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Cantore della cultura popolare pugliese, Winspeare ne affronta i drammi atavici al suono indiavolato della pizzica

Il Salento è un "finisterre". Dove finisce l'Italia e inizia il mondo. Di fronte a noi c'è il mare, si sente il confine (l'Albania, la Grecia). È un palcoscenico, un microcosmo, una metafora del mondo. La mia terra è un valore aggiunto, il centro del mio mondo. Come diceva Tolstoj: il tuo villaggio è il centro del mondo, racconta il tuo villaggio e racconterai del mondo. E. Winspeare

Personaggio singolare, il regista Edoardo Winspeare. Nasce in Austria (a Klagenfurt, il 14 settembre 1965) da un'antica famiglia nobile cattolica (la madre porta il nome altisonante di Elisabetta del Liechtenstein), originaria dello Yorkshire. Studia Lettere a Firenze, fotografia a New York, montaggio e tecnica della ripresa e del suono a Monaco di Baviera, dove però si diploma in regia; infine, gira il mondo lavorando come fotografo. Tuttavia, si sente autenticamente salentino (il suo paese ha un nome inquietante: Depressa) e, a dispetto della discendenza aristocratica, i suoi interessi sono rivolti alla cultura popolare della propria terra. Di cui però ha una visione tutt'altro che elegiaca: nei suoi film incontriamo un'umanità carnalmente ancorata alle proprie tradizioni (che faticano tuttavia a sopravvivere alle minacce della modernità) e intrinsecamente violenta; personaggi sempre, in qualche modo, emarginati, conflittuali, che celano talvolta un passato doloroso. L'istituzione della famiglia, pilastro della società dell'Italia meridionale, non ne esce affatto bene. Il tutto è accompagnato, sottolineato o contrappuntato dal ritmo incessante della pizzica.

A partire dalla fine degli anni Ottanta, Winspeare gira una serie di documentari e cortometraggi, oggi invisibili, come San Paolo e la tarantola e Piccola storia di un W.C.
Ma l'esordio nel lungometraggio e la notorietà, per il momento maggiore all'estero che in Italia, arrivano nel 1995 con Pizzicata. La storia, ispirata al cineasta dalla visione di una fotografia d'autore, che ritraeva il volto addolorato di una donna pugliese in uscita dalla messa, è semplice e lineare, poiché grande rilevanza viene attribuita, oltre che ai personaggi, allo splendore delle immagini (la fotografia, sempre firmata da Paolo Carnera, è un punto di forza dell'intera cinematografia dell'autore) e al fascino delle musiche (composte e suonate dal gruppo Officina ZOE', di cui Winspeare è co-fondatore).
In breve: durante la Seconda guerra mondiale un soldato americano, ma di origine italiana, precipita con il proprio aereo nel Salento: viene ospitato da una famiglia locale, che lo presenta ai compaesani come un parente di Lecce. Molti uomini sono al fronte e l'americano è percepito come una minaccia per le donne del paese, un punto di rottura dei tradizionali equilibri.
Unico film del regista, finora, ad essere ambientato in un passato remoto, Pizzicata è un debutto notevolissimo, un'autentica perla nel panorama cinematografico italiano degli anni Novanta. Giocando a ricostruirne le possibili influenze, parrebbe evidente la lezione di Olmi, ma il gusto espressionista di certi piani ravvicinati rimanderebbe ai grandi documentaristi classici, se non addirittura al cinema realista sovietico.
Forse anche perché recitato in dialetto senza sottotitoli, il film non ottiene in Italia il successo che avrebbe meritato, mentre viene presentato in molteplici festival, tra cui Berlino, Cannes e San Sebastian, facendo incetta di riconoscimenti. In Germania, il Ministero della Cultura lo proclama opera wertvoll, ovvero "preziosa".

A partire dal successivo Sangue vivo (2000), film "di interesse culturale nazionale", Winspeare decide di curare maggiormente la scrittura. Ne esce un'opera più articolata, che ha per protagonisti un gruppo di giovani proletari (tutti tranne uno, cui il regista riserva un velenoso sfogo contro le saghe paesane), che si barcamenano al limite della legalità. Il problema del lavoro nel meridione è ovviamente centrale, ma la fede nella musica, qui anche come mezzo di riscatto sociale, rimane intatta. Anche perché il vero protagonista è un personaggio di mezza età, interpretato da quel Pino Zimba che già compariva in Pizzicata e che è un affermato suonatore di pizziche anche nella vita reale. Malgrado l'attenzione al racconto, pure quest'opera, comunque, risalta soprattutto dal punto di vista visivo, grazie ai suoi colori vivi, profondamente mediterranei; ha inoltre il merito di riuscire a dare un'impressione di autenticità, grazie anche alla scelta di riproporre il dialetto, questa volta sottotitolato. Opzione che aiuta a compensare uno dei punti deboli del regista (che tuttavia non impedisce a Sangue vivo di risultare decisamente riuscito): oltre a qualche ingenuità nella caratterizzazione psicologica dei personaggi (chi sconta la propria latente omosessualità, chi convive con il senso di colpa per la morte del padre), il riferimento è a una direzione degli attori non impeccabile.

È proprio questo difetto a deflagrare nel lungometraggio successivo, Il miracolo (2003), apologo laico su un bambino che, dopo essere stato investito, sembra guarire un malato in fin di vita (il solito Zimba). Anch'esso parecchio scritto, ambientato per la prima volta in una città e al di fuori del Salento - siamo a Taranto, "città del mare e dell'acciaio" - e recitato in italiano, con il dialetto relegato a colorire alcune espressioni locali tipiche, è un film (a dire il vero stilisticamente al limite della fiction televisiva) che non convince del tutto. Da un lato perché non riesce a liberare il talento del regista (nonostante le buone premesse: gli eleganti movimenti di macchina della prima scena); dall'altro per uno script i cui punti deboli sono rimarcati da una recitazione sostanzialmente inadeguata. Ma soprattutto per i troppi temi affrontati: sfruttamento commerciale della superstizione, differenze di classe tra i personaggi, malattie contratte lavorando all'Ilva. Alla fine, a funzionare è soprattutto il racconto di un'amicizia tra due incompresi: il piccolo Tonio e Cinzia, la ragazza che lo ha investito.

La scomparsa di Pino Zimba, nel febbraio 2008, sembra coincidere con la fine di un'epoca per quanto concerne la produzione di Winspeare, che accantonato il progetto di un film storico tratto da Vittorio Segre ("La guerra privata del tenente Guillet"), realizza nello stesso anno Galantuomini. Questa sua ultima fatica suggella infatti la definitiva svolta verso un cinema narrativo convenzionale, ma altamente professionale e complesso. Per la prima volta la scrittura è matura, gli attori eccellenti, il racconto assolutamente centrale, a scapito delle musiche e dei paesaggi (nonostante il film sia ancora profondamente, visceralmente ancorato al territorio salentino). Ambientato negli anni novanta, salvo l'incipit e qualche rara analessi che riportano all'epoca dell'infanzia dei protagonisti, Galantuomini affronta di petto il tema del diffondersi della Sacra Corona Unita, accompagnando il salto di qualità dei personaggi winspeariani: dalla saltuaria micorcriminalità all'affiliazione in una grossa associazione a delinquere che minaccia la verginità dell'unica zona franca, mai contaminata dal crimine, dell'intera Puglia. Presentato al festival di Roma, il film ottiene il Marco Aurelio d'argento per la migliore interprete femminile: la straordinaria Donatella Finocchiaro.
Per il regista, invece, questa volta nessun premio ma la consapevolezza di aver raggiunto, dal punto di vista artistico, l'età adulta. Con le perdite e le nuove sfide che ciò comporta.

È ancora il Salento il territorio d'elezione per il nuovo romanzo in immagini di Edoardo Winspeare; e il ripiegarsi nella dimensione locale è finanche più accentuato del solito. Si usa dire che il grande artista parli del proprio quartiere per parlare del mondo intero; il Nostro, che forse grande ancora non è (ma sottovalutato è di sicuro), parte dalla dimensione internazionale della crisi economica, per approdare alla valorizzazione delle tradizioni di quel finis terrae rappresentato dalla zona di Leuca, tra Giuliano di Lecce, Corsano e Tricase.
Diversi, dunque, i momenti di In grazia di Dio da ricordare; ma sono sopratutto i personaggi (tutti, senza eccezione interpretati da non professionisti ottimamente diretti, salvo qualche sporadico calo), è sopratutto l'umanità amorevolmente raccontata a restare impressa nella memoria dello spettatore come di rado accade al cinema.




Edoardo Winspeare