le apparenze, mischiando in un ordine non precostituito i pilastri di ogni singola storia precedente. Se in tutti gli altri racconti la paralisi e la fuga sono i due elementi che accompagnano costantemente i protagonisti nelle loro piccole vicende, qui qualcosa si muove e tende alla realizzazione di un'idea nuova. Ne "I morti" la paralisi che apparentemente blocca i personaggi nell'immobilismo delle proprie ambiguità e dei propri rimpianti sembra farsi da parte. E la fuga come inevitabile conseguenza non è più il solo esito possibile: la presa di coscienza, invece, con tutta la sua drammatica malinconia ma anche con il suo tenero realismo, si fa largo proprio nelle ultime pagine.

La morte in scena

Quando John Huston si mise a lavorare alla trasposizione cinematografica de "I morti" stava, anch'egli, morendo: costretto su una sedia a rotelle, respirava a fatica e parlava con un filo di voce. Le cronache dal set lo descrivono come una presenza densa di tragicità durante le riprese, che seguiva da un monitor, lontano dal luogo di recitazione, parlando con gli attori con un microfono che ne amplificava le parole e limitandosi a poche indicazioni, dato che si fidava ciecamente del cast, composto prevalentemente da attori molto esperti provenienti dalla tradizione del teatro irlandese. La sceneggiatura l'aveva scritta suo figlio Tony, che aveva lavorato mirabilmente sulla fonte originale con una delicatezza e una padronanza stupefacenti. Approfittando della prosa limpida di Joyce e dell'uso libero del discorso indiretto, Huston jr. aveva trasformato in dialoghi le lunghe narrazioni avvolgenti della serata, restando completamente attinente al testo originario nella successione di eventi e nell'uso di parole ed espressioni. 83 minuti la durata del lungometraggio, proprio quanti ne dovrebbero servire per leggere il racconto. In realtà, la morte come elemento portante del capolavoro di Huston affiora solo nell'epilogo in modo eclatante. Per il resto del film, ciò che traspare non è un senso oscuro di fine del tutto, ma piuttosto un'immersione nell'essenza del ricordo. I personaggi si intrattengono nel far riemergere dal loro passato personale, e da ciò che costuisce una sorta di memoria collettiva, alcuni fatti del tempo perduto che aiutano a vivere meglio il presente. E così, che si tratti dei polemici aneddoti di Mister Browne o delle uscite fuori luogo del perennemente ubriaco Freddy Malins, che siano ricordi legati a una poesia popolare recitata da Mister Grace (unica significativa aggiunta in fase di sceneggiatura), tutto contribuisce a questa coesistenza di presente e passato, di attualità e rievocazione.
In "The Dead" Huston fa fare alla sua macchina da presa movimenti avvolgenti e morbidi che, in un ideale abbraccio, circondano gli uomini e le donne che ballano, applaudono l'esecuzione di un brano musicale, ascoltano un attore recitare o, semplicemente, chiacchierano seduti a tavola durante la cena. La miracolosità del senso più profondo di "The Dead" sta in questa capacità di contrasto che mai stride: ciò che viene messo in scena e ciò che non compare mai, che pure è onnipresente, in sguardi, parole, allusioni. In questa opera di adattamento così semplice e morigerata, il grande cineasta americano fa esplodere il significato più importante del ricordo, ovvero l'importanza per ogni essere umano di sentirsi ancorato a delle tradizioni, delle storie di cui sentirsi parte. Questa Irlanda che si affaccia al nuovo secolo, pure dilaniata da contrasti politici e religiosi, trova nel senso di appartenenza comune il motivo per non perdere, completamente, la speranza nel futuro, sulle orme di un passato rimpianto.

Fedeltà e tradimento dell'opera letteraria

Già fantasticato da Michelangelo Antonioni, l'adattamento firmato da Huston entra di diritto tra le migliori opere cinematografiche tratte da una fonte letteraria. E il motivo sta nella prodigiosa fedeltà al testo che pure non costringe il cineasta a rinunciare a un suo uso personale del soggetto. Per Joyce, i personaggi erano strumenti, appunto, attraverso cui veicolare quel ritratto generale dell'uomo borghese irlandese imprigionato nelle consuetudini, incapace di muoversi verso la nuova epoca che si affacciava sulle sponde del Liffey. Il ricordo dei morti, la loro presenza costante come ombre dei vivi, per lo scrittore, costituivano un presagio inquietante, una minaccia velata di ciò che si diventerebbe ineluttabilmente. Ecco che per Joyce sorgeva l'aspirazione a vedere uno scatto d'orgoglio da parte di quella sua patria da cui si era autoesiliato per 35 anni. Huston, invece, affronta la riflessione con gli occhi compassionevoli di chi non pretende di trasformare in generali situazioni particolari. Egli si concentra proprio sul senso di nostalgia e di tenerezza che tutto avvolge e la sua macchina da presa, aiutata in questo dalla splendida fotografia di Fred Murphy e soprattutto dalla ricostruzione scenografica minuziosa di Stephen Grimes, si muove sulla scena per catturare tutto questo. Una notte del 1904 che potrebbe essere eterna, ripetendosi all'infinito e sostituendo di volta in volta nuove memorie e nuovi elementi di attualità. Fin troppo facile, poi, riflettere sul testamento artistico e spirituale firmato dall'autore. Vicino alla fine, sceglie proprio quest'opera per congedarsi dal mondo, un film dove la morte è ovunque eppure non affiora mai per quasi tutto il tempo, un congedo dignitoso e pieno di affezione quello di Huston, pienamente corrispondente al suo stile di vita e al modo in cui ha concepito il cinema come mezzo espressivo per tutta la sua vita.
Giudicato a volte in modo sprezzante un regista poco attento al dettaglio, nella parte finale della sua carriera Huston ha dato ascolto al cuore come pochi altri vecchi colleghi, sprigionando da ogni inquadratura e da ogni sequenza costruita attentamente tutto il suo amore per l'arte e la cultura come motori autentici della vita dell'uomo. In "The Dead" la musica assume ruolo fondamentale, non solo negli accompagnamenti di sottofondo ideati dal grande Alex North. L'esecuzione stessa di brani all'interno del film diventa elemento narrativo essenziale: l'esibizione di Mary Jean che saluta gli ospiti, la romanza di Bellini cantata da zia Julia, foriera di nuovi rimpianti su una brillante carriera finita troppo presto, fino alla canzone intonata fuori campo dal tenore Bartell D'Arcy che introduce all'epilogo della vicenda. E poi la poesia, la recitazione, il teatro dublinese, il mondo culturale della capitale che ancora resiste e non vuole cedere il passo: tutto questo per Huston, amante dell'Irlanda e delle sue tradizioni, viene visto da lontano con profonda ammirazione. Ciò che più annichilisce del suo sguardo sui personaggi è questa sua compassione nel comprendere le debolezze e la mole di recriminazioni soffocate a fatica che pure, con grande compostezza, non impedisce loro di vivere con dignità un presente deludente e forse carico di disillusione.

Epilogo

Nel finale nella stanza d'albergo, poi, Joyce e Huston si incontrano per l'ultima volta, accomunati, davanti al lettore e allo spettatore, dalla consapevolezza che la morte arriva sia per chi ha vissuto intensamente, sia per chi si è lasciato trascinare dalla corrente per troppi anni. I protagonisti sono indiscutibilmente loro due, Gretta (interpretata da Angelica Huston) e Gabriel, il nipote prediletto delle sorelle Morkan (interpretato da Donald McCann, eccezionale). Marito e moglie, durante la cena a casa Morkan vestono i panni della coppia salda, immune alle recriminazioni e ai piccoli rimorsi che avvinghiano tutti i commensali. Ma la canzone che D'Arcy canta sul finire della serata innesca in Gretta una serie di memorie impreviste e la sua mente torna all'età della gioventù, quando un giovane innamorato morì di polmonite pur di poterla salutare un'ultima volta. Uno sfogo liberatorio, quello della protagonista, cui Huston affida il compito di dare voce a ogni forma di pulsione nostalgica repressa da ogni altro personaggio comparso nella storia. E una reazione, quella del marito, capace di commuoverci ogni volta che rivediamo il film e ne ascoltiamo il monologo finale. Guardando fuori dalla finestra, osservando la neve che tutto ricopre, Gabriel ragiona sul fatto di aver vissuto una storia d'amore fatta di apparenza e superficie, di non essere mai stato amato e non aver mai amato come a sua moglie era capitato in un tempo lontano. E allora, pensa sempre Gabriel, forse è meglio morire come il povero Michael Furey, giovane ma appassionato, piuttosto che spegnersi lentamente fino a una vecchiaia incolore. Le parole pronunciate fuori campo si sovrappongono a un montaggio di immagini: il buio della notte, i vetri innevati, il fiume ghiacciato, un campanile oscuro. La luce e i colori degli interni caldi e accoglienti lasciano il posto al rigido inverno. Joyce formulò questo epilogo sottoforma di narrazione in terza persona, facendosi interprete dei pensieri di Gabriel. Huston, che ha deciso di escludere la voce narrante e affidarsi solo ai dialoghi diretti, sceglie per questo finale un monologo interiore del protagonista, una presa di coscienza drammatica e pure saggia: presto la morte avvolgerà tutto, prima o poi ogni cosa finirà. E allora meglio vivere intensamente ogni momento, pensa Gabriel. E, magicamente, le parole di Joyce diventano pensieri del protagonista e, di riflesso, convinzioni del regista. In mezzo a quel nero della notte irlandese Huston trova il senso ultimo del suo cinema, della sua missione artistica e della sua esistenza terrena. Con la confessione di Gretta, con il suo pianto disperato che le apre finalmente il cuore al vero sentimento, con la riflessione profonda e travolgente di suo marito, cala il sipario sulla vita di Huston stesso. Egli morirà il giorno prima l'inizio della Mostra del cinema di Venezia, dove il suo film verrà presentato fuori concorso.


27/08/2019

Cast e credits

cast:
Anjelica Huston, Donald McCann, Helena Carroll, Cathleen Delany, Rachel Dowling


regia:
John Huston


titolo originale:
The Dead


durata:
83'


produzione:
Vestron Pictures, Zenith, Channel 4, Liffey Films


sceneggiatura:
Tony Huston


fotografia:
Fred Murphy


scenografie:
Stephen Grimes


montaggio:
Roberto Silvi


costumi:
Dorothy Jeakins


musiche:
Alex North


Trama
Ogni anno, la sera dell'Epifania, due anziane sorelle di Dublino celebrano una festa cui invitano i familiari e gli amici, con rituali ripetitivi, menù fisso, musica e discorsi d'occasione. Un motivo musicale irlandese fa sorgere nella moglie del nipote preferito delle due sorelle dei ricordi dolorosi, che continuano anche dopo, quando i due coniugi si sono ritirati nella loro camera d'albergo...