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recensione di Giuseppe Vuolo
9.0/10

Il vinyan è uno spirito errante, un'anima sofferente che ha bisogno di luce, di una guida capace di donargli una dimora. Ed è proprio con questa figura indistinta, rappresentata dal figlio scomparso Joshua, che Jeanne e Paul devono confrontarsi. Joshua è una costante presenza assente, la quale domina le vite e il rapporto coniugale dei genitori. E il suo nome è un nome biblico di fondamentale importanza, in quanto oltre a rimandare a quello di Gesù - figlio per eccellenza - è anche sinonimo del dio ebraico "primordiale" Yahweh. In tal modo possiamo evidenziare due aspetti interessanti del film: 1) il dio biblico è spesso espressione di luce e il vinyan (come detto) necessita di luce per trovare pace; 2) il dio biblico, artefice della genesi del mondo, bene si accorda all'epilogo della vicenda, intriso di un potente senso di creazione e rinascita.

Joshua è un'immagine che rappresenta al tempo stesso illusione e speranza; un paesaggio naturale che confonde la percezione della realtà e che asseconda la fragilità dell'essere; un torbido viaggio che disperde il passeggero in mezzo a due sponde irraggiungibili: un luogo di partenza identificato come casa e non più recuperabile e una destinazione fantasma. Una disperata ricerca che acutizza stato di smarrimento e senso di colpa.

La spiaggia sulla quale Jeanne viene a conoscenza del rituale riguardante i vinyan segna una linea di demarcazione tra un regno di mercificazione del corpo (sia esso quello di una donna o di un bambino) e una dimensione altra che, per quanto possa essere (e lo è) naturale e reale, s'inoltra direttamente in un mondo di spettri. Un mondo dove non c'è spazio per i corpi estranei e per la fisicità in genere: sulla spiaggia i bambini prendono a pietrate il cadavere del primo faccendiere[1] cui si rivolgono Jeanne e Paul e più avanti assistiamo alla cruda e raccapricciante scena del riso[2].

Ed è per tale motivo che questo mondo riesce ad accettare e assimilare soltanto Jeanne, poiché la donna compie un progressivo percorso di ascesi, privandosi di ogni cosa: a partire dal volto del figlio fino al marito. E si tratta di un distacco che le permette di raggiungere il cuore di un luogo selvaggio e inaccessibile (la giungla) dove regna una ferocia primigenia che non vuole essere sfruttata. Un luogo che reclama vita e la vita in "Vinyan" è donata dall'acqua e dal sangue di un corpo femminile[3]. Jeanne trova una luce abbacinante - quasi fosse ella stessa un vinyan - ma (allo stesso tempo) rappresenta anche la luce della piccola popolazione indigena. 

Paul vive la ricerca di Joshua in maniera decisamente conflittuale rispetto a Jeanne (la quale, seppure in maniera del tutto illogica, è determinata ad andare avanti) e durante il suo percorso sembra che in lui prevalga una sorta di tormento interiore che non è in grado di esprimere, una colpa da redimere e un dolore da placare che lo logorano lentamente, così come è lento, inesorabile e inquietante, l'avanzare fluido delle imbarcazioni che lo accompagnano attraverso i luoghi da esplorare. Paul vuole ritrovare la propria dimora, ricostruire il nucleo familiare con Jeanne (anche se privo di un figlio): la scena in cui incendia una palafitta, esortando Joshua ad andare a casa, è il suo grido di rabbia perché possa liberarsi dell'opprimente ricordo del figlio, poiché è egli stesso - invece - che vuole tornare a casa. Ma Paul non è in grado di illuminare il cammino di Joshua e il ragazzino si trasforma quasi in una nemesi dal volto deforme e terrificante pronta ad aggredire.

La regia di Fabrice Du Welz si conferma forte ed efficace. Tanta camera a mano e tanta attenzione per i corpi e i volti (quasi sempre centrati nel quadro) dei suoi protagonisti, fino a farli divenire un tutt'uno con il paesaggio che li circonda, affinché sia questo il modo migliore di seguire la narrazione - meglio ancora il modo stesso di narrare. E la fotografia di Benoit Debie è assolutamente perfetta in tal senso, capace di catturare oniriche atmosfere notturne, in maniera del tutto naturale, e di trasformare i paesaggi in ambienti spettrali vivi che avvolgono in una misteriosa nebbia e che sprofondano in un fango angosciante e mortifero. Così come è da evidenziare l'essenziale commento sonoro elettronico di Francois Eudes Chanfrault[4] che accompagna soprattutto la tensione distorta e l'ineluttabile incedere doloroso della coppia.

In "Calvaire" Du Welz ci offre uno sguardo demiurgico, calato dall'alto, in un momento topico del racconto, con un lucido piano sequenza che mostra la degenerata resa dei conti tra Bartel e Boris e gli uomini del villaggio, permettendo la fuga di Marc. E in "Vinyan" ritroviamo un'operazione analoga che mostra una dimora distrutta nel mezzo della giungla, con l'avvolgente occhio che segue Jeanne a Paul fino all'interno, e fino a quando i due proseguono in direzioni diverse, separandosi, per andare incontro al proprio destino: per Paul l'agognata casa non esiste più (e sarà sopraffatto da quegli stessi spettri che cercava di allontanare), mentre per Jeanne è tempo di abbandonarsi a una nuova realtà.


[1] La scena in questione preannuncia l'orribile fine di Thaksin Gao (lapidato e inghiottito dalla terra di quel mondo) e di Paul (il cui corpo sarà smembrato - e non a caso Kim lo identifica come "carne fresca" durante il loro primo incontro).

[2] Uno dei segmenti più inquietanti del film, in cui Jeanne e Paul sono in cerca d'aiuto e di cibo, ma sembra che nella dimensione in cui si trovano adesso non sia necessario nutrirsi.

[3] La sequenza iniziale dei titoli di testa è impressionante in tal senso, poiché narra di genesi e tragedia allo stesso tempo: l'acqua che diventa sangue lascia emergere sia l'immagine [divina] della donna in grado di procreare sia quella della tragedia (lo Tsunami e il dramma stesso del film).

[4] Musicista già all'opera sulle colonne sonore di "Alta tensione" di Alexandre Aja e di "À L'Intérieur" di Bustillo e Maury


24/06/2012

Cast e credits

cast:
Emmanuelle Beart, Rufus Sewell, Julie Dreyfus, Borhan Du Welz, Petch Osathanugrah


regia:
Fabrice Du Welz


durata:
95'


sceneggiatura:
Fabrice Du Welz, David Greig, Oliver Blackburn


fotografia:
Benoît Debie


montaggio:
Colin Monie


musiche:
François Eudes


Trama
A distanza di sei mesi dalla catastrofe dello tsunami, Jeanne e Paul Belhmer sono ancora in Thailandia, incapaci di accettare la scomparsa del loro unico figlio, Joshua. Durante una serata di beneficienza, Jeanne si convince di aver visto il bambino in un dvd che mostra le condizioni degli orfani nella giungla birmana e persuade il marito, inizialmente più scettico e prudente, a non lasciar cadere l'ultima possibilità di ritrovare Josh, per quanto remota essa appaia. Dopo aver pagato lautamente il sinistro Thaksin Gao, i coniugi Belhmer seguono lui e il suo uomo di fatica Sonchai sulla barca che li porterà nel “cuore di tenebra” dei villaggi-fantasma, armati di una solidarietà ormai agli sgoccioli e aggrappati ad una speranza che scivola pericolosamente nella fissazione.