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Pioniere di un romanticismo cristallino, sperimentatore di tecniche innovative e fondamentali, Friedrich Wilhelm Plumpe, in arte Murnau, è l'antesignano di un cinema che unisce la febbrile pulsione umana al simbolismo esasperante della sciagura in atto

Friedrich Wilhelm Plumpe nasce a Bielefeld, Westfalia, il 28 dicembre 1888 in un'agiata famiglia borghese. Poco avvezzo alla disciplina, alle regole e all'attività fisica, talché lo si inquadra agevolmente come un carattere molto poco germanico, si interessa invece fin da ragazzino al teatro (abbiamo testimonianza di alcune rappresentazioni di celebri pièce teatrali quali "I masnadieri" e "Guglielmo Tell"), alla letteratura (Dostoevskij su tutti) e alla filosofia di Schopenhauer e Nietzsche.
In un primo momento s'iscrive a dei corsi di letteratura e storia dell'arte presso l'Università di Heidelberg che abbandona ben presto per aggregarsi alla compagnia del "Deutsches Theater" di Max Reinhardt. Di conseguenza a questa netta decisione, si consuma l'irreversibile strappo col padre di cui rinnega persino l'eredità legale del nome che cambia in Murnau.
Tale frattura lo grava di un senso di colpa e del conseguente desiderio di espiazione che lo accompagneranno per tutta la sua breve (e chiacchierata) vita, tanto che essi stessi diventarono tracce di poetica dei suoi film. È facile, infatti, intuire che il passaggio da Plumpe a Murnau sottende già nominalmente i temi del "doppio" che, sulla spinta della loro elaborazione teorica in Freud e sul largo uso e successo che ne ebbero nel cosiddetto "cinema di Weimar", trovarono anche nel Nostro un interprete di primissima qualità e originalità.

Presso Reinhardt, Murnau inizia a pestare il palcoscenico da attore ed è qui che conosce quelli che diventeranno a breve i migliori interpreti della cinematografia tedesca degli anni 20: Lubitsch, Leni, Jennings, Krauss... Allo stesso tempo continua a coltivare le sue passioni artistiche in un clima di forti stimoli non solo espressionisti puri o derivati (decadentismo e kitsch su tutti) ma anche di critica sociale, il rifiuto dei ritmi disumani imposti dal Capitale, della reificazione sistematica, esperita da una sempre più nevralgica e sicura di sé coscienza piccolo-borghese che nella sua aspirazione ossessiva al possesso delle cose, diventa cosa essa stessa. A ciò Murnau oppone uno sguardo sprezzante e aristocratico, allo stesso tempo dandy e flaneur, due caratterizzazioni molto ricorrenti nella galleria dei suoi personaggi.
La Prima Guerra Mondiale spezza quel micro-clima fertile e protettivo che Murnau aveva costruito attorno a sé e che si ricompone a Berlino nel 1919, primo anno post-bellico e data del suo esordio dietro la cinepresa.

I tempi di Weimar sono ormai vicini e Murnau vive e registra la disperazione di quella stessa classe medio-borghese che tanto aveva disprezzato e che adesso vive il suo momento più drammatico, strattonata a sinistra dalle predicazioni proletarie e spartachiste, ma irresistibilmente attratta dalla promessa di revanche che ostentano i primi gruppi estremisti dei Freikorps e che sarebbero ascesi col nazionalsocialismo. Murnau si tiene coerentemente fuori dall'engagement politico e continua dritto per la sua strada.

Una piccola premessa

murnauPrima d'iniziare la disamina delle sue opere, si rendono necessarie un paio di precisazioni.
L'opera di Murnau è una delle più indecifrabili in assoluto. Intanto, già solo dal punto di vista quantitativo, dei ventuno lungometraggi attribuiti, ben un terzo dell'opera è andata perduta.
Dei sette film mancanti, ben sei sono le sue prime regie sicché è praticamente impossibile ricostruire filologicamente la nascita stessa e una buona parte dello sviluppo della poetica murnauiana se non appoggiandosi a quel poco arrivato fino a noi: schede tecniche, sinossi, interviste, foto di scena, brevissime sequenze ritrovate. Così, un discorso su Murnau è ancora oggi un work in progress che guarda con speranza i ritrovamenti di una qualche copia, in una qualche soffitta, in una qualche parte del mondo.
La seconda precisazione ha carattere più sfumato e problematico e risponde alla domanda: cosa guardiamo quando guardiamo un film di Murnau? Non è l'apologia di un certo luddismo, anzi è lo stesso regista tedesco a fugare ogni dubbio sull'importanza della tecnica e dell'innovazione tecnologica: "Nessuna invenzione piena di valore sarà respinta"[1].
E allora i nuovi modi di fruizione cinematografica legati a YouTube, al file-sharing, alle "googlate" e alla messe infinita di analisi di cui sono piene le web-fosse, sono uno dei valori fondanti e positivi del nostro presente storico. Tuttavia l'opera di Murnau soffre in più punti tali possibilità. Ci riferiamo alle molte copie che circolano sommariamente sonorizzate, con partiture anche di molto successive all'opera in questione, oppure con un anonimo pestare di tasti sul pianoforte; ci riferiamo a quelle copie successivamente virate o imbibite che ci mostrano Nosferatu verdognolo come Godzilla o sguaiatamente ambrato; vogliamo stigmatizzare l'apposizione di didascalie "esplicative" a caso (per non dire peggio) che "chiariscono l'azione"; oppure alla scelta creativa di formati e mascherini con i quali sono proiettati su schermi deformati dal 16/9 quando non sui francobolli 2X2 degli smartphone[2]. 

Quelli di Murnau sono definitivamente film per la sala cinematografica.
Con il formato dello schermo 4/3, in b/n assoluto e accompagnati dalla partitura originale (qualora non la si possedesse, meglio proiettarlo muto). Ciò è necessario perché Murnau è responsabile (come solo Ejzenstejn, Vertov e Chaplin di quel periodo) di tutti i processi formali ognuno dei quali apporta il suo singolare grado di significazione. Aggiungiamo inoltre che Murnau nella sua breve vita ha regalato al cinema un segno che non ha prodotto né allievi né emuli, insomma uno stilema quasi pari alla Z di Zorro: la Stimmung che nella poesia ebbe i suoi maestri in Holderlin e Novalis e che si può definire come un processo di agnizione spettatoriale che per manifestarsi ha bisogno di complesse e rigorose condizioni formali e che corrispondono esattamente al primo problema che si posero i fratelli Lumière: come ottenere lo choc visivo attraverso una telecamera fissa e un treno che attraversa un lenzuolo bianco.

Primi passi


ragazzo.bluRicostruire la genesi del cinema di Murnau corrisponde a una traversata del deserto[3]. 
Dal 1919 al 1921 gira ben otto film dei quali è arrivato a noi, per intero, solo quel gioiellino di "Der Gang die Nacht" oltre una brevissima sequenza di "Satanas" e un rullo completo di "Marizza".
Il suo primo film in assoluto è del 1919, "Der Knabe in Blau" (Il ragazzo in blu) che è stato proiettato per certo anche con un altro titolo, "Der Todessmaragd" ("Lo smeraldo della morte"), prodotto e interpretato da Ernst Hofmann, in cui è questione di un vecchio castello su cui grava una maledizione che colpisce chiunque si trovi al suo interno; il 1920 è l'anno di "Sehnsucht" (Nostalgia) che potrebbe essere stato conosciuto anche col nome di "Bajazzo" e di cui è noto solo il soggetto, un pastiche sentimentale-tardo romantico corredato da tinte forti di drammaticità ed erotismo; allo stesso anno si fa risalire "Der Bucklige und die Tanzerin" (Il gobbo e la ballerina) il cui titolo ci fa inferire agevolmente la storia di un amore impossibile in cui qualcuno fungerà da vittima e qualcun altro(a) da carnefice.

Il tema del poliziesco, che in una formulazione molto originale comparirà con "Schloss Vogelod" (Il castello di Vogelod), si affaccia timidamente in "Abend... Nacht... Morgen" (Sera... Notte... Mattino). Di tutti i film fin qui citati, non disponiamo di ulteriori informazioni, escluso le schede tecniche, dettagliatissime sì ma vuote di significato.
Di "Satanas" (Satana, 1919) come accennato sopra, siamo in possesso di un frammento (che potete vedere qui) non solo brevissimo (appena 42") ma anche virato in ambra. Se non è intellettualmente onesto tentare una qualche analisi da una sequenza così breve, ancor peggio lo sarebbe su una colorazione non prevista dall'autore, concesso che l'ambratura in un certo qual modo valorizza l'illuminazione del dècor prevista da Murnau in cui la fotografia è appiattita da una focale lunga e lo sfondo quasi bidimensionale è totalmente oscurato per incorniciare e mettere in risalto l'azione in primo piano, una figura grottesca (probabilmente Satana) che prima accarezza e poi bacia con una certa lascivia una bella fanciulla opportunamente discinta e abbandonata su una stuoia; si tratta di un procedimento già codificato dai french film dell'epoca (gli antenati dei film erotici) in cui la sapienza del satanasso che s'incunea tra le curvature del collo e le spalle nude e si insinua sulla bocca e sul mento offrono un'immagine decisamente erotizzata.

Di "Marizza, Gennant die Schmugglermadonna" (Marizza, detta la signora dei contrabbandieri, 1920-1921) possediamo un footage di ben 13 minuti (che potete vedere qui) in cui sono presentati i protagonisti di una tragedia in cinque atti che non si discosta di molto dal tema della Carmen: una zingara avvenente, birichina e anaffettiva (interpretata dalla bellissima Tzwetta Ttzatschewa) gioca a far l'amore con contadini, guardie frontaliere e due fratelli, uno giovane e forte, l'altro rachitico e riflessivo.

In estrema sintesi, di questi film la critica è abbastanza unanime: li ritiene acerbi (se mai qualcuno li ha visti) e poggianti su soggetti poco originali e decadenti; si giudica la poetica di Murnau ancora immatura e li si considera con indulgenza solo perché attraverso questi il regista vi ha potuto svolgere l'apprendistato tecnico. Più ponderato è invece l'approccio verso un film anch'esso perduto, "Der Januskopf" (La testa di Giano, 1920) che già dalla fiche tecnica presenta motivi d'interesse. Innanzitutto il pre-testo, il romanzo di Robert Louis Stevenson ("Lo strano caso del dottor Jekill e Mr. Hyde"), sceneggiato dalla penna felicissima di Hans Janowitz, fotografato da Karl Freund e Carl Hoffmann e in cui l'attore protagonista (il bipolare Jekill nel film è il dottor Warren che si trasforma in Mr. O'Connor) è Conrad Veid. Una piccola curiosità: nel cast è accreditato anche il mitico Bela Lugosi.

Murnau si affianca per la prima volta a dei fuoriclasse al suo pari e le ricchissime implicazioni del soggetto ci fanno presagire l'avvenuta svolta della poetica murnauiana: a meno di un anno dal tournage di Nosferatu, irrompe il tema del "doppio" in una chiave ben più suggestiva di quella sorta di appendice che è Cesare rispetto a Caligari (cfr "Il gabinetto del dottor Caligari", R. Wiene, 1920) e che si concentra invece nell'Hyde che dormicchia in ognuno di noi, in cui l'uomo è innanzitutto la sua stessa contraddizione, in cui le sue azioni sono pura illusione, raddoppiata dall'illusione di movimento che offre lo schermo cinematografico, in cui i concetti di vista e visione si accavallano e risultano indistinguibili e rese ancor più problematiche e ambigue dalla inintelligibilità delle luci e delle ombre in una sintesi di "condizione umana" che mescola l'illusione della vita reale e delle sue manifestazioni alle agnizioni delle Stimmungen, "momenti di verità" che si mostrano nell'incertezza del buio e del sonno irrequieto che spesso diventa sogno e poi ancora incubo, senza soluzione di continuità, mentre in lontananza si sente echeggiare l'impeto dell'Urgrund dionisiaco che irrompe nella quieta stanzialità apollinea per mescolare tutte le carte. Sta qui tutto lo scarto tra un Caligari e un Nosferatu.
Ma facciamo un passo indietro.

Stimmung: "Der Gang in die Nacht" e "Schloss Vogelod"

cammino.notteIl cammino nella notte di cui è traduzione letterale o "La luce che uccide", con cui questo gioiellino è anche noto, è un film del 1920. Nasce da un modestissimo pre-testo letterario della scrittrice danese Herriet Bloch, adattato da Carl Mayer che ne curò la sceneggiatura tendente al melodramma in cui si pone la solita questione di vecchi uomini che amano giovani donne, insomma qualcosa di quasi banale e già ampiamente visto. Qui interviene Murnau con una profondissima rilettura e messa in forma di una storia che fa così: un attempato oftalmologo si invaghisce di una ballerina di poco talento ma ancor meno scrupoli e la sposa; nel loro nido è ospitato un giovane pittore cieco che grazie al luminare riacquista la vista e diventa l'amante della moglie gettando il vecchio nel più cupo sconforto. La poetica del regista che: "Si palesa come consapevolezza del carattere illusorio del cinema [...] qualificandosi come polisemia che si schiude nell'assenza o dissolve nel nulla" [4] trova in questo giovane, sfortunato prima e tormentato poi, il perno su cui far girare le Stimmungen, le agnizioni significanti, più calzanti.
Il film è girato senza l'ausilio di didascalie talché il ritmo interno e la durata insistita delle singole inquadrature diventano un'ispezione inventariale del dècor interno e visione sublime degli elementi naturali, gli esterni. Murnau si serve del pittore cieco, indice di se stesso, per spingere la visione in tutte le direzioni, fino alla Stimmung. Negli interni, ripresi con la cinepresa frontale fissa e in piano americano oppure mobile su morbidissimi carrelli, si aprono tutte le possibilità panopticon del Kammerspiel: una galleria ispettiva per una visione dettagliata di ogni singolo movimento della mano, del petto che si gonfia in un sospiro, di uno sguardo che si distoglie per una menzogna.
Murnau non si limita a spingere il Kammerspiel al massimo delle sue possibilità ma vi aggiunge in almeno due occasioni l'agnizione fantastica che fa esplodere l'immagine in un gesto ambiguo e indefinito che è allo stesso tempo manifesto, immanente e trascendente. È il caso della sequenza in cui il cieco riacquista la vista, quando il pittore liberato dalla fascia che gli ripara gi occhi e questi, secondo dopo secondo, mettono a fuoco oggetti sempre più definiti e nitidi; coi secondi che passano (e le luci che si alzano) egli protende sempre più in alto le mani, così grandi da sembrare uncini, rivolgendole al cielo quasi stesse sorgendo, nascendo, e, allo stesso modo di un parto, vediamo la nascita di quest'uomo già formato che è già Caligari (con cui condivide la corporatura, lo sguardo, il taglio dei capelli) e che in una riuscitissima inversione fisiognomica diventerà il conte Orlok.
Anche la sequenza subito successiva offre le stesse emozioni: il giovane, barcollante, esaurito il tripudio della visione nitida delle cose, inizia a fare i conti con la loro indefinitezza. Egli è condotto, a fatica, nella sala pranzo e si accomoda sotto una luce discreta e attutita da un lenzuolo bianco. Così imbrigliato, il fascio di luce soffusa si deposita per intero sul suo volto angosciato fino a farlo sembrare una maschera orrenda.
Sullo slancio di questo simbolismo magistrale, Murnau accende una terza sequenza di grande ambiguità che ha per soggetto la disperazione dell'oftalmologo. Egli, solo e abbandonato, apre il baule dei vestiti della moglie fedifraga e abbraccia con forza quello a fiorellini che le abbiamo spesso visto addosso. l'azione spiazzante, il gioco delle luci, lo slancio dell'ambiguità, il "riconoscimento" della persona amata attraverso una sua metonimia (il vestito) e probabilmente un piccolo trucco scenografico, fanno sì che l'uomo abbracci non già un vuoto vestito e non più una donna in carne e ossa, ma un qualcosa a metà strada, un manichino, un sonnambulo, una sorta di Un-tote, non-vivente.
Per quanto riguarda gli esterni che sono probabilmente il vero punto di forza di tutta la cinematografia murnauiana, ammiriamo in varie riprese l'azione degli elementi naturali che in questo film suppliscono anche l'assenza delle didascalie: l'azione sferzante del vento, la tempesta, le onde che ribollono, le scogliere minacciose e frangi-flutti, gli alberi scarni che si piegano... In una parola la Natura, se pur sembra corrispondere a un'azione funzionale il simbolo di ciò che accade (passione, gelosia, rabbia), trova il più compiuto dei significati nel suo essere in quanto tale, avulsa ai fatti degli uomini, indifferente ai loro sensi e stati d'animo.
D'altra parte, la forma più perfetta di Stimmung, quella letteraria dei versi di Holderlin e Novalis, accade proprio in quelle "visioni notturne" in cui il buio e la paura ancestrale che genera nell'uomo va a creare la forma più perfetta di ambiguità.

castello.vogelodDi segno totalmente opposto è invece "Schloss Vogelod" (Il castello di Vogelod, 1921) che parte da una trama complessa (è in sostanza un poliziesco) che Murnau non può permettersi di sospendere nell'azione come aveva potuto fare in un film ispettivo come Il cammino nella notte e che lo porta a spostare la sua attenzione poetica sulla caratterizzazione dei personaggi, forse per la prima volta nella sua carriera. Il film è stato ritrovato e restaurato nel 2002 attraverso l'interpolazione di un negativo di proprietà del Bundesarchiv-Filmarchiv di Berlino e una copia con i sottotitoli portoghesi ritrovata in quella miniera del cinema muto che si sta rivelando il Brasile.
Il pre-testo letterario è un romanzo di Rudolf Statz, una sorta di "Dieci piccoli indiani" ante-litteram in cui, in un castello desolato e battuto dalle piogge insistenti, si ritrova un gruppo di amici tra cui un magistrato in pensione, un cosiddetto "uomo ansioso" e Padre Faramund da Roma (che, come nel capolavoro di Agatha Christie, compare e scompare inspiegabilmente). Completano il gruppo la coppia di castellani e una seconda coppia di nobili taciturni e cupi, coppia nata dalla tragica vedovanza di lei. Inaspettato, arriva anche il conte Oesch, fratello del primo marito della vedova, ucciso a pistolettate (pensano tutti) proprio dal fratello. Scopriamo infatti, grazie a un flashback, che l'ucciso, dopo l'idillio della luna di miele si incupisce e passa tutto il suo tempo nella lettura di testi francescani che reclamano la rinuncia a tutto, dal sesso al denaro e alla proprietà. In quella che è la concezione borghese dell'epoca è venuto automatico additare quale colpevole il fratello per il più banale dei moventi: il denaro, di cui l'ucciso voleva liberarsi. Se la Giustizia non è riuscita a inchiodare l'assassino, la morale borghese l'ha messo ai margini come "persona sgradita". Epperò lui, non invitato, è proprio lì, con loro, in una doppia veste...
Il film si sviluppa in interni ripresi con carrellate ampie e focali corte per dare sia l'idea del labirinto che è il castello (labirinto che è anche concettuale) sia perché la messa in quadro possa staccare piccole porzioni di spazio entro cui drammatizzare appieno (come nello scorso film) il Kammerspiel nel quale sono esaltati: i gesti precisi, quasi meccanici, del conte Oesch; la verginità posticcia e ricostruita della vedova che usa i vestiti come un guscio che lascia scoperti pochissimi centimetri di pelle e che è sempre ripresa in piano americano (probabilmente la più ambigua delle inquadrature) e in pose fisse e persistenti, quasi fosse sprovvista di volontà e di moto; il barone Safferstadt, suo nuovo marito, taciturno e con gli occhi perennemente bassi. Quando il tempo lo permette, gli ospiti escono fuori, gli uomini a cacciare, le donne a trastullarsi coi bambini. Il conte Oesch, al contrario, rifiuta l'invito degli amici perché lui "caccia solo nel vento e nella tempesta".
Il rifiuto di mescolarsi a una Natura generosa di prede e di alberi, di fiumiciattoli e fiori che sembrano lì apposta a gratificare una classe sociale che se non può agire quantomeno giudica secondo Giustizia, è un'abile mossa del conte Oesch. Lui in realtà, come Murnau, sa bene che la Natura è indifferente all'animo umano e lui ha solo bisogno di tempo e di spazio per le sue investigazioni. D'altra parte, l'idillio dura poco e tutti debbono ri-precipitarsi nel castello mentre si sta scatenando una bufera. Oesch esce ("Forse per cacciare?" - lo irridono gi altri) e arriva Padre Faramund. Questo non è uomo né religioso: è una funzione borghese, l'auto-assoluzione attraverso il Sacramento della Confessione che la vedova chiede e ottiene: si sentiva trascurata, ha desiderato il Male, è accaduto e ora eccoli, un nuovo matrimonio non tra due amanti ma tra due sventurati, una donna cupa e vuota e un uomo infelice e senza parole. La donna interrompe la Confessione lasciandosi il gran finale per il giorno dopo.
Nel mentre della diegesi, Murnau si permette due divagazioni in chiave psico-analitica che completano la galleria dei personaggi entro cui concentrerà gli sforzi maggiori della Stimmung e del Kammerspiel. Nella prima, "l'uomo ansioso" sogna di essere affrontato da due mani uncinate che lo portano via nella notte; il mattino dopo si sveglia felice di essere ancora vivo e scappa via incorniciato da un iris luminoso su cui compare l'ironica sottotitolatura: "Un uomo felice!". Nella seconda, uno sguattero schiaffeggiato in mattinata dal cuoco perché mangiava di nascosto della crema si prende nel sogno la rivincita e schiaffeggia il cuoco lungamente sotto l'occhio benevolo di Faramund, che si conferma quindi come l'elemento ristabilitore della Giustizia. Questi due comprimari sui quali Murnau ha ironizzato riguardo loro piccole e trascurabili debolezze, si saldano alle grandi debolezze del trio protagonista, riguardo il quale qualcuno è sicuramente colpevole. E il colpevole, in una serie di insistite Stimmungen non è un assassino ma una persona infelice senza scopo, quasi l'infelicità fosse la sua condizione umana e irreversibile, un destino già scritto: "Non ero... Felice" - sembra giustificarsi senza offrire ulteriori spiegazioni.  L'enigma è sciolto, la Natura prosegue indifferente il suo corso, il ruscelletto scorre allegro, gli alberelli si piegano gentili al venticello, la classe sociale aggiorna la sua sentenza di Giustizia, l'ordine è (falsamente) ristabilito. Un Murnau decisamente pessimista.

Della bellezza e dell'orrore: "Nosferatu - Eine Symphonie des Grauens"

nosferatuNosferatu - Una sinfonia dell'orrore (1921-22) sancisce la maturità artistica e poetica di Murnau.
Questa si manifesta con un soggetto che il Nostro non ha amato particolarmente, il "Dracula" di Bram Stoker. Murnau stravolge completamente il celebre romanzo ma ne lascia intatto l'impianto narrativo talché il film è accusato di plagio e condannato alla distruzione del negativo; successivamente le cose in una qualche maniera si appianano, ma tuttora si trovano in circolazione delle copie incoerenti, in cui i protagonisti hanno dei nomi diversi dagli originali e si crea un po' di confusione tra Dracula (il nome utilizzato da Stoker che ne ha una sorta di copyright), Nosferatu, l'Un-tote (sempre lui, è il nome utilizzato da Murnau per sfuggire all'accusa di plagio) e il conte Orlok che rappresenta il vampiro nei suoi panni borghesi.
Il giovane Harker è convinto dal "chiacchierato" Renfield a recarsi in Transilvania, là sui Carpazi, per concludere un affare immobiliare con il ricchissimo Orlok, interessato a trasferirsi in Germania, in una catapecchia fatiscente dirimpetto alla casa del giovane, sposato alla bella Nina. Sull'onda dell'entusiasmo, Harker arriva colà e nonostante gli avvertimenti degli autoctoni, a mezzanotte spaccata è nel castello del conte. L'eccitazione per l'affare, la stanchezza, il rifiuto incosciente e razionalista di una identità sempre più evidente e infine la paura che paralizza qualsiasi reazione, gli fanno trascorrere due intere nottate nel maniero, poco consapevole di cosa stia succedendo, conclude l'affare e quando finalmente capisce è troppo tardi, Orlok è già in viaggio verso Brema, comodamente alloggiato nella sua bara ripiena di terra.
Nel frattempo Renfield, che si scopre essere già da tempo succube di Orlok, impazzisce ed è rinchiuso, mentre la dolce Nina intuisce la portata tragica di quel che sta per accadere in drammatici episodi di sonnambulismo. Il vascello arriva a Brema vuoto, tutto l'equipaggio è morto per una epidemia di peste che si scatena anche in città. Arriva Harker che abbraccia Nina e entrambi si illudono che tutto sia finito. Quatto quatto, Orlok si è installato nella catapecchia e Nina percepisce la sua demoniaca presenza; contravvenendo al preciso ordine del marito, la donna legge "Il libro dei vampiri" dal quale scopre che il sacrificio di una donna dal cuore puro può sconfiggerlo definitivamente. Il finale è decisamente campato in aria.

Così come molti soggetti gli sono stati "consigliati", se non imposti, allo stesso modo Murnau è "costretto" a girare dei finali incoerenti con l'esposizione del film, quando non addirittura, come nel caso famosissimo de L'ultima risata di cui si parlèrà più avanti, posticci. Il caso di Nosferatu è abbastanza eclatante: su quale base dovrebbe poggiare il lieto fine se i due protagonisti sono stati vampirizzati? In una città decimata dalla peste? A Murnau questi "dettagli" importano poco e per restare in parafrasi ciò che al Nostro importa è "portare la peste" presso gli spettatori, con la sua sottilissima arte del dubbio, ambiguità e pessimismo. Nel Nosferatu persino la tanto amata Natura, di regola sublime e indifferente alle vicende umane, si schiera nell'armata del Male con le sue legioni di topi di fogna aggressivi e veicolo della peste, con quella iena che fa la posta ai cavalli (che però Murnau filma splendidamente, liberi dalle selle e dalle mordacchie, che scorrazzano nella brughiera e sentono il pericolo), dei paesaggi filmati in negativo, quelli che portano al castello di Orlok, percorsi da due velocissimi e demoniaci cavalli non solo sellati e bardati come fantasmi malefici ma anch'essi filmati in negativo. La figura di Van Helsing, che nel nostro film diventa secondaria, ci mostra con intento documentario una pianta carnivora e zannuta che inghiotte una mosca (dice la didascalia: "Il vampiro della Natura") e un polpo trasparente e inconsistente che divora placido la sua preda ("Un fantasma").

Se anche la Natura è impossibilitata a mostrare la sua indifferenza per le cose umane davanti a un caso sovrannaturale, anche peggiore è il destino degli uomini e in special modo di quella coppia fintamente felice composta da Harker e Nina. Harker, perduta la sua incoscienza giovanile che lo faceva procedere come un treno, si riduce a figura secondaria e poi addirittura posticcia, allorquando è Nina a capire di essere il nodo gordiano della vicenda, in quell'ultima battaglia della Bellezza contro la Morte. Harker, da buon borghese, penetra solo la superficie delle cose.
Ma anche Nina evolve ambiguamente. Intanto, falsamente in vita e in salute; poi, soprattutto, Murnau in tutta la seconda parte del film ha fatto fuoco su un aspetto evidente; se Harker è prima incredulo e poi spaventato a morte dall'identità di Orlok, Nina fin dal primo momento e anche senza vederlo, a distanza, è completamente fascinata dalla potenza del Male.
Murnau mette in evidenza questa seduzione, facendola svegliare di sobbalzo in piena notte, sotto il dominio della luna piena, e la fa camminare sonnambula su un pericolosissimo cornicione. Poi è preda di febbri, deliri, bramosa di azioni proibite (come, per esempio, leggere "Il libro dei vampiri") che altro non sono che fortissime pulsioni di libido. Da questo punto di vista Nosferatu non è altro che Il castello di Vogelod in cui l'elemento solo sognato da "l'uomo ansioso" finalmente si realizza (e le mani-artiglio che lo prendevano erano le stesse). Il carattere fortemente erotico del vampirismo non nasce certo con Murnau ma con questo aggiunge un tassello prezioso e il prelievo del sangue col suo processo di tensione-scarico-riposo (che è poi anche quello delle "droghe dure") su cui per molti secoli si è basata la liceità della pratica del salasso si è poi trasferita con successo in campi diversi, con organi diversi e liquidi salassati diversi anche loro.
Infine c'è lui: Max Schreck (che molti ancora oggi immaginano fosse un vero vampiro) che interpreta un figuro con "le orecchie enormi e gli enormi artigli del vampiro, il suo lungo naso aguzzo, i suoi denti da coniglio, il traballante modo di muoversi [cosa che] sembrerebbe fatta per far ridere, eppure il potere fantastico del film è tale che perfino lo spettatore di oggi, di regola, guarda in atterrito e scioccato silenzio"[5].
Un personaggio che è già icona nel suo muoversi attraverso sovrimpressioni, davanti cui si schiudono le porte per non trovarsi nella sconvenienza di dover usare le scomode mani artigliate che, quando leva al cielo in quella famosissima inquadratura in contre-plongée sulla nave fantasma, sotto le vele, sembra esso stesso una vela, un ago magnetico che impone la direzione alle cose; ed è sempre lui che si fa ritrarre come una pin-up in pose incorniciate dalle cuspidi gotiche che ne esaltano l'oscena calvizie e i fitti sopraccigli, che si muove come inglobato in un esoscheletro con le batterie in esaurimento e che (Francis Ford Coppola su questo concepirà tutto il suo "Dracula di Bram Stoker") è protagonista di una delle più struggenti storie d'amore quando, perduto per un istante il suo ghigno malefico, incorniciato e incarcerato da una finestra con le sbarre, percepisce la presenza di Nina che gli apre la sua, di finestra, come a dargli l'ultimo e inevitabile appuntamento amoroso cui l'Untote, seppur infero, è incapace di sottrarsi come un qualsiasi e debole uomo. Anche in questo caso riecheggiano le parole dell'omicida de Il castello di Vogelod: "Io... Non ero... Felice".

fantasma_01"Phantom" (Fantasma, 1922) è la narrazione dei drammatici eventi occorsi a Lorenz, umile impiegato e aspirante poeta, a causa dell'amour fou per Veronika, appartenente a una delle più facoltose famiglie della sua cittadina. Dopo una breve cornice iniziale, il racconto si concentra infatti sull'insana passione del protagonista, che in un accesso di follia, dopo aver saputo del matrimonio dell'amata, è portato a sovrapporre l'immagine di questa a una donna di mondo. Costei, però, aspira solo a sfruttarlo, chiedendogli denaro che lui non possiede; la mefistofelica influenza di lei porta il protagonista alla dissipazione degli averi prestatigli dalla ricca zia, al tentato furto e all'arresto.
La storia, tipica del melodramma, è tratta da un romanzo di Thea von Harbou (moglie di Fritz Lang) ma contiene molteplici differenti influenze, che infondono al film una notevole complessità. Si percepisce l'ascendente del reinhardtiano Kammerspiel, che conferisce agli interni domestici della misera abitazione di Lorenz un'atmosfera squallida e dimessa, propria di un'analisi della quotidianità della classe basso-impiegatizia che Murnau svilupperà ulteriormente in seguito. Alla componente realistica si aggiunge però una forte matrice fantasmatica: nella pellicola sono infatti ripetutamente materializzate, introdotte da dissolvenze, le ossessioni del protagonista.
Le due sfere si avvicendano, in modo da creare un forte stacco tra la rievocazione dei fatti accaduti e la descrizione degli episodi psicotici del soggetto: l'inconscio è tradotto a livello visivo da un vocabolario iconico peculiare, quello espressionista. Perfino l'ambiente cittadino è totalmente distorto nelle allucinazioni del giovane, riprendendo la configurazione scenografica già utilizzata in Nosferatu e riproducendo il celebre dipinto "Torre rossa a Halle" di Kirchner.

Il regista ha allora sviluppato due vocabolari paralleli, uno per il Reale e l'altro per l'inconscio del soggetto: la suddetta bipartizione non sì limiterà però a tale singola pellicola, ma sarà in fondo carattere distintivo dell'intera produzione dell'autore.
Tra il 1922 e il 1923, Murnau completa la sua trilogia di Kammerspielfilm in ambiente rusticano che aveva inaugurato con le avventure frontaliere della bella gitana Marizza, film di cui abbiamo già analizzato il rullo di pellicola arrivato fino a noi. Dei due film successivi, uno risulta tuttora perduto, "Die Austreibung" (L'espulsione, 1923) mentre una copia di "Der Brennende Acker" (La terra che brucia, 1922) è stata ritrovata nel 1978.

In L'espulsione ritroviamo i temi della fedeltà alla terra e della sua devozione da parte di famiglie patriarcali che fanno dell'onestà il loro valore fondante, che difendono dall'esterno con ogni mezzo e sempre con innocenza pur, spesso, sbagliandosi e rigettando con imbarazzante violenza individui percepiti come ostili ma che in realtà non lo sono, come sintetizzerà benissimo il tema di "City Girl" (Il nostro pane quotidiano), di cui parleremo più avanti. Anche in questo film la placida tranquillità della vita rurale sembra minacciata da un matrimonio osteggiato e da una fedeltà coniugale messa in dubbio che fanno scivolare il clima bucolico in un sordido melodramma sentimentale

La terra che brucia è anch'esso un melodramma che nasce dalla penna di Thea von Harbou, sempre a suo agio con i generi di carattere emotivo. Rispetto a Il nostro pane quotidiano, che di questi film bucolici è un po' il metro di giudizio, è una sua inversione in quanto è qui questione di un campagnolo che sogna la città, a qualsiasi costo.
Sviluppato in sei atti, fa specie che Murnau si concentri soprattutto negli spazi interni, in cui dispiega lo spazio drammatico del Kammerspiel, quasi "dimentichi" di filmare gli ambienti naturali a esclusione di quel "Terreno del Diavolo" che diventa il perno della questione.
Questo, come il biblico fico maledetto che non dà frutti, è un campo su cui non cresce neanche l'erbaccia ma, si scoprirà poi, contiene una ricchezza moderna di ben maggior valore. Così, quella che gli ingenui contadini tramandano con storielle terrificanti, si manifesta infine in tutta la sua protervia: è veramente un posto maledetto che rovina matrimoni e uomini che combattono tra di loro per i molti soldi che "la gente di città" è disposta a pagare per entrarne in possesso. Anche in questo film il finale accomodante lascia un suono stridulo di posticcio ma sarà il viatico a un capolavoro quale "Sunrise" (Aurora), di cui andremo presto a palare.

Dopo aver raggiunto l'acme dell'intera corrente espressionista per mezzo dell'orrorifica riproposizione vampiresca di Nosferatu e dopo la parentesi poetica del successivo Fantasma (anticipatore dei successivi Faust, per la storia del protagonista, e Aurora, per l'incedere romantico), Murnau si appresta alla realizzazione di un nuovo lavoro prodotto dalla Universum Film (Ufa) il cui soggetto è desunto dal romanzo di Frank Heller, "Storhertigens finanser", Finanze del granduca. Scritturato dallo stesso autore insieme a Thea von Harbou, il film incentra le sue peripezie sul granduca di Soria, paese immaginario situato nel Mediterraneo. Pur avendo la possibilità di vendere i suoi terreni di proprietà per alleggerire lo stato della sua pessima condizione finanziaria, decide, in un impeto di orgoglio, di non vendere nulla, peggiorando di fatto la già allarmante situazione. Solo grazie all'amore di una donna misteriosa le "finanze del granduca" verranno salvate. Interpretato dall'attore feticcio Alfred Abel (che ha già lavorato con Murnau in La terra che brucia e nella pellicola precedente, Fantasma), Finanze del granduca rappresenta l'ennesima dimostrazione di un cinema votato alla necessità di un sentimentalismo imprescindibile che sgorga attraverso l'umile compassione dei suoi protagonisti. Il film è stato recentemente restaurato dalle cineteche di Milano e di Bologna.

Un linguaggio interiore e universale: "Der Letzte Mann"

ultima.risataNel 1924, a due anni dal suo ultimo capolavoro, Friedrich Wilhelm Murnau incasella per la seconda volta il suo nome nell'elenco dei grandi della storia del cinema. È in quest'anno, infatti, che vede la luce L'ultima risata ("Der Letzte Mann", ovvero "l'ultimo uomo"). Il portiere del lussuoso albergo Atlantic (interpretato da un monumentale Emil Jannings) è un uomo prossimo alla vecchiaia e rispettato da tutti. La sua livrea gallonata da lavoro è l'emblema della sua spiccata autorevolezza. Un giorno l'amara scoperta: l'albergo Atlantic ha assunto un nuovo portiere ben più giovane e prestante e la sua qualifica viene declassata a custode dei gabinetti per "altersschwäche", "decrepitezza". Decide allora di rubare l'uniforme precedentemente depositata e tornare a casa dalla nipote, prossima al matrimonio, come se nulla fosse successo. Ma la verità viene presto a galla, prima in famiglia e poi anche all'esterno delle mura amiche, alimentando il disprezzo e l'umiliazione verso il povero uomo.
Solo allora Murnau decide improvvisamente di intrufolarsi all'interno del racconto. Attraverso l'unica didascalia del film si legge: "Il film dovrebbe terminare qui perché nella vita reale allo sfortunato vecchio non resta che aspettare la morte. Ma il regista ha avuto pietà di lui e ha inventato un epilogo quasi incredibile". Ecco allora la confessione d'amore del regista per il personaggio interpretato da Jannings e come lui per tutti i loser, gli innocenti, gli sbandati dal grande cuore e dal grande spirito. L'intromissione di Murnau, oltre a essere dal punto di vista cinematografico, una novità assoluta all'interno degli infiniti stratagemmi di sviluppo del racconto, è la perfetta rappresentazione di una ricompensa, di una gratificazione che, seppur "incredibile", utopica, riscatti la difficoltà della vecchiaia e la sofferenza dell'essere umano destinato alla sconfitta. Il cinema è il mezzo attraverso il quale scaturisce la salvezza del portiere, altrimenti impossibile. Un'amicizia grottesca e un'eredità fortunosa trasforma repentinamente il cupo dramma in una commedia alla Buster Keaton. Fino alla sospirata "ultima risata".

Sempre prodotto dalla UFA, L'ultima risata è un film che rientra tra i più importanti della storia del cinema finanche per altri due motivi, o meglio, due nomi: Carl Mayer e Karl Freund. La pellicola si riallaccia, infatti, a una trilogia che vede come comun denominatore lo sceneggiatore  Carl Mayer, autore oltre che della pellicola in questione, anche de "La rotaia" e de "La notte di San Silvestro", entrambi diretti da Lupu Pick. I tre film risultano essere la summa del cinema Kammerspiel, anche conosciuto come "cinema da camera", movimento cinematografico nato in Germania negli anni Venti assieme alla corrente espressionista. In tal senso, L'ultima risata si riversa su questa corrente per la quasi totale assenza di didascalie[6], operazione impervia per un cineasta all'interno del panorama del muto. Ulteriore dimostrazione di grandezza del regista tedesco, capace di far vivere emozioni senza l'ausilio della parola, parlata o scritta, ma solo grazie al sussidio della cinepresa, dell'illuminazione e del montaggio. E soprattutto grazie alle gesta e alle espressività dei suoi attori. "Le didascalie sono rifiutate come inessenziali, esterne e irrilevanti per la nuova lingua del film [...] La lingua ideale che il film promette di restaurare è la lingua dell'espressione immediata, che proietta un'integrità visibile di corpo e anima. [...] L'origine di tale lingua primordiale [risiede] nel movimento espressivo spontaneo (Ausdrucksbewegung) di tutto il corpo, inclusi i movimenti delle labbra e della lingua. Non si afferma la supremazia della parola. Il suono è semplicemente un sottoprodotto di questa primordiale lingua dell'espressione"[7].

Il secondo nome è quello di Karl Freund, montatore del film. L'avanguardia di un film come L'ultima risata è invero rappresentata dai primissimi usi della camera mobile[8] (o camera "scatenata" come la chiamarono i tedeschi). Questa pedina i personaggi ovunque, li segue incessantemente, penetra in ogni dove. Celeberrima è la prima sequenza del film per il virtuosismo tecnico dei movimenti della cinepresa. Altre geniali intuizioni sono quelle in cui il portiere legge la lettera di licenziamento, dove la camera di Murnau si avvicina come a voler curiosare sullo scritto, o anche la sequenza del sogno post-sbronza in cui la camera oscilla riproducendo la naturale sensazione dello stordimento provocato dall'abuso di alcol. E poi la maestria nella tecnica di messa a fuoco, di dissolvenza e nell'uso dei mascherini. Il tutto mentre Hollywood assiste stupefatta alla finestra.

La triplice collaborazione Murnau/Mayer/Freund si ripete anche l'anno successivo con un originale adattamento della commedia teatrale di Moliere, Tartufo. Una governante vorrebbe impossessarsi dei beni materiali di un anziano ma, per fortuna, a metterle i bastoni tra le ruote ci pensa il nipote dell'uomo. Il merito del regista è quello di riconsegnare degnamente un soggetto non originale creando un'opera dai risvolti goliardici e grotteschi attorno alla figura dell'ipocrita Tartufo. Mayer, dal canto suo, conferma di essere il principe della sceneggiatura tedesca anni 20 non solo per via della fluida linearità del racconto quanto per il suo geniale intuito di adattare una commedia teatrale mediante il cinema nel cinema (la proiezione del personaggio Tartufo). L'ausilio del mezzo cinematografico quale gioco di scatole cinesi al fine di elevarne la potenza artistica è una perspicace prova che dimostra l'amore per la neonata settima arte e che, al contempo, ha altresì il compito di intensificare la virtuosa palingenesi del mezzo stesso. Come ne L'ultima risata, la macchina da presa non smette un secondo di adocchiare i personaggi, li spia come in preda a una forte pulsione voyeuristica, scatenando in tal modo una sottile vena di compiaciuto erotismo (si veda a tal proposito lo sguardo a tratti subdolo di Emil Jannings). Un tema, quello sessuale, molto caro a Murnau e legato indissolubilmente alla sua omosessualità mai dichiarata. Dopo aver dissimulato ogni sua pellicola con simbolismi e riferimenti più o meno lampanti, Murnau getterà definitivamente la maschera in concomitanza della sua ultima fatica, Tabù.

"Sconvolgimento e Impeto" di un poema metafisico: il "Faust"

faustNel 1926 Murnau riesce nell'impresa di realizzare l'adattamento cinematografico di uno dei poemi più importanti nella storia della letteratura mondiale: il Faust di Goethe. Sarà, di fatto, l'ultima pellicola del tedesco a essere prodotta all'interno del suo paese. Il film si apre con l'entrata in scena dei Quattro Cavalieri dell'Apocalisse e col successivo dialogo tra l'Arcangelo Gabriele e il demone Mefistofele. Il primo elogia la stupefacente bellezza del libero arbitrio ("Sono meravigliose tutte le cose del cielo e della terra! Ma la meraviglia suprema è la libertà dell'uomo di poter scegliere tra il Bene e il Male"). La superbia e l'arroganza del secondo lo spinge, invece, a scommettere che sarà in grado di corrompere il dottor Faust, svelando così la vera natura dell'uomo ("Un furbone come tanti! Prega il bene e fa il male! Vuole l'oro e la pietra della sapienza!"). Se il maligno riuscirà a vincere la scommessa, il mondo sarà ai suoi piedi.
Quello che (cinematograficamente parlando) sbalordisce in questi primi cinque minuti dell'opera è il tripudio di innovazioni, sperimentazioni ed effetti speciali che imprimono da subito al poema metafisico un'aura di immediata grandezza: la scenografia che spazia dal realismo alla deformazione espressionista (e che riconduce inequivocabilmente al "Caligari" di Wiene), il gioco sublime di luci e ombre del direttore della fotografia Carl Hoffmann, le pirotecniche entrate in scena di Mefisto, l'intensità della narrazione sorretta dalla rappresentazione di una lotta manichea forse mai affrontata in campo cinematografico con siffatto ardore.
Il dottor Faust, accecato dalla sete di sapienza e trepidante nel porre fine alla pestilenza che sta annichilendo la sua città, prega giorno e notte l'intervento di Dio. Al suo cospetto gli si presenta invece Mefistofele, che dapprima persuade il vecchio ingenuo e poi lo premia donandogli una seconda giovinezza e l'amore che non ha mai trovato. Insieme raggiungono la Contessa di Parma, "la donna più bella d'Italia", ma Faust finisce con l'innamorarsi della giovane e candida Gretchen ("l'agnellino nella bocca del lupo"). Ma l'illusione generata dal Male produce subito i suoi effetti tragici: Faust si macchia di omicidio dopo aver sfidato a duello il fratello geloso di Gretchen e averlo trafitto con la sua spada, la ragazza rimane incinta e, dopo essere stata abbandonata, subisce anche l'atroce dolore causato dalla perdita del suo bambino (la culla in dissolvenza è l'esempio di un cinema aperto a sprazzi di vivida emozione). La donna, accusata di infanticidio, viene condannata al rogo, ma solo a questo punto Faust, dopo aver rinnegato la giovinezza, annulla con l'Amore il patto tra l'Arcangelo e il demone, accorrendo incontro alle fiamme che stanno divampando su Gretchen, morendo insieme a lei. Le lingue di fuoco e il dolore lancinante che avvolgono lo struggente epilogo ricordano, per certi versi, il capolavoro di Dreyer "La passione di Giovanna D'Arco", che verrà realizzato solo due anni più tardi nel cuore dell'avanguardia francese.

Nel riproporre i temi cardini dello Sturm und Drang ("sconvolgimento e impeto") e nel ripercorrere altresì le fasi del romanticismo tedesco goethiano, Murnau coglie l'occasione per avanzare un ulteriore livello interpretativo che trapela dai fotogrammi della pellicola: il paesaggio (la Natura), tema portante degli stürmeriani, è innevato e glaciale, e sul suo sfondo si materializza dapprima la perdizione e infine la tragedia di Gretchen. Il gelo naturalistico rappresenta, in tal senso, l'immobilità umana di fronte all'autorità (che sfocerà in dittatura negli anni successivi) nel periodo in cui la Repubblica di Weimar subiva il black-out della ragione e i primi fantasmi dell'occupazione nazista. Vista in quest'ottica sociale, la preveggenza della pellicola assume dei connotati psicanalitici preponderanti, come evidenziato dalla visione dello scrittore e filosofo tedesco Siegfried Kracauer: "I tedeschi [...] soffrono di un complesso d'inferiorità dovuto a una evoluzione storica rivelatasi fatale per la fiducia in sé del ceto medio. Diversamente dai francesi e dagli inglesi, i tedeschi non hanno fatto la loro rivoluzione e non sono quindi mai riusciti a fondare una società veramente democratica. È significativo che la letteratura tedesca non possegga neppure un'opera che investa un "tutto" sociale articolato alla maniera di Balzac o di Dickens. La verità è che in Germania non esisteva un "tutto" sociale. Gli strati del ceto medio erano in tale situazione di immaturità politica che temevano di combatterla per paura di indebolire maggiormente la propria condizione sociale, già tanto incerta. Questo atteggiamento regressivo provocava un ristagno psicologico"[9]. Questa asserzione di Kracauer riflette l'intera corrente cinematografica tedesca degli anni 20, che a partire dalla realtà deforme e allucinata di Caligari, gettò le basi per preannunciare l'inizio della Seconda Guerra Mondiale. Murnau, insieme a Wiene e ad altri capostipiti dell'espressionismo tedesco, è stato il profeta in grado intravedere da lontano l'approssimarsi del buio incombente, ed è stato quindi capace di riflettere il lento scivolamento della sua epoca verso l'orrore del decennio successivo. Ancora oggi, lo spirito faustiano dell'uomo del secondo dopoguerra vede nell'accettazione dell'abisso e nella perdita di sé, l'unico modo attraverso il quale ritrovarsi ed espiarsi dal peccato originale. Il finale del film, la speranza decretata dalla vittoria del Bene sul Male, non rappresenta solo il desiderio di risollevamento del destino umano ma anche la potenza artistica, onnisciente e salvifica del mezzo cinematografico nei riguardi della "realtà" vissuta di giorno in giorno.

Dalla campagna alla città: l'esordio hollywoodiano di "Sunrise"


aurora_01Impossibile non catturare l'attenzione di Hollywood dopo due capolavori del calibro de L'ultima risata e del Faust. Murnau (al pari del connazionale Lubitsch), rientra così nella politica sistematica di accorpamento attuata dal cinema americano nella seconda metà degli anni 20, che raggruppa i più grandi talenti europei. Nel 1927 firma il contratto che lo porta a lavorare nella futura 20th Century Fox e il primo film che vi realizza è "Sunrise: A Song Of Two Humans", opera di acuto spessore lirico ed intimistico, nonché testamento per antonomasia dell'intera corrente cinematografica degli anni Venti.
Aurora è inequivocabilmente figlia dell'espressionismo tedesco degli anni precedenti. Non solo perché Murnau è il capostipite insieme ai colleghi Wiene e Lang della scuola di Weimar, ma anche perché la sceneggiatura è, guarda caso, tra le mani di un certo Carl Mayer. Ancor più con questo esordio hollywoodiano, il cinema murnauiano raggiunge il più alto grado di intensità espressiva dell'immagine, riuscendo a toccare addirittura le corde di Nosferatu, (il marito e padre di famiglia, che urla tutta la sua disperazione verso la macchina da presa pensando di aver perso la sua amata è comparabile al primissimo piano del conte Orlok). Aurora adotta molteplici tecniche di ripresa che rendono la pellicola un piccolo gioiello carico di virtuosismo: oltre alla fluidità della macchina da presa, infatti, si evidenzia un uso smisurato della sovrimpressione (che influenzerà non poco gli sperimentalismi di Vertov), delle sfocature, delle dissolvenze e dei flashback. Un'altra caratteristica imprescindibile del muto, qui elevata al quadrato, è rappresentata dalla teatralità dei personaggi, efficacissima nel manifestare apertamente sentimenti e pulsioni e semplicemente perfetta nel riuscire a limitare l'uso della comunicazione verbale, delineata dalla didascalia. E come una grande opera di teatro che si rispetti, il libretto di Murnau trasuda romanticismo, poesia nelle immagini, una spiccata liricità dei movimenti, ma soprattutto una capacità di lasciare un'impronta emotiva devastante sullo spettatore.

Aurora
è dunque la storia di tutte le storie d'amore, un sogno vissuto ad occhi aperti e in bianco e nero (doveroso è il confronto con il tema amore-sogno vissuto in "L'Atalante" di Jean Vigo), esperienza sensoriale a trecentosessanta gradi. Un cane che smaniosamente riesce a slegarsi dalle catene e raggiungere i due sposi su una barca. Una scena apparentemente superflua ma che racchiude invece tutta la prima parte del film giocata sul dramma di un amore svanito, di un'attrazione fatale ma a cui il destino è deciso a riproporre una seconda possibilità. Murnau si serve semplicemente di sequenze come questa per mettere in cornice il senso di solitudine e di tragicità che pervade il primo atto della vicenda. Nella seconda parte la città lascia spazio alla campagna e comincia un percorso iniziatico sull'amore da antologia: la commovente sequenza del matrimonio ma soprattutto la magnifica scena del bacio in strada tra i clacson delle auto nel traffico (e contornata da una splendida sovrimpressione città/natura). La città offre distensione, una pace interiore ritrovata nei due protagonisti e il regista sfrutta a pieno la situazione che si viene a creare inserendo simpatiche gag, come la sequenza che vede un imperturbabile uomo di buon costume sollevare più volte invano la spallina della propria donna, ma anche quelle notevolmente più profonde, come la gioia di vivere che traspira tra i fotogrammi della visita al fotografo.
Il tema del viaggio (lo stesso che il regista intraprende dalla sua Germania a Los Angeles) si consolida definitivamente all'interno di una barbieria (luogo in cui al protagonista viene eliminata la barba, un'allegoria che corrisponde forse all'inizio di una nuova vita) tra le note della danza contadina del "midsummer" suonata al luna park e ballata con fervore dai due innamorati. Fino alla tempesta e al tragico finale, che rievoca il quadro di apertura: "La vita è quasi sempre la stessa... A volte amara, a volte dolce". E questa volta non potrebbe essere più dolce perché Mayer modifica con un happy ending emotivamente esplosivo la conclusione al soggetto originale di Hermann Sudermann votato alla tragedia. L'evoluzione circolare della pellicola (campagna-città-campagna) sancisce la vittoria di un ritorno alle origini genuine e contadine. Per contro, Murnau marca con un pietoso primo piano il volto dimesso della sconfitta, quello della donna-amante di città, dichiarando concluse le vacanze evocate con tanto entusiasmo nelle inquadrature iniziali.

L'esordio in terra americana non poteva che sortire maggiori effetti: Aurora vince tre premi Oscar (nella sua prima edizione) come miglior film/produzione artistica, miglior fotografia della coppia Rosher-Struss e miglior attrice protagonista (Janet Gaynor).
Ma forse il premio più prestigioso coincide con il pensiero di un mostro sacro della Nouvelle Vague e dell'intera cinematografia mondiale che corrisponde al nome di François Truffaut, che su "Les Cahiers du Cinema" definì "Sunrise" semplicemente il più bel film della storia del cinema.
Eppure, nonostante i riconoscimenti dell'Academy e l'impressionante mole di commenti positivi mossi dalla critica, Aurora non riesce, all'indomani della sua uscita a fare presa sul pubblico, forse a causa di uno stile troppo avanguardistico per quei tempi. Dal primo progetto a stelle e strisce del regista tedesco ne discende un mezzo flop al botteghino, avvenimento questo che contribuirà, di fatto, a delineare la graduale caduta di carriera del Nostro.

diavoliI quattro diavoli, secondo film prodotto per la Fox, vede la luce nel 1928 e  incentra la sua storia sul romanzo di Herman Bang, "De Fire Djaevle". Quattro bambini, dopo essere stati barbarizzati dallo spietato direttore di un circo, vengono affidati alle cure di un vecchio pagliaccio di professione. Divenuti famosi equilibristi, i "quattro diavoli" vedono lentamente dissolvere l'armonia che li lega l'uno all'altro. Due di loro infatti, Charles e Marion (interpretati rispettivamente da Charles Morton e dalla musa Janet Gaynor), sono fidanzati e vedono la loro unione incrinarsi con l'entrata in scena di una seduttrice della Parigi d'alto bordo.
Il triangolo amoroso viene impreziosito da Murnau all'interno di una cornice simil-fiabesca, quale è quella dell'arte circense, universo che assottiglia, altresì, la differenza di ceto dei personaggi sullo schermo. Ne scaturisce un melodramma passionale pienamente murnauiano, dove l'eccezionalità dei giochi di luce e gli sperimentalismi degli effetti visivi mettono un po' in ombra l'ambiguo messaggio irto di accuse latenti ai danni di una parte di società pervasa da immoralità e affetta da inquietudini malsane (le figure del direttore del circo e della vamp, interpretata da Mary Duncan). La stessa inquietudine (mista a rabbia) che provano presumibilmente Murnau e lo sceneggiatore Carl Mayer all'indomani della storpiatura attuata dal produttore William Fox al finale del film. Il tragico epilogo viene quindi sostituito da un altro dal sapore dolciastro, per compensare al fiasco di Aurora in termini di incasso.
Il primo a indignarsi sul serio è Mayer che abbandona il progetto, lasciando che siano i sostituti Marion Orth e Berthold Viertel a completare la fase di scrittura. Murnau, invece, si piega al sistema dello show business made in Usa, presentando le prime forme di insofferenza verso la casa di produzione (un sentimento che si alimenta prepotentemente giorno dopo giorno fino allo scioglimento del legame con la Fox nell'anno successivo) e si arrende anche lui come molti altri (ricordiamo le lunghe battaglie intraprese da Chaplin e Griffith) all'avvento del sonoro[10].

Appena un anno dopo, I quattro diavoli viene nuovamente presentato al pubblico, questa volta con l'aggiunta del suono e del dialogo. La pellicola oggi risulta scomparsa al pari delle altre otto girate tra il 1919 e il 1923 anche se internet contribuisce fortunatamente a conservarne la memoria (di Murnau e delle sue opere ma anche di tanti altri autori e film) grazie a siti web che celebrano le pellicole perdute[11].

Il terzo e ultimo film diretto da Friedrich Murnau per la Fox è Il nostro pane quotidiano, tratto da una pièce teatrale di Elliott Lester, "The Mud Turtle". Lem, giovane contadino, sposa la cameriera Kate dopo averla incontrata in una trasferta lavorativa a Chicago. La donna brama desideri rurali, così l'uomo la porta con sé nella sua fattoria in Minnesota. Gli scontri tra i compaesani della piccola tenuta agreste e la donna di città non tardano a innescarsi. Anche il padre di Lem si presenta dinanzi a Kate con occhi carichi di ostilità e diffidenza.
Il nostro pane quotidiano è una storia d'amore e odio dove i sentimenti si rispecchiano sulla base del confronto dicotomico città-campagna, come già avvenuto in Aurora. Questa volta però la funzione salvifica dell'universo contadino perde di autenticità e purezza. "Il tema di fondo rimane la falsità del mitico ritorno alla campagna, luogo dominato dalla stessa logica del profitto che vige nell'universo cittadino e peggiorato dall'intolleranza"[12]. È quasi un testamento autobiografico, quello lasciato da Murnau, un atto smanioso e incontrollato di ribellarsi al sistema schiacciante e vincolante del fare cinema a Hollywood. Così, dopo più di due anni di divergenze, il rapporto tra il regista e la casa di produzione diretta dal William Fox si scioglie definitivamente ancor prima di ultimare il terzo film.

Nonostante i contenuti interessanti della pellicola e la nodale analisi interpretativa che riflette sull'ormai caduca carriera professionale del regista tedesco, Il nostro pane quotidiano è costretto a subire un massiccio intervento in fase di montaggio, stravolto ancor di più dall'assenza del regista in tutta la seconda parte dell'opera. L'opera viene infine storpiata da una doppia distribuzione, una versione muta e una sonora, che annulla così la mitica ed esclusiva essenza del linguaggio universale prodotto dall'arte muta negli anni Venti.

Natura e desiderio, ultimo atto: "Tabù"


tabuGiunto al 1931, Murnau chiude la breve e sfortunata parentesi americana e avverte la necessità di riscoprire la libertà e il realismo all'interno delle sue opere, una sorta di boccata d'ossigeno dopo l'apnea impostagli dalla claustrofobica e coercitiva macchina dell'industria hollywoodiana. Niente più luoghi ricostruiti, niente più attori professionisti. L'impresa è quella di ricominciare da zero. Nel suo nuovo cammino si imbatte nel documentarista Robert J. Flaherty, anch'egli insofferente nei riguardi del sistema americano e, insieme, fondano una casa di produzione semi-indipendente, la "Flaherty-Murnau Productions". Seppure molto diversi nella formazione, nello stile e nella corrente di pensiero, trovano di comune accordo l'idea di partenza, quella di girare un lungometraggio esplorando i misteriosi e incontaminati Mari del Sud. Se, da una parte, è facile intuire come l'indole esploratrice e documentaristica di Flaherty lo porti ad appassionarsi da subito al progetto, dall'altra è piuttosto sfuggente il motivo che porta Murnau a una scelta così diametralmente opposta a quella dei suoi film precedenti.
A una maggiore analisi risulta invece inequivocabile come Tabù sia non solo il film-testamento del regista, ma anche l'opera che più di ogni altra accentua il carattere autobiografico e intimistico dell'autore, quella che, per certi versi, amplifica la componente omo-erotica contenuta in molti suoi film. Con Tabù Murnau trova un'esasperazione che lo porta a quello che oggi chiameremmo "coming out", dichiarando la sua omosessualità davanti a tutta la platea. E lo fa in onore di un ricordo indelebile: quasi dieci anni prima, uno degli amanti nascosti del regista, il pittore e musicista Walter Spies, lasciava la Germania per stabilirsi nelle isole di Java e Bali per coronare quello che era il suo sogno. Murnau non rivide più Spies da quel 1923, ma rimase in contatto con l'uomo che descrisse nelle sue lettere l'ambiente a lui circostante quale il "paradiso perduto", un ideale erotico per tutti gli omosessuali repressi europei. L'aneddoto in questione influenza non poco Murnau, che decide quindi di partire per Tahiti e Bora Bora in compagnia di Flaherty. Il loro arrivo giunge però in concomitanza con la notizia che la Colorart, finanziatrice del progetto, dichiara fallimento. Murnau autofinanzia e riscrive il film, che doveva originariamente prevedere la storia dello sfruttamento di una piccola tribù autoctona da parte di alcuni commercianti. La notizia apporta più potere e più libertà a Murnau, che può ora mettere in scena quello che vorrebbe con la più genuina semplicità e senza ostacolo alcuno.

Tabù diviene la semplice storia di un amore impossibile, dove l'inappagabilità del desiderio si scontra con il destino fatale della morte. Diviso in due parti, "Il paradiso" (curato da Flaherty, bravo a miscelare l'intreccio drammaturgico con la sua propensione documentaristica) e "Il paradiso perduto", il film narra la storia di due innamorati, Reri e Matahi. La serenità viene spezzata dall'arrivo del sacerdote Hitu, che incorona la bella Reri vergine sacra da destinare agli dei. Disperati, i due innamorati non si sottomettono al destino e insieme decidono di fuggire lontano. Hitu li ritroverà.
Ricco di simbolismi che riconducono alla mitologia classica, il film si dispiega alternando una possente componente erotica (la bellezza irraggiungibile e la sensualità di Reri) e omoerotica (la virilità di Matahi, giovane seminudo dai muscoli prorompenti). Nella prima parte la macchina da presa si sofferma insistentemente sul sogno e sulla magia di una realtà distante anni luce da quella occidentale. La carne è il fulcro dell'inquadratura che ritrae il godimento della vita, slanciato da plastici e scultorei corpi maschili e da sirene seducenti che fanno il bagno nei pressi di una cascata. La verità, però, è nella storia che Murnau ci racconta: i mari del Sud rappresentano il disincanto dell'uomo occidentale, desideroso di fuggire dalle oppressioni della loro società, ma tutto ciò che si vuole lasciare alle spalle viene riproposto anche in queste atmosfere edeniche. L'ingiustizia, così come l'ineffabilità del fato, sono le naturali prerogative in cui l'uomo è costretto a vivere, la sua missione è quella di discernere l'unicità del vissuto esistenziale, indigeno tahitiano o commerciante europeo che egli sia. Quello che il regista inquadra, in modo impietoso, è la chimera dell'uomo che lo porta a essere felice solo grazie alla vitale forza del desiderio. La visione pessimistica di Murnau è spiazzante.

Prima che Tabù possa essere distribuito sul mercato, la collaborazione tra il regista tedesco e Flaherty si scioglie, a causa di una vistosa disparità in ambito artistico e finanziario. Murnau monopolizza il progetto, addirittura monta il film da solo, senza l'ausilio del collega. L'idea di partenza, quella di dissociarsi dal mercato hollywoodiano, si materializza in modo piuttosto lampante e non solo per l'esoticità della location: il film è interamente muto nonostante già da diversi anni il sonoro avesse preso il sopravvento, gli attori sono davvero indigeni del posto che improvvisano al momento (i nomi del film sono quelli reali) e la regia è incline a inquadrature innovative ancora più mobili del periodo espressionista. Paradossalmente, considerate le sue premesse, la pellicola riesce addirittura a portare a casa un'onorificenza dalla cerimonia degli Oscar, aggiudicandosi la miglior fotografia per Floyd Crosby, padre del noto musicista David.

Epilogo

La prima ufficiale del film è prevista per il 18 marzo 1931 a New York, ma Friedrich Murnau non potrà assistervi. Appena una settimana prima di quella data, infatti, la sua auto termina la sua corsa contro un albero lungo le strade di Santa Barbara. Secondo il cineasta sperimentale Kenneth Anger, la morte di Murnau avvenne in circostanze scandalose[13]: si insinuavano, infatti, le voci che alla guida si trovasse uno dei suoi amanti, un domestico filippino minorenne, e che i due fossero in un profondo stato d'effusione amorosa, al punto tale da far perdere al ragazzo il controllo del mezzo. Che le voci descritte da Anger fossero veritiere (l'omosessualità all'epoca non era di certo accolta come ai giorni nostri) o semplicemente calunniose, come si ritiene più probabile[14], il fatto non fece altro che alimentare ancor di più il mito di Murnau e della sua "proibita" vita privata. Al suo funerale, celebrato a Hollywood, partecipano pochissime persone, tra cui la sua grande amica Greta Garbo. Il corpo, una volta trasferito in Germania, riceve tutt'altra accoglienza: a Berlino sono i più grandi nomi del cinema tedesco a rendergli omaggio, dal collega George Pabst al produttore Erich Pommer, dallo sceneggiatore Carl Mayer al maestro Fritz Lang.

Murnau muore solo, come lo era stato in vita. Il cinema gli aveva concesso la fama, ma non la felicità. L'aspirazione a un desiderio troppo grande da rifiutare come il mito di Hollywood lo prosciugò della sua anima e lo ingabbiò in un vortice di perdizione e annichilimento. Neanche l'evasione nel paradiso esotico di Tahiti contribuì a risvegliare dal torpore un uomo, ancor prima di un cineasta, palesemente a disagio di fronte alle ingiustizie e alle ingratitudini del suo tempo, alle convenzioni sociali così morbosamente moralistiche e al tempo stesso prive di sentimento. Dolori impressi nella sua coerente weltanschauung e scolpiti in ogni pellicola da lui realizzata, nonostante la sua poliedricità lo abbia portato a dirigere generi differenti, dal primigenio horror (Nosferatu) al thriller (Il castello di Vogelod), dalla classica e universale storia d'amore (Aurora) al mèlo dalle forti tinte erotiche (Tabù), passando per il dramma in chiave Kammerspiel (L'ultima risata) o per la riproposizione espressionista di grandi opere letterarie (Faust).

L'incomunicabilità, l'isolamento, il desiderio (il più delle volte inappagato) di instaurare relazioni forti e autentiche nell'incedere di un'esistenza fallace ed effimera, hanno portato il regista a riversare sulla neonata arte cinematografica tutta la bellezza ma anche tutte le atroci verità che la stessa vita riserva. Pioniere di un romanticismo purpureo e cristallino, sperimentatore di tecniche innovative e fondamentali, Friedrich Wilhelm Plumpe, in arte Murnau, è l'antesignano di un cinema che unisce la febbrile pulsione umana al simbolismo esasperante della sciagura in atto.
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NOTE

[1] 8 Uhr Abendblattatte del 27 aprile 1931, in "Murnau", di Pier Giorgio Tone, Il Castoro, Firenze, 1977

[2] Per chi volesse approfondire tali questioni tecniche suggeriamo l‘ottimo volume di Paolo Cherchi Usai, Una passione infiammabile, UTET, Torino, 1991

[3] Tranne che per l'analisi delle due sequenze di film arrivate fino a noi, per i primi sei film di Murnau ci rifacciamo all'omonimo volume di Pier Giorgio Tone, op. cit.

[4] Ibidem, pag. 54

[5] I figli del dottor Caligari, Siegbert S. Prawer, Editori Riuniti, 1981, pag. 63

[6] cfr. "Il cinema muto - Un linguaggio universale", di Michel Marie, Lindau, Torino, 2007, pp. 25-27 e pp. 72-73.

[7] Miriam Hansen in "Babele e Babilonia - Il cinema muto americano e il suo spettatore", di Miriam Hansen, Kaplan, Torino, 2006, p. 165.

[8] cfr. "Lo schermo demoniaco", di Lotte H. Eisner, Editori Riuniti, Roma, 1983, pp. 144-145.

[9] Siegfried Kracauer in "Da Caligari a Hitler - Una storia psicologica del cinema tedesco", di Siegfried Kracauer, Lindau, Torino, 2001, p. 79. Per ulteriori illuminazioni e approfondimenti riguardanti il Faust murnauiano si veda anche l'opera scritta da Eric Rohmer, "L'organizzazione dello spazio nel Faust di Murnau", Venezia, Marsilio, 1985.

[10] "Ecco una notizia che farà rumore. Murnau, il grande regista di Faust e Aurora, si è arreso al film sonoro, adattando certe scene del suo ultimo film per la Fox, I quattro diavoli, al sistema Movietone, dove la colonna sonora è registrata simultaneamente sulla pellicola. Mentre girava il film, Murnau riservò il minimo spazio necessario, girando le scene in modo tale di lasciare spazio alla colonna sonora nel campo dell'immagine" (Le Courrier. 7 luglio 1928, da www.lost-films.eu).

[11] "Lost Films is a new internet portal aimed at collecting and documenting film titles, which are believed or have been declared lost" (www.lost-films.eu).

[12] Morando Morandini ne "Il Morandini. Dizionario dei film", Zanichelli, 2009.

[13] cfr. "Hollywood Babilonia. Vol. 1", di Kenneth Anger, Adelphi, 1979.

[14] cfr. "Murnau - Vita e opera di un genio del cinema tedesco", di Lotte H. Eisner, Alet Edizioni, 2010, p. 222.

BIBLIOGRAFIA

Paolo Cherchi Usai, Una passione infiammabile, UTET, Torino, 1991
Lotte H. Eisner, Lo schermo demoniaco, Editori Riuniti, Roma, 1983
Lotte H. Eisner, Murnau - Vita e opera di un genio del cinema tedesco, Alet Edizioni, 2010
Siegfried Kracauer, Cinema tedesco, Mondadori, Milano, 1977
Siegfried Kracauer, Da Caligari a Hitler - Una storia psicologica del cinema tedesco, Lindau, Torino, 2001
Siegbert Salomon Prawer, I figli del dottor Caligari, Editori Riuiti, Roma, 1981
Giovanni Spagnoletti (a cura di), Schermi germanici, Marsilio, Venezia, 1993
Pier Giorgio Tone, Murnau, Il Castoro, Firenze, 1977
Pier Giorgio Tone, Strutture e forme del cinema tedesco degli anni  Venti, Mursia, Milano, 1978
Eric Rohmer, L'organizzazione dello spazio nel Faust di Murnau, Venezia, Marsilio, 1985 

La prima fase della monografia (dal prologo al 1922) è a opera di Piero Calò. La seconda (dal 1923 all'epilogo) è a cura di Matteo De Simei. Si ringrazia per il prezioso contributo Sabrina Crivelli.





Friedrich Wilhelm Murnau