Ondacinema

recensione di Mirko Salvini
8.5/10

Born free, as free as the wind blows / As free as the grass grows

Da un recente studio delle Nazioni Unite, basato su vari parametri, è emerso che la Danimarca è il paese al mondo in cui si vive meglio. Come fa notare una mia cara amica, non è sicuramente un caso che è anche uno stato che vanta una delle cinematografie più interessanti. Poco conta che i vari Lars Von TrierNicolas Winding Refn, Thomas Vinterberg e Susan Bier (tanto per citare i più noti) abbiano anche dei convinti detrattori; in Europa al momento in pochi possono tenere testa ai danesi. A contribuire a questo stato ottimale si aggiunge adesso questo durissimo documentario, realizzato da Joshua Oppenheimer, insieme a Chrystine Cyn e ad un non meglio identificato Anonymous (del resto buona parte del cast tecnico ha preferito mantenere segreta la propria identità) e dedicato ai massacri indonesiani di metà anni sessanta. Il film dopo essere passato con successo a Berlino e ad altri festival, dove ha suscitato l'entusiasmo della critica e qualche prevedibile reazione scioccata, ora potrebbe anche aspirare alla nomination all'Oscar come Miglior Documentario (ed è stato anche in predicato per essere designato per la gara al Miglior Film in Lingua Straniera, anche se gli è stato preferito il lungometraggio di finzione "Il sospetto").

Prodotto, tra gli altri, da Werner Herzog ed Errol Morris, il documentario, se appunto rende un bel servizio alla nazione scandinava, non si può dire faccia altrettanto con l'Indonesia, visto che del più popoloso paese a religione musulmana viene ricordata non solo una pagina nera e sanguinaria (l'esecuzione di quasi un milione di "comunisti", termine con cui di fatto venivano indicati genericamente gli oppositori al regime di Suharto) ma anche il fatto che i responsabili, così come gli esecutori, di tale pagina non solo non abbiano mai pagato per i loro crimini ma ancora oggi sono considerati delle persone stimate. Oppenheimer e i suoi compagni di avventura scelgono come figura simbolo di questa tragica storia Anwar Congo, criminale di basso profilo che ai tempi del colpo di stato del "30 settembre" cominciò una resistibilissima scalata sociale, divenendo uno dei più micidiali assassini per conto della dittatura. Si dice che abbia ucciso più di mille persone (lo strangolamento con un fil di ferro era il suo metodo prediletto) e al giorno d'oggi è riverito per essere stato fra i fondatori dell'influente organizzazione paramilitare destrorsa Pemuda Pancasilla. "The Act of Killing" non è però un documentario di repertorio e non si limita a mostrare scene di quei drammatici momenti ma opta per una soluzione insolita: cercano Anwar e altri suoi compagni di crimini, illustrano la loro quotidianità odierna ma li coinvolgono anche in un'inedita operazione. Dovranno infatti rappresentare di fronte alle telecamere i crimini che hanno commesso, interpretando stavolta anche le vittime e non solo i carnefici. Una mise en abime dove si pescherà a piene mani nell'immaginario popolar cinefilo con cui i criminali sono cresciuti (non a caso il bagarinaggio di biglietti cinematografici era stata una delle loro prime attività illegali). Quindi un "atto di uccidere" che terrà conto degli stilemi del cinema gangster, dei western, del fantasy, naturalmente dell'horror e pure del musical. Congo, che oggi appare come un bonario signore anziano vagamente rassomigliante a Nelson Mandela, si lancia con entusiasmo in questa rivisitazione di un passato per lui e i suoi compagni apparentemente neanche troppo scomodo. Lui e i suoi "amici" vengono mostrati coi familiari, mentre mostrano le proprie abitazioni di fronte alle telecamere, oppure seguiti nei loro impegni politici o nello svolgimento delle loro attività criminali (eh, sì, perché certe abitudini evidentemente sono dure a passare); e poi ci sono le esperienze sul set, dove, insieme ai suoi complici (grande spazio ha la figura dell'esuberante Herman Koto ma appaiono anche l'editore Ibrahim Sinik e il ministro Sakhyan Asmara), si sottopone a lunghe sedute di trucco, spiega come una scena debba sembrare più realistica, sperimenta i look più inattesi (Koto in molte situazioni si presenta in abiti femminili) e dà pure consigli alle comparse.

Qualcuno potrebbe vedere nella trovata di Oppenheimer una provocazione in stile Michael Moore ma "The Act of Killing", nonostante le immagini forti, è molto più asciutto. Gli autori-intervistatori restano in disparte lasciando i "protagonisti", criminali mai pentiti (e mai puniti) liberi di esprimere le loro opinioni sui loro delitti passati, adducendo ragioni ben poco plausibili (da notare anche il discutibile significato di "uomo libero" attribuito alla parola gangster). Eppure durante le lunghe sequenze in cui le varie uccisioni vengono riprodotte ci sono anche momenti rivelatori in cui Congo mostra vero disagio nel trovarsi "dall'altra parte", come se non ci avesse mai riflettuto più di tanto (col regista che pazientemente, comunque, gli ricorda che le vere vittime non stavano recitando e quindi non venivano aiutate dallo stop del regista).

Il risultato è un film che mette sicuramente a dura prova lo spettatore, decisamente innovativo nella sua ricerca di nuovi percorsi per raccontare ciò che molto spesso si presenta come irraccontabile.


21/10/2013

Cast e credits

regia:
Joshua Oppenheimer


titolo originale:
The Act of Killing


distribuzione:
I Wonder Pictures


durata:
122'


produzione:
Final Cut for Real


fotografia:
Carlos Arango de Montis, Lars Skree


montaggio:
Niels Pagh Andersen, Janus Billeskov Jansen, Mariko Montpetit, Charlotte Munch Bengtsen, Ariadna Fatjó-Vilas Mestre


musiche:
Elin Øyen Vister


Trama
I responsabili dei massacri indonesiani a metà anni sessanta sono invitati a reinterpretare i lcrimini commessi ispirandosi ai loro generi cinematografici preferiti, dal gangster movie al musical
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