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recensione di Stefano Santoli
"Non mi basta aprire una porta e mostrare al paziente
la sua malattia accucciata come un rospo.
Io voglio trovare un modo per aiutare il paziente
a reinventare se stesso, farlo partire per un viaggio
alla fine del quale lo aspetta la persona che era destinato a essere
".
C.G. Jung in "A dangerous method" di D. Cronenberg.

 

Stile e rivoluzione
Tsukamoto è un creatore di forme. Il suo stile, che nasce amatoriale con i primi cortometraggi, si è affinato senza mai rinnegare gli stilemi di base che lo costituiscono: shaky camera, fremito a volte spasmodico dell'inquadratura, montaggio serratissimo, uso di bianconero o filtri cromatici, colonna sonora industrial. Solo il ricorso - anche per motivi di budget - allo stop motion è stato più spesso accantonato. Lo stile di "Tokyo Fist" porta a maturazione quello che aveva imposto "Tetsuo" all'attenzione mondiale come un capolavoro "cyberpunk". Tsukamoto (e "Tetsuo" in primis) è stato esaltato come un'icona "cyberpunk" per la messa in scena, per i contenuti (a partire dalla contaminazione fra organico e inorganico), e per la stretta correlazione fra i due. Lo stile era immediatamente rivoluzionario: in senso anche politico, secondo modalità punk, cioè per la critica all'omologazione della società dei consumi e per la carica eversiva che implica già solo in termini estetici.
A tre decenni dagli esordi, è arrivato il momento di contribuire a svincolare Tsukamoto dal peso ingombrante del suo folgorante lungometraggio d'esordio. "Tetsuo" non sta a Tsukamoto come "Quarto potere" sta a Welles. Come Godard non si è fermato a "Fino all'ultimo respiro", così Tsukamoto non sta già tutto in "Tetsuo". E forse è giunta l'ora di relativizzare lo stesso concetto di "cyberpunk", che come tutte le etichette serve a imbrigliare un fenomeno che è più ampio e risalente (1).
Più che l'appartenenza e la riconducibilità di Tsukamoto a qualche etichetta, preme oggi sottolineare l'irriducibilità dell'intera filmografia di Tsukamoto a un filone, la sua unicità nel panorama cinematografico. Ed è, prima di tutto, una questione di stile. I suoi film ci negano un'empatia facile, ci portano direttamente al centro del ring subissandoci di pugni ipercinetici: sono pugni (fist) allo spettatore, come sostenuto efficacemente da E. Ghezzi, che tanto ha contribuito alla conoscenza del regista in Italia. E' uno stile - vicino a quello delle avanguardie storiche (2), e lontano da qualsivoglia estetica mtv, di cui è anzi l'opposto - con cui insomma il regista ci violenta: in più, ci priva di ogni appiglio narrativo classico, per mezzo del quale poterci, in modo rassicurante, immedesimare. Provocando anzitutto una de-identificazione, Tsukamoto ci scuote e ci mette in gioco. Se stiamo a questo gioco, saremo spinti a riconsiderare molte categorie su cui ci eravamo adagiati. Ciò implica quindi, anche negli spettatori, una mutazione.

La metropoli e il sarariman
Grazie ai filtri cromatici, la fotografia di "Tokyo Fist" (di cui è responsabile, come in tutti i suoi film, Tsukamoto stesso) assume particolare rilievo simbolico. Le scene e gli ambienti attorno ai quali si rapprendono forze negative sono virati in blu; viceversa, scene e ambienti in cui pulsano energie positive si colorano delle gradazioni dell'arancio, del giallo e del rosso. La metropoli, Tokyo, è virata in blu, in modo da esaltare la freddezza respingente della geometria degli edifici, che intrappolano gli abitanti come gabbie. Lo stesso appartamento in cui vive il protagonista, Tsuda, è blu, e straborda come la metropoli di linee verticali e orizzontali, quasi a intrappolarlo con la sua compagna Hizuru in una relazione stanca, monotona e ripetitiva. La comparsa di Kojima - il pugile, vecchio amico d'infanzia di Tsuda - è accompagnata dall'emergere dei toni dell'arancio. Le tonalità calde alludono alla fisicità come anche al colore del metallo che si liquefa (già era così nel precedente "Tetsuo II - Body Hammer", 1992), quasi che la fisicità dei corpi e la violenza potessero essere in grado di imporsi su quella gabbia di metallo che è la metropoli, liquefacendola con il proprio calore (3).
Un'inquadratura significativa, verso l'inizio del film, ci mostra un braccio con la mano chiusa a pugno levata contro i grattacieli. Tsukamoto ha affermato di aver voluto trasmettere la sensazione che la città fosse di vetro, e dunque facilmente frangibile: che il corpo, grazie alla propria malleabilità, potesse essere capace di "mandare in frantumi la città di vetro" (4).

Tsuda è rappresentato come il tipico colletto bianco, il sarariman giapponese - termine derivato dall'inglese "salaried-man", coniato durante l'epoca Taisho (1912-1926) a designare il ceto medio impiegatizio (5). Tsukamoto assume su di sé, interpretandolo, il sarariman protagonista, un agente assicurativo. E' sovrastato da edifici giganteschi, squadrati. Gli ambienti urbani sono come grandi alveari. Fra gli spazi angusti e opprimenti in cui è intrappolata la sua esistenza, vi è anzitutto l'ufficio, un open-space suddiviso in cubicoli.
L'oppressione esercitata dall'ipertrofico sviluppo urbanistico del Giappone (tema ricorrente nella cinematografia giapponese: basti pensare a quanto è importante, con riferimento alla preservazione della dimensione agreste, nelle opere dei due maestri dello studio Ghibli, Miyazaki e Takahata) è contesto e materia del cinema di Tsukamoto, consapevolmente a partire da "Tokyo Fist". Per sua ammissione, il regista - colpito dalle impressioni suscitate nel pubblico dalla visione di "Tetsuo II - Body Hammer" - si era concentrato sul rapporto alienante tra individuo e città, accorgendosi così di aver isolato un elemento centrale della propria poetica.

Dalla rimozione della morte alla cognizione del dolore
A proposito del pugilato, Tsukamoto ha affermato che la boxe si oppone radicalmente alla realtà giapponese attuale e al tipo di vita condotta in Giappone (6). La violenza è possibile preludio della morte, che nel mondo odierno è un tabù. Specie la fisicità della morte. E infatti Tsuda, all'inzio del film, è disgustato alla vista del cadavere di un gatto roso da vermi, in un vicolo che, poche ore dopo, troverà ripulito. In ospedale, al capezzale del padre, tutto è lindo e asettico; quando il padre morirà, non avremo il tempo di vedere il suo corpo, che è già stato rimosso - il letto già rifatto. Un'infermiera si premura: "non si preoccupi: suo padre non ha sofferto". Rimozione della morte come della sofferenza. Una rimozione cui, a furia di sottrarre al corpo ciò che è del corpo, corrisponde per Tsukamoto una rimozione della vita. Abbiamo ripulsa della sofferenza e della morte, e a ciò corrisponde un avvizzimento della sensibilità del corpo (7). Occorre  l'esperienza della morte per sentirsi vivi. Il tema sarà splendidamente approfondito in "Vital" (2004). Dunque per apprezzare la vita, per tornare a vivere, in una società anestetizzata al dolore, serve proprio la cognizione del dolore - di quel dolore che fa percepire la caducità del corpo. Ecco perché la rappresentazione del dolore in Tsukamoto è così estrema, eccessiva. Siamo visivamente talmente assuefatti alla violenza, che non è rimasta che la strada dell'iperbole: innestata sullo stile tipico del regista, produce effetti disturbanti una rappresentazione della sofferenza tutt'altro che convenzionale. 
Mutatis mutandis, non è lontano il memorabile protagonista di "Vivere" (1952) di Akira Kurosawa: anch'egli un sarariman dall'esistenza ripetitiva e asciugata di ogni vitalità, il quale di fronte alla condanna del cancro torna a riscoprire il valore della vita.

La liberazione della donna 
Kojima, per quanto agli occhi di Tsuda appaia forte, è pugile mediocre, che in passato è addirittura fuggito per paura, prima di un incontro. Grazie a Hizuru, Kojima trova il coraggio di affrontare un pugile più forte di lui e riesce persino a sconfiggerlo, in un incontro da cui uscirà tumefatto e sfigurato (mentre all'inizio del film Hizuru aveva notato come la professione non avesse lasciato alcun segno sul volto di Kojima). Il personaggio forte non è Kojima. E' Hizuru. Segno del suo percorso interiore è la sua passione che nasce spontanea per piercing e tatuaggi. La donna si libera della dimensione stereotipata cui era costretta, di donna di casa e professionista rispettabile. Hizuru "sviluppa una propria personalità, trasformandosi progressivamente in individuo consapevole e in contatto con il suo vero essere. Libera, in quanto non più dominata dalle regole imposte su di lei dal suo ambiente" (8). Secondo Tsukamoto, oggi la donna è "notevolmente superiore all'uomo: le donne sono così fredde e al contempo passionali, astute e affascinanti, e con una capacità di adattamento che l'uomo non ha". Con "Tokyo Fist", da strumento funzionale alla liberazione del protagonista maschile, qual era in "Tetsuo", la donna diviene autentica protagonista. Inizia così un processo i cui futuri approdi potremo osservare in "A snake of june" (2002).

Tsukamoto, "doppio positivo" di Cronenberg
Per il personaggio di Kojima il regista ha scelto Koji Tsukamoto, suo fratello pugile. Kojima interviene nella vita dei protagonisti sconvolgendola: è il ruolo del demiurgo che si ripete sistematicamente nel cinema di Tsukamoto. Da "Tetsuo" a "Kotoko" (2011) passando per "A snake of june", in quasi ogni film vi è un personaggio che provoca i protagonisti portandoli a compiere una mutazione/evoluzione, inducendoli a riscoprire facoltà sepolte, accedere a una dimensione dove esprimere in modo più autentico e più potente la propria individualità. Tale ruolo demiurgico Tsukamoto lo riserva solitamente alla propria interpretazione. In "Tokyo Fist", invece, ha scelto il fratello: scelta particolarmente felice, in cui si nascondono allusioni al tema del doppio, centrale nella poetica del regista, affrontato in maniera esplicita in "Gemini" (1999).
Il tema del doppio è centrale anche in David Cronenberg (il quale pure ha dedicato un film ai gemelli: si tratta naturalmente di "Inseparabili", 1988). E Tsukamoto stesso è considerato una sorta di doppio del collega canadese (verso il quale non ha mai negato debiti e ascendenze). Tuttavia, riteniamo che le differenze fra le poetiche dei due cineasti siano state esplorate meno delle loro somiglianze. E' del tutto evidente quanto il cinema di Tsukamoto sia stato ossessionato, sin dalle origini come quello di Cronenberg, dalle mutazioni della carne e dalla contaminazione fra organico e inorganico. Ma ci preme sottolineare piuttosto gli scostamenti. Cronenberg è da sempre pervicacemente nichilista: nei suoi film, i protagonisti tendono all'autodistruzione; il confronto con l'altro da sé (o con il proprio doppio, interiore o esteriore che sia) conduce all'annichilimento. Ciò con poche eccezioni, fra le quali rilevano "Scanners" (dove avviene una fusione simile a quella di "Tetsuo"), "A history of violence", e per complessità tematica soprattutto "A dangerous method". Per Cronenberg, non c'è in genere mai una sintesi che dal confronto fra una tesi e la sua antitesi faccia scaturire un equilibrio: al contrario, il desiderio di fondersi con l'alterità in cui ci si specchia rende impossibile la stessa sopravvivenza. Trasposizione fedele del rapporto fra eros e thanatos descritto da Freud, il raggiungimento del massimo piacere in Cronenberg viene continuamente frustrato, in una tensione che, per pacificarsi, si abbandona alla pulsione di morte. I film di Tsukamoto sono impostati invece secondo un classico schema di tesi-antitesi-sintesi: e in questo, il cineasta giapponese è molto più "ottimista" di Cronenberg (9). Anche per questo i suoi film trasmettono un'ebbrezza, un senso di esaltazione del tutto particolari, soprattutto considerando la forma destabilizzante della messa in scena.


Fra i primi due "Tetsuo" già c'è uno scarto, riguardo al tema della contaminazione fra carne e metallo. Nel primo "Tetsuo" è mera oppressione, in "Tetsuo II - Body Hammer" è strumento quasi di onnipotenza. In "Tokyo Fist" diventa veicolo di riscoperta del corpo attraverso il dolore. Fra individuo e città, carne e metallo, non c'è ibridazione, ma scontro irriducibile: l'organico non si arrende alla pressione soverchiante della metropoli. Il metallo contamina sì ancora la carne (i piercing di Hizuru), ma è una contaminazione funzionale al recupero della fisicità, alla riappropriazione del corpo, e dunque alla redenzione della carne.
Tsuda, Hizuru e Kojima accedono tutti a un'identità più autentica. E' come se addentrarsi nel corpo attraverso il dolore offrisse a ciascuno l'opportunità di riscoprire la natura più intima e nascosta del proprio io. Si tratta, in fondo, di un tipico, per quanto paradossale, processo junghiano di individuazione.
Come la relazione di coppia è un veicolo per sconfiggere la solitudine, così l'amore è costitutivo per l'acquisizione di un'identità più autentica e ricca: un discorso appena sfiorato in "Tokyo fist", che troverà pieno sviluppo in quel dittico della maturità costituito da "A snake of june" e "Vital" (10). In quest'ultimo, sin dal titolo, è esplicita quale sia la direzione del percorso. Un percorso tutt'altro che facile, che presuppone una lotta di liberazione dall'esito spesso precario (si veda "Kotoko"...): ma sempre, decisamente, un percorso costruttivo. Verso la vita, non verso la morte come (nella maggior parte dei film) in Cronenberg.



(1)
Così A. Chimento e P. Parachini, "Shinya Tsukamoto. Dal cyberpunk al mistero dell'anima", Alessandria, 2009, p. 16. Gli autori definiscono il cyberpunk come la branca "più particolare e riconoscibile del genere fantascientifico. Nel cyberpunk uomo e macchina si fondono, sono in dubbio, mutano uno dentro l'altro; la fisicità artificiale si mescola alla fisicità carnale, una diventa parte dell'altra. Frankenstein (1818) di Mary Shelley è cyberpunk" (ivi, p. 17).
(2) Vedi in tal senso R. Terrosi, "L'ultima avanguardia e il cinema di Tsukamoto Shin'ya", in M. Boscarol (cur.), "Tetsuo: the Iron Man. La filosofia di Tsukamoto Shin'ya", Milano, 2013, p. 101. Terrosi considera il cyberpunk "l'ultima avanguardia del novecento, ovvero del secolo delle avanguardie".
(3) Vedi L. Leone, "Shinya Tsukamoto: lo spazio liquido", in: A. Fontana, D. Tarò, F. Zanello (cur.), "Il cinema di Shinya Tsukamoto", Piombino, 2010, p. 45. 
(4) "Conversazione con Shinya Tsukamoto" a cura di M.R. Novielli, in: "Panoramiche-Panoramiques", n. 19, 1997-1998, p. 9.
(5) Per un'interessante sintesi della figura del salariman v. D. Tomasi, "Storia di un impiegato", in: A. Fontana, D. Tarò, F. Zanello (cur.), cit., p. 80. Il salariman è stato la spina dorsale della crescita economica del Giappone nel periodo che va dalla ricostruzione postbellica agli anni ottanta, prima della crisi economica esplosa nel decennio successivo. La dedizione all'impresa per cui lavora è stata comparata a quella del samurai verso il suo signore: Tomasi fa presente che il termine per "ditta" in giapponese è "kaisha", i cui due ideogrammi, invertiti, formano la parola "shakai", ovvero società. E ancora, riferisce che nel presentarsi un impiegato giapponese di solito riferisce come prima cosa per quale ditta lavori. Con "Tokyo Fist", e ancor prima con il secondo "Tetsuo", Tsukamoto fra l'altro intercetta sul nascere le frustrazioni del ceto medio, deflagrate con l'insorgere della crisi economica degli anni '90 (la disoccupazione cui la crisi ha portato, è stata in seguito rappresentata al cinema in opere come ad esempio "Shangri-la" di Takashi Miike, 2002, o "Tokyo Sonata" di Kurosawa Kiyhoshi, 2008).
(6) Intervista a cura di G.A. Nazzaro, in "Rumore", 1996 (dal booklet del dvd Rarovideo del film).
(7) Vedi a riguardo T. Ghirlanda, "Tokyo Fist", recensione per Filmscoop.it.
(8) L.E. Sangalli, "Eros e thanatos: il femminino nel cinema di Tsukamoto", in M. Boscarol (cur.), cit., p. 84-85.
(9) "I protagonisti dei film di Tsukamoto accolgono l'alter, non ne sono dominati: l'interesse del cineasta, come affermerà a proposito di ‘Gemini', è ‘descrivere fisicamente l'idea di due forze contrarie che coabitano in uno stesso corpo', considerate come un'unica totalità organizzata e indissociabile nel suo insieme" (E. Liotta, "Il cinema di Shinya Tsukamoto: ipotesi sul corpo espanso", in: A. Fontana, D. Tarò, F. Zanello, cit., p. 27). "A differenza di ‘Videodrome' o de ‘La mosca', Tsukamoto fa impazzire [i propri protagonisti], facendoli esplodere, li fa ‘saltare allo scoperto', obbligando loro a rigettare tutto quello che prima li schiacciava" (A. Chimento, P. Parachini, cit., pp. 21-22).
(10) Vedi A. Fontana, "Sulla disgregazione relazionale", in: A. Fontana, D. Tarò, F. Zanello, cit., p. 57, e l'ultimo capitolo ("Rinascita, esteriorità e interiorità, ambiente e anima") del volume di A. Chimento e P. Parachini, cit., anche per gli spunti sulla spiritualità giapponese, in particolare sullo shinto, con riguardo al concetto di rinascita in riferimento a "A snake of june" e "Vital".


31/08/2015

Cast e credits

cast:
Shinya Tsukamoto, Kôji Tsukamoto, Kahori Fujii


regia:
Shinya Tsukamoto


titolo originale:
Tokyo-Ken


distribuzione:
Rarovideo


durata:
87'


produzione:
Shinya Tsukamoto, Kiyo Joo


sceneggiatura:
Shinya Tsukamoto


fotografia:
Shinya Tsukamoto


scenografie:
Shinya Tsukamoto


montaggio:
Shinya Tsukamoto


musiche:
Chu Ishikawa


Trama
Tsuda è un agente assicurativo di Tokyo, Hizuru è la sua donna. Tsuda incontra un vecchio compagno di scuola, Kojima, ora pugile, che di lì a breve tenta di sedurre Hizuru. Hizuru comincia ad essere attratta dalla violenza, e inizia a praticarsi piercing e tatuaggi. Il rapporto con Tsuda si incrina e Hizuru va a vivere con Kojima. Tsuda comincia un apprendistato da pugile, con lo scopo di affrontare Kojima.