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Cineasta colto e versatile, detto anche il Truffaut statunitense, Bogdanovich è una delle personalità più complesse e sfaccettate del cinema Usa contemporaneo, esponente di spicco della New Hollywood e unico regista americano ad aver intrapreso la carriera di critico cinematografico

Introduzione. Identificazione di un autore

Nel suo film d'esordio, Peter Bogdanovich interpreta un giovane regista emergente, suo alter ego, che di fronte alla replica televisiva di una vecchia pellicola di Howard Hawks esclama: "All the good movies have been made". In queste poche parole, dal sapore di boutade, è possibile rintracciare e sintetizzare il senso di tutta la sua opera. Attore e regista teatrale, critico cinematografico sensibile alla politique des auteurs, cineasta colto e versatile, Peter Bogdanovich, classe 1939, newyorkese di origini europee, è una delle personalità più complesse e sfaccettate nel panorama del cinema americano contemporaneo. Le mutevoli fortune della sua altalenante carriera e la sovraesposizione mediatica della sua vita privata ne hanno offuscato in larga parte la statura professionale, tanto che oggi, a quarant'anni di distanza dai suoi più grandi successi, Bogdanovich sembra ormai dimenticato. Eppure negli anni 70 è stato un esponente di spicco della New Hollywood, la generazione di autori che, complice il clima di profondo rinnovamento culturale e politico dell'epoca, ha rivoluzionato l'industria cinematografica statunitense con film dal forte impatto sociale, caratterizzati dal ricorso a un linguaggio largamente influenzato dalle sperimentazioni delle nuove avanguardie europee.

In quegli anni, grazie a titoli quali Ma papà ti manda sola?, Paper Moon e L'ultimo spettacolo, la sua opera più conosciuta, Bogdanovich è riuscito a imporsi come autore popolare e di successo, ottenendo forti consensi da parte della critica accreditata e raggiungendo notevoli traguardi commerciali. Ma ancor prima della sua affermazione come cineasta, Bogdanovich si era imposto all'attenzione dell'industria culturale americana grazie alla prolifica attività di critico cinematografico, riuscendo a realizzare collaborazioni illustri, dal MoMA di New York alla rivista Esquire, e soprattutto pubblicando alcune celebri monografie sui più grandi maestri del cinema classico hollywoodiano quali, tra gli altri, John Ford, Howard Hawks e Orson Welles. Nel rapporto tra la sua attività critica e le successive prove registiche traspare il leit-motiv che caratterizza il percorso professionale di Bogdanovich: l'amore e l'interesse per il cinema del passato, con particolare riferimento ai maestri dell'epoca d'oro di Hollywood.

Teatro, cinema, critica. Gli anni della formazione


La carriera di Peter Bogdanovich prende avvio a metà anni 50, quando, mentendo sulla sua reale età, ottiene l'ammissione ai corsi di recitazione al Theater Studio di Stella Adler. Nello stesso periodo, ancora adolescente, scopre l'acclamato capolavoro di Welles "Quarto potere" (Citizen Kane, 1941) e, per la prima volta, in lui prende forma il desiderio di avvicinarsi di più al mondo del cinema e al ruolo del regista in particolare, di lì a poco assurto a elemento centrale della nascente politique des auteurs.
Grazie al teatro, Bogdanovich acquista quella specifica esperienza nella direzione degli attori che sarà una delle sue migliori qualità di regista, mentre per mezzo della critica cinematografica, concepita particolarmente come conoscenza e studio del cinema passato, pone le premesse del suo stile e del suo futuro progetto registico.

Nel 1959 esordisce come regista teatrale con lo spettacolo off-Broadway "The Big Knife" di Clifford Odets. Il buon successo della pièce gli permette di continuare l'esperienza in teatro, tanto che nel 1961, durante la stagione estiva, dirigerà a Phoenicia ben quattro commedie. Negli stessi anni, si applica sempre più intensamente all'attività di critico cinematografico, che tuttavia considera ancora come uno strumento per colmare i suoi appetiti di cinefilo. Del 1960 sono la sua prima intervista all'emergente Sidney Lumet e le collaborazioni con testate quali l'Ivy Magazine, Frontier e il Village Voice. Inizia anche a scrivere le schede illustrative della programmazione del New Yorker Theatre, una piccola sala d'essai gestita dal critico e intellettuale Dan Talbot. Ben presto, grazie all'amicizia con Talbot e con altri critici come Andrew Sarris ed Eugene Archer, che lo introdurranno alle nuova corrente critica della politique des auteurs, gli viene affidata l'organizzazione dei alcuni cicli di cineforum intitolati The Forgotten Film.

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Ma è il 1961 a rappresentare simbolicamente un punto di svolta nella vita professionale di Bogdanovich. Innanzitutto, durante quest'anno avviene il suo primo vero incontro con Hollywood. Partito per conoscere l'autore Clifford Odets e convincerlo, com'era già avvenuto in passato, a cedergli i diritti di una nuova commedia, Bogdanovich coglie l'occasione per stringere una nuova collaborazione giornalistica con Robert Silvers, direttore di Harper's Magazine, che gli affida un articolo sulla "città del cinema". Grazie a questo prezioso incarico, nelle due settimane di permanenza, Bogdanovich riesce a rintracciare, tra gli altri, Alfred Hitchcock, James Stewart, Walt Disney, John Wayne, Jerry Lewis, Billy Wilder, Cary Grant, Humphrey Bogart, John Struges, Jack Lemmon, George Stevens, William Wyler.
Le sue interviste, a volte brevi, altre volte più approfondite, vengono condensate in una monumentale raccolta di settanta pagine dal significativo titolo Notes on a Maiden Voyage. Rifiutato sia da Harper's Magazine che da The Atlantic Monthly, il pezzo verrà infine pubblicato da Esquire con qualche considerevole taglio. L'articolo, intitolato Talkies (che in inglese significa sia "chiacchierate", sia, in gergo, anche "film sonori"), segna l'inizio di una lunga e proficua collaborazione: da quel momento, fino al 1973, Bogdanovich scrive per Esquire originali ritratti di numerosi attori e registi americani e cura la rubrica Holly Food.

La seconda grande occasione del 1961 per l'autore è rappresentata dal MoMA di New York, il cui curatore Richard Griffiths gli commissiona una breve monografia di Orson Welles in occasione della retrospettiva organizzata dal museo newyorkese. Nasce così The Cinema of Orson Welles (1961), il primo contributo critico compiuto e rilevante della carriera di Bogdanovich. Nella sua monografia, un saggio di una quindicina di pagine, emergono già alcuni tratti stilistici della sua attività critica, come l'attenzione alla figura umana del regista e la curiosità per gli aspetti tecnici della lavorazione di un film. La collaborazione con il MoMA continua con le retrospettive dedicate a due altri grandi Maestri del cinema americano, Howard Hawks e Alfred Hitchcock, da cui nasceranno rispettivamente i volumi The Cinema of Howard Hawks (1962) e The Cinema of Alfred Hitchcock (1963).
A questi testi il merito di aver divulgato un pensiero critico (quello della politique des auteurs) ancora poco condiviso negli anni 60 in ambito statunitense, aiutando a conoscere o a riscoprire una serie di autori classici ingiustamente dimenticati e trascurati dalle mode dell'epoca. Questa attitudine segnerà anche le prime regie di Bogdanovich degli anni 70.

Corman e l'apprendistato a Hollywood

Ormai deciso a dedicarsi alla regia cinematografica, Bogdanovich fa suo il consiglio dell'amico regista Frank Tashlin che lo sprona a trasferirsi a Los Angeles, dove diventa presto uno dei promettenti talenti della scuderia di Roger Corman e della sua celebre casa di produzione American International Pictures (AIP).
Regista e produttore eccentrico, Corman è tra i primi ad aver intercettato i gusti del nuovo pubblico adolescente la cui crescita nel secondo dopoguerra aveva permesso alle compagnie indipendenti di inserirsi nel mercato con film a basso budget. Con le sue regie Corman ha dunque definito i canoni del nuovo cinema giovanilistico, ma la sua importanza storica è da ricercare più nell'attività di produttore che in quella di regista: da Coppola a Demme, da Hellman a Scorsese, hanno lavorato per lui alcune delle migliori leve della riscossa cinematografica statunitense dei 70 nota con il nome di New Hollywood.

La AIP commissiona a Bogdanovch un dramma, scritto a quattro mani con la moglie Polly Platt, sull'occupazione in Polonia. La pellicola non vedrà mai la luce, ma fornisce a Bogdanovich l'occasione di collaborare al film che Corman sta costruendo sulla banda degli Hell's Angels, teppisti motorizzati che turbarono l'opinione pubblica statunitense con le loro azioni violente e gli accessori (spille, elmetti) filonazisti. È un'esperienza particolarmente faticosa e proficua per il principiante Bogdanovich: un vero e proprio apprendistato. E lui, fedele alla curiosità che lo aveva sorretto anche nei suoi primi scritti da critico, sfrutta l'opportunità per carpire qualche consiglio al veterano Corman e farne tesoro.

Soddisfatto del vivace contributo di Bogdanovich alla lavorazione de "I selvaggi" (The Wild Angels, 1966), Corman non esita a coinvolgerlo nel suo progetto successivo e lo incarica di rimaneggiare un film sovietico di fantascienza di Pavel Klushantsev, "I sette navigatori dello spazio" (Planeta Bur, 1962), per la distribuzione Usa. Per renderlo più attraente dal punto di vista commerciale, Bogdanovich è costretto a inserirvi l'elemento femminile, del tutto assente nell'edizione originale. Scrittura dunque la bionda maggiorata Mamie Van Doren e gira alcune scene aggiuntive che lega poi al materiale originale russo con un espediente drammaturgico tanto ingegnoso quanto futile. Firma così, rigorosamente nascosto dallo pseudonimo di Derek Thomas, la regia di quello che diventerà "Voyage to the Planet of Prehistoric Women" (Id., 1968).
Per quanto compromettente e mortificante, questo esercizio di assemblaggio gli permette di arrivare a dirigere il suo primo, vero lungometraggio: Bersagli (Targets, 1968).

Bersagli
. Il debutto alla regia

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L'accordo con Corman prevede che, terminato il lavoro per "I selvaggi" e "Voyage to the Planet of Prehistoric Women", Bogdanovich possa affrontare la preparazione del suo primo film, pur sotto alcune rigide condizioni. Oltre al budget contenuto di 130.000 dollari, Corman impone a Bogdanovich di girare l'intero film entro il limite massimo (che poi verrà trasgredito) di soli undici giorni e di coinvolgere nella produzione l'anziano attore Boris Karloff, il celebre Frankenstein di celluloide, ancora legato alla AIP da una clausola contrattuale.
Bogdanovich, deciso a non farsi sfuggire questa occasione, riesce a coniugare esigenze produttive e aspirazioni artistiche. La soluzione brillante, che aiuta a capire il vero assunto del film e svela la natura di fine cinefilo del suo autore, è quella di inserire una componente metalinguistica che assume rilevanza preponderante. È una scelta che permette di inserire Bersagli in un progetto registico armonico e unitario, che Bogdanovich svilupperà coerentemente durante tutti gli anni 70.
Distribuito dalla Paramount nell'agosto 1968, Bersagli impressiona la critica soprattutto per la sua capacità di generare tensione e suspense tali da consentire a più di un giornalista (Variety, Film Quarterly, Sight & Sound...) di accostare il nome di Bogdanovich a quello di Hitchcock. Inoltre, Bersagli colpisce anche per i suoi rimandi diretti alla realtà contemporanea statunitense (la sparatoria all'University of Texas, gli omicidi dei fratelli Kennedy e di Martin Luther King), anche se il regista rifiuta la definizione di "film di denuncia" sul possesso delle armi da fuoco. Bersagli vuole piuttosto mettere in relazione "l'orrore reale" con "l'orrore cinematografico", per instaurare un rapporto di causa ed effetto tra la vita e il cinema, tra la realtà violenta e la fine di un certo genere filmico. Bogdanovich non realizza un pamphlet politico, bensì, da vero amante e cultore del mezzo cinematografico, affida la potenza del suo messaggio alla precisione della messa in scena, alla finezza del ritratto psicologico dei suoi personaggi e all'esattezza dei meccanismi del racconto.
Cerca soprattutto di rovesciare il qualunquistico giudizio secondo cui il sangue e l'orrore cinematografico sarebbero la principale causa della criminalità e della violenza sociale. È proprio questo il commento che fa il giovane assassino Bobby (interpretato da Tim O'Kelly) mentre racconta alla famiglia di essersi imbattuto, quella mattina, nel celebre attore Byron Orlok (alter ego di Boris Karloff).
Bersagli è costruito dunque sulla continua interferenza tra cinema e realtà, di cui Orlok e Bobby rappresentano i due poli opposti, fino alla loro confluenza e contaminazione definitiva nel finale del film. Bobby, rifugiatosi dietro lo schermo del drive-in dove si sta proiettando il più recente lavoro di Orlok, spara sul pubblico seminando panico e confusione. Quando, scoperto, è costretto a lasciare il suo nascondiglio, viene affrontato da Orlok che avanza deciso verso di lui in direzione parallela e contraria rispetto a quella della sequenza proiettata in quel momento sullo schermo del drive-in. Bobby, frastornato, vede venirgli incontro un doppio Orlok, quello cinematografico e quello reale: le due immagini si sovrappongono, si confondono nella sua testa e diventano delirio, costringendolo a cedere atterrito.
È attraverso questo ribaltamento delle prospettive e la condanna dei falsi valori dell'edonismo che Bogdanovich arriva a confrontarsi con il genere horror, uno dei più durevoli e prolifici della storia del cinema. Amaramente, ne contempla la fine: l'orrore ormai è uscito dallo schermo e ridimensiona la statura mitica dei protagonisti di celluloide (si pensi al personaggio autobiografico di Karloff/Orlok).
La riflessione sui generi cinematografici, qui ancora acerba, segnerà tutte le successive tappe della sua carriera: agli stimoli della sua contemporaneità Bogdanovich preferisce il passato e in particolare il passato cinematografico. Questo, palese nel personaggio interpretato da Boris Karloff, traspare chiaramente da un certo gusto per l'omaggio e per la citazione che sarà una caratteristica imprescindibile delle sue regie.

Bogdanovich regista critico

Il post-Bersagli non è per Bogdanovich un momento particolarmente fruttuoso. A parte il documentario televisivo The Great Professional: Howard Hawks (Id., 1967), che realizza per la Bbc, gli sfuma la possibilità di collaborare con il regista Sergio Leone sul set di "Giù la testa" (Id., 1971). I tardi anni 60 sono però anni di grande fermento per la sua attività di critico e studioso cinematografico. Dopo le pubblicazioni newyorkesi dedicate a Hawks, Hitchcock e Welles, tra il '67 e il '70 Bogdanovich dà alle stampe tre nuove monografie che confermano la sua fama di appassionato conoscitore della storia del cinema e profondo amatore, in particolare, di quello classico hollywoodiano e dei suoi autori. In Allan Dwan: The Last Pioneer (1970) si concentra su uno dei più prolifici e sottovalutati registi del muto (e non solo), ripercorrendo indirettamente la storia delle origini del cinema americano. Con Fritz Lang in America (1969), titolo eloquente delle intenzioni dell'autore, cerca invece di sviluppare la tesi secondo cui i film della maturità americana del famoso regista tedesco sono migliori, o quantomeno più rilevanti, delle sue opere espressioniste di inizio carriera: ribalta così la tradizionale visione critica affermando che la vocazione popolare intrinseca del cinema americano amplifica e rafforza le tematiche su cui il vecchio Maestro ha sempre ragionato nel corso della sua lunga carriera.
Questa inossidabile fede nel cinema americano, lo porta ad approcciarne una delle figure più forti e carismatiche, pilastro dell'industria hollywoodiana ed emblema della classicità stessa: John Ford, a cui dedica la monografia omonima John Ford (1967, espansa poi nel 1978). Come già per Lang, anche con questo lavoro Bogdanovich cerca di smentire l'idea diffusa di un progressivo decadimento attribuito dalla critica ufficiale alla parabola professionale di Ford. Al contrario, John Ford vuole mostrare come nei suoi ultimi film emergessero una maturità espressiva e una profondità tematica inedite ancora latenti nelle opere giovanili.

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Alla figura complessa e sfaccettata di questo cineasta, Bogdanovich dedica anche un documentario. Prodotto dall'American Film Institute e dalla California Arts Commission, Diretto da John Ford (Directed by John Ford, 1971) si apre e si conclude sulla doppia immagine speculare di John Wayne che varca la porta di "Sentieri selvaggi" (The Searchers, 1956): quando l'attraversa per riportare a casa la ragazza rapita e quando la lascia alle sue spalle, allontanandosi, solo, verso le assolate vallate del vecchio West. Quella porta si apre (e si chiude) sul mondo di Ford e sulla sua visione di un cinema ormai consegnato alla storia. Il film è infatti composto da brani selezionati tra le opere più rappresentative dell'anziano regista, intramezzati da interviste allo stesso Ford e ad alcuni degli attori suoi assidui collaboratori: Henry Fonda, James Stewart e John Wayne.
Diretto da John Ford riesce a superare i limiti del film di montaggio, dell'antologia compilativa, grazie alla sensibilità ragionata con cui Bogdanovich approccia e accosta i materiali raccolti, riuscendo così a conferire all'opera la dignità e l'intensità espressiva di un film d'autore.
Diretto da John Ford è una pellicola densa di ammirazione e di affetto verso uno dei più grandi Maestri del cinema hollywoodiano. Ma, oltre al ritratto umano di una personalità certamente non banale, Bogdanovich riesce anche ad approfondire una lettura teorica delle opere di Ford, costruendo un vero e proprio studio critico attraverso le immagini dei suoi stessi film. Evidenzia, per esempio, come tutti i film di Ford presentino sempre le vicende personali dei personaggi principali in una prospettiva storica, che valorizza il contesto sociale nel quale essi si muovono. L'eroe fordiano è solitamente un uomo solo, proiettato sullo sfondo di eventi più grandi di lui: per questo la Storia raccontata da Ford è spesso fatta di sconfitte e di fallimenti, oltre che di gloria. È questa singolare visione poetica che permette a Bogdanovich di leggere (e di presentarci) l'intera filmografia del grande maestro americano come un'opera unica, che esprime con coerenza e sensibilità il suo punto di vista sulla Storia.

Un anno più tardi, Bogdanovich è chiamato a realizzare un breve filmato per l'annuale cerimonia degli Academy Awards, in occasione dell'Oscar alla carriera dedicato a Charles Chaplin. Il risultato, Chaplin Montage (Id., 1972), una piccola antologia di 14 minuti dei titoli più rappresentativi della carriera del grande comico, ripercorre la strada già intrapresa con Diretto da John Ford.

Con queste due opere, Bogdanovich si affranca definitivamente dall'etichetta di critico e intraprende più esplicitamente la strada del regista, sebbene l'attività di critico e di storico del cinema, o meglio di "divulgatore", continuerà a dare frutti - basti citare brevemente le ricche raccolte Who the Devil Made It (1997) e Who the Hell's in It (2004), il delicato fascicolo A Moment with Miss Gish (1995) e, naturalmente, la strabordante, formidabile, fulminante intervista-fiume con l'amico Orson Welles riportata in This is Orson Welles (1992), uno dei contributi più pregevoli e stimolanti della recente storia del cinema.
Chaplin Montage e soprattutto Diretto da John Ford, segnano quindi un passaggio cruciale nel destino professionale di Peter Bogdanovich.

L'ultimo spettacolo
. Mito, cinema, realtà

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Lo spunto per la seconda regia arriva, quasi inaspettato, dall'amico attore Sal Mineo, che consiglia a lui e alla moglie Polly Platt la lettura del romanzo The Last Picture Show di Larry McMurty. Bogdanovich rimane affascinato da questo racconto corale su un mondo in disfacimento, immagine amara di un'America di provincia intrisa di dolore che fa pensare alle pagine di Cecchi, Pavese, Vittorini. Nasce così L'ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971).
Texas, anni 50. Nella misera cittadina di Anarene, gli amici Sonny e Duane passano le giornate tra noiose lezioni a scuola, maldestri approcci amorosi, bevute al bar e qualche film di tanto in tanto. A creare scompiglio, contesa e invidiata, c'è la bella Jacy: borghese di nascita, alla continua ricerca di avventure e distrazioni, è la volubile reginetta della scuola, che nel suo percorso per diventare donna agisce in maniera scostante e dispotica, senza curarsi troppo delle altre persone. Lascia il fidanzato proletario Duane per inserirsi nel mondo dei ricchi, ruba l'amante alla madre, ghermisce e poi respinge l'ingenuo Sonny (che per questo litigherà ferocemente con l'amico), per sparire infine alla volta di un autorevole college lontano dal Texas.
Per questi ruoli, Bogdanovich sceglie tre volti nuovi del cinema americano: Timothy Bottoms, Jeff Bridges e la debuttante Cybill Sheperd, che poi diventerà musa e amante del regista. Intorno a loro, si muove anche un gruppo di adulti, il cui ritratto vivo e dolente si impone per profondità ed efficacia. Colpisce, infatti, la ricchezza di sfumature, la finezza di scrittura e la sottile caratterizzazione psicologica di ogni personaggio, seppure costretto in poche battute o sporadiche apparizioni.
C'è innanzitutto Sam il Leone (interpretato dall'attore fordiano Ben Johnson), fulcro della comunità di Anarene e simbolo di una vecchia America destinata a scomparire. Ci sono poi una serie di ritratti femminili di rara intensità e toccante umanità: Ruth Popper (Cloris Leachman), moglie mortificata dell'insegnante di ginnastica che nel suo stato di annichilente crisi trova un contatto con il giovane Sonny; la cameriera Genevieve (Eileen Brennan, figlia dell'attore fordiano Walter Brennan), dotata di un pratico buon senso e di uno spiccato sentimento materno, ma schiacciata dal peso del rimorso per un passato sfortunato; infine Lois (Ellen Burstyn), la madre di Jacy, casalinga disperata ante litteram, che vive una vita di insoddisfazioni e non può far altro che consolarsi con il ricordo di un amore passato. E ancora molto si potrebbe scrivere sulla madre isterica della bambina rapita, sulla premurosa ma inadatta cassiera del cinema, sul rude e indolente seduttore Clu, sull'innocente Billy.
Il fondamento di quest'opera seconda del regista americano è la necessità di poter riprodurre fedelmente l'atmosfera esatta di un'epoca, focalizzarne con puntualità e sentimento gli umori e i colori, per poi tradurli, forma e contenuto, in simbolo attraverso gli strumenti propri del linguaggio-cinema.
Con la sua folgorante fotografia in bianco e nero (di Robert Surtess), la grana grossa, le lente dissolvenze a chiusura di molte sequenze, gli ammiccamenti alle canzonette d'epoca e a certi costumi degli anni 50, L'ultimo spettacolo emana un senso di autenticità tale da indurre uno spettatore sovrappensiero a convincersi, come è realmente successo al filosofo Baudrillard, di trovarsi davvero di fronte a una pellicola prodotta in quegli anni. Bogdanovich ripropone temi, personaggi, stili e situazioni tipici del cinema classico hollywoodiano, ma attraverso l'assunzione totale di quel modello linguistico, compie in realtà una critica del significato tradizionalmente attribuito ad esso: smaschera lo spessore fantastico della rappresentazione esaltandone, al contrario, la carica presenziale secondo un procedimento che presenta molti crismi dell'avanguardia.
In un mondo sommerso dalle immagini, il tentativo è quello di investigare in profondità il cinema stesso, la sua natura, le sue potenzialità e soprattutto il suo ruolo (anche sociale). Nell'intento di spingere lo spettatore a considerare criticamente gli anni 50, fuori cioè dal ricatto sentimentale, Bogdanovich si serve di un linguaggio (apparentemente) tradizionale, avvalendosi di soluzioni tecniche e formali "datate" e riproponendo prototipi e costanti psicologiche di una certa narrativa americana.
I protagonisti di questa epopea esistenziale, dalla maliarda Jacy al vecchio leone Sam, dal giovane recalcitrante Sonny al "ragazzo semplice" Billy, riprendono infatti pose e atteggiamenti tipici dei film del passato, ricalcano gli archetipi di una certa letteratura classica (che sarà una peculiarità delle seguenti regie di Bogdanovich, da Paper Moon a Daisy Miller). Il risultato finale, però, non può che essere di segno opposto perché l'autore elimina con consapevole durezza la dimensione mitologica di questi personaggi per sostituirla con la rappresentazione di una realtà che di mitico e favoloso non ha mai avuto nulla. Al di là della sua adulterazione mitica, infatti, questa realtà si presenta in tutta la sua miseria. La vita di una piccola cittadina nel profondo Texas degli anni 50 non è che la triste cronaca di meschini adulteri, banali tresche giovanili, affetti interrotti, fughe incerte, aspettative tradite: la dolorosa registrazione di un panorama di fallimenti, di delusione e di inanità che gli abitanti del paese cercano di superare. A poco servono le feste audaci, il petting spinto, le gite oltrefrontiera o gli amorazzi extraconiugali contro la grigia mediocrità del quotidiano: tutto è appiattito in un desolante orizzonte di noia.
Con intenzioni di critica e di demistificazione dell'immagine, il film affronta, rovesciandoli, i due temi fondamentali del cinema hollywoodiano: "la rispettabilità della morale borghese" e il "mito della frontiera", esemplificati dai due film proiettati al Royal Theatre, l'unica sala cinematografica cittadina: "Il padre della sposa" (Father of the Bride, 1950) di Vincent Minnelli e "Il fiume rosso" (Red River, 1948) di Howard Hawks. Ecco dunque come "Il padre della sposa", e più in generale il cinema sentimentale hollywoodiano, offre ai giovani di Anarene un modello ideale di felicità e soddisfazione cui tendere attraverso l'istituzione matrimoniale, cioè l'esaltazione quotidiana di una rettitudine perbenista e borghese. Ma al tono idilliaco del prototipo cinematografico, fanno da contraltare gli amori falliti, i rapporti improbabili e le frustrazioni della vita coniugale che Bogdanovich mette in scena con impietosa limpidezza.
Il film "Il fiume rosso" è forse ancora più significativo dell'operazione critica intrapresa da Bogdanovich: distruggere il mito attraverso il cinema. E lo è specialmente perché eleva a termine di paragone un western, un genere cioè che è stato la bandiera dell'americanismo, dell'ideologia espansionistica della frontiera, della celebrazione della storia Usa, del falso pionierismo e dell'avventura. In questo senso, la figura più rappresentativa di tutto il film è Sam il Leone, in cui confluiscono i falsi miti dell'uomo del West. Sam ricorda, in un certo senso, lo sceriffo d'altri tempi, che veglia sulla tranquillità del villaggio e interviene per ristabilire l'ordine sociale o per sanare un'ingiustizia. È l'autorità morale attorno a cui si stringe tutta la comunità. E infatti sua è la sala da biliardo, come anche il Royal Theatre e la tavola calda, i centri della vita cittadina che assumono la stessa funzione sociale dell'antico saloon. Ma Bogdanovich insinua delle incrinature nel ritratto di questo integerrimo eroe positivo, ne ridimensiona la statura mitica: la sua vecchiaia e la sua solitudine non sono quelle dell'eletto (come ne "La ballata di Cable Houge"), bensì del fallito (come ne "I compari"). Emblematici sono, per esempio, il suo rammarico per i tempi andati (l'amore per Lois, il lago che sta scomparendo) ma anche l'inerzia e l'incertezza verso il futuro. Persino la sua morte, così repentina e nascosta agli occhi dello spettatore, simbolo di una vecchia America che se ne va, dà l'idea di una vita che è stata continuamente un'occasione sprecata. Analogamente, il grido dei mandriani e la dimensione epica de "Il fiume rosso" appartengono solo allo schermo, e per di più allo schermo di un cinema che sta chiudendo i battenti.

L'ultimo spettacolo
diventa dunque un canto sulla morte del cinema, reso con particolare efficacia nella sequenza finale: all'immagine di Ruth e Sonny che si stringono le mani in un tacito patto di sostegno, Bogdanovich sovrappone una panoramica (uguale e opposta a quella d'apertura) della squallida Anarene su cui troneggia il Royal Theatre. Ma questa volta il cinema è chiuso, non ha più né insegne né cartelloni.  Il film ripercorre quindi, allo stesso tempo, la fine di un'epoca, di un mito, e soprattutto del vecchio grande cinema americano.
Girata nei mesi a cavallo tra il 1970 e l'anno successivo, la pellicola viene presentata al pubblico per la prima volta il 3 ottobre 1971 a New York, nel contesto del IX New York Film Festival. Dopo il plauso dei critici, ottiene ottimi riscontri negli Stati Uniti e in alcuni paesi d'Europa. Il successo viene coronato infine da un numero impressionante di premi e riconoscimenti, tra cui 8 nomination agli Academy Awards, inclusi regia e sceneggiatura per Peter Bogdanovich. Cloris Leachman e Ben Johnson, grazie ai loro vibranti ritratti di Ruth e Sam il Leone, riescono ad aggiudicarsi l'ambita statuetta come migliori interpreti non protagonisti.

Omaggio critico. Un discorso sui generi

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Nella sua attività registica, Bogdanovich sceglie dunque di concentrarsi sul cinema del passato, ripercorrendolo nei suoi temi, nei suoi miti e nelle sue forme, con particolare attenzione ai maestri dell'epoca d'oro di Hollywood. L'autore attua un preciso disegno di rivisitazione critica del cinema (il cinema che ama) e dei miti a esso connessi, mettendo in discussione la portata epica dell'immaginario da essi prodotto.
Strumento principe del suo progetto è la citazione: l'autore rivela la natura cinefila e metalinguistica del suo cinema, compiendo una scrupolosa ricerca sulla storia del suo paese e arrivando conseguentemente a un radicale ripensamento del cinema da esso prodotto. È il cinema della post-modernità, estetico ancor prima che etico, che si basa sostanzialmente sulla pratica della citazione, ripetizione o riscrittura, e che sfocia in una rivisitazione più o meno ironica del già detto, nella consapevolezza dell'impossibilità di dire qualcosa di assolutamente nuovo. Il passato diventa quindi filtro per leggere una contemporaneità tesa e problematica, mentre il cinema assurge a strumento di mediazione critica per una rappresentazione consapevole.
Alla ricerca del giusto equilibrio tra tributo elegiaco e distanza critica, Bogdanovich decide di strutturare le sue regie seguendo la formula del cosiddetto "omaggio critico", dove l'omaggio non rappresenta un'adesione al modello, bensì una critica: il suo non è "cinema della nostalgia". Al contrario, ripensare il mito, trasgredendone le regole e mettendone in discussioni le componenti, significa, in definitiva, distruggerlo.
I suoi film rivelano, più o meno esplicitamente, l'influsso dei registi a cui ciascuna opera tributa il proprio "omaggio": da Hawks a Lubitsch, da Ford a Hitchcock, passando per Busby Berkeley, George Cukor, Frank Capra e perfino David W. Griffith. Bogdanovich dimostra di aver saputo raccogliere il patrimonio artistico e culturale dei grandi maestri del cinema hollywoodiano e di averlo rielaborato e riproposto con la puntualità e la precisione di un vero autore. Questa attitudine, che emerge preponderante già nei suoi interventi critici degli anni 60, trova conferma nelle regie degli anni 70: un corpus di opere compatto e coerente, che costituisce una sorta di "omaggio critico" al cinema di Hollywood e all'immaginario iconografico (o mitologico) ad esso legato. È proprio questo approccio mediato e colto, da cinefilo puro, a infondere unitarietà e coerenza alla sua opera e a fare di Peter Bogdanovich, unico critico passato alla regia di tutto il cinema americano, un autore intrigante e singolare.

Il ritmo del successo. Ma papà ti manda sola? E Paper Moon

Dopo il notevole successo de L'ultimo spettacolo, Bogdanovich si appresta a girare un film che sembra porsi agli antipodi rispetto all'amara pellicola che lo ha imposto all'attenzione di pubblico e critica. Ma papà ti manda sola? (What's Up, Doc?, 1972) è infatti una bizzarra ed eccentirca screwball comedy la cui spensierata gaiezza sembra contraddire la grevità della parabola morale descritta ne L'ultimo spettacolo. In realtà, lo stesso spirito critico ne è alla base.
Dopo l'horror e il western, con questo film Bogdanovich arricchisce il suo percorso metalinguistico attraverso i generi del cinema classico hollywoodiano, approcciando per la prima volta la commedia e riproponendosi, con coerenza, di fare il verso ai maestri del genere. Il maggiore pregio e paradossalmente anche il più forte limite di Ma papà ti manda sola? è proprio il suo continuo gioco metalinguistico e citazionista, che gli conferisce l'ambizione e la freddezza di un saggio sul comico: le allusioni ai modelli cinematografici di riferimento, da Capra a Lubitsch, da Leo McCarey a Keaton e Chaplin, davvero non si contano.
Il frizzante rapporto tra la stravagante Barbra Streisand e l'impacciato Ryan O'Neal sembra ricalcato sull'esempio delle coppie protagoniste di "Lady Eva" (The Lady Eve, 1941) e del celebre "Susanna" (Bringing Up Baby, 1938), di cui è ripreso per buona parte anche l'intreccio. Ci sono poi espliciti riferimenti alla comicità di Buster Keaton (la corsa del drago cinese, il camioncino sfasciato, l'abile gioco delle porte), e tributi al cinema di Frank Capra (la scena del tribunale) o a "Bullitt" (Id., 1968) di Peter Yates (il lungo, rocambolesco inseguimento per le vie di San Francisco). E ancora ammiccamenti alla comicità assurda e liberatoria di "Helzapoppin" (Henry Potter, 1941), il gusto per le battute nonsense dei fratelli Marx, le gag parossistiche in stile "Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo" (Stanley Kramer, 1963). Fino alla parodia esplicita di "Love Story" (Id., 1970), a cui O'Neal, lanciato proprio da quel film, fa il verso con smaliziata ironia, e all'omaggio altrettanto esplicito (si veda il titolo originale What's Up, Doc?) alla comicità slapstick dei Looney Tunes.

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Ma papà ti manda sola? è dunque per Bogdanovich l'occasione di riscoprire e praticare il comico, percorrendo, sempre con mente critica, un ricco viaggio attraverso tutte le sue diverse forme ed espressioni cinematografiche. Dopo aver scarnificato, impietosamente, i miti della frontiera e dell'espansionismo americano legati all'iconografia del western, Ma papà ti manda sola? conduce un'indagine più approfondita sulla portata ideologica della commedia, già accennata ne L'ultimo spettacolo con il riferimento all'idillio familiare di Elizabeth Taylor ne "Il padre della sposa".
Nello svelare i meccanismi che presiedono all'intero congegno comico, il regista riesce a mettere in luce le componenti ideologiche della commedia leggera americana, come la mistificazione della realtà e la misoginia latente da cui prende corpo l'inesauribile lotta tra i sessi in una caotica e divertente giostra di furti, rapimenti, seduzioni, equivoci, rapine, inseguimenti, imbrogli e arrivismi (si ricordino le "commedie rosa" di Doris Day).
Sostenuto da un buon battage pubblicitario e dalla fama dei due protagonisti, Ma papà ti manda sola? ottiene al botteghino 66 milioni di dollari nei soli Stati Uniti, piazzandosi al terzo posto nella classifica dei migliori incassi del 1972. Questo stupefacente successo commerciale, oltre alla confermata stima da parte della stampa, permette a Bogdanovich di entrare in società con i movie brats Francis Ford Coppola e William Friedkin fondando la Directors Company e diventando a tutti gli effetti produttore di se stesso.

Nasce così Paper Moon - Luna di carta (Paper Moon, 1973), che riprende il medesimo approccio al cinema e alla storia de L'ultimo spettacolo e si configura a tutti gli effetti come un meta-film, uno studio sul lingaggio del cinema. E, ancora una volta, lo strumento principe di questo studio è la citazione. In Paper Moon la ricostruzione e la messinscena sono fedeli e filologicamente ineccepibili: per tessere questo racconto on the road attraverso l'America della Grande Depressione, Bogdanovich attinge a piene mani al repertorio di tipi e stereotipi propri del cinema dell'epoca. Si pensi al camion di farmers fermo sul ciglio della strada che rimanda a "Furore" (The Grapes of Wrath, 1940) di John Ford oppure alla caratterizzazione vivace del portiere dell'hotel sull'impronta del divo Dick Powell.
Con questa pellicola, Bogdanovich, mitigando da un lato la sconfortante amarezza di cui era permeato L'ultimo spettacolo e dall'altro evitando la spensierata vacuità di Ma papà ti manda sola?, porta a compimento un nuovo ritorno al cinema del passato grazie a una narrazione garbatamente ironica e di facile presa, costruita attorno a una strana coppia di outsider mossi da scanzonata furbizia e sincera, reciproca tenerezza.
Bogdanovich si rifà dunque al filone comico prodotto e diffuso con successo da Hollywood negli anni 30, agli schemi fortemente consolidati del genere, con la sua portata di spregiudicatezza, personaggi bizzarri, caratteri stereotipati e ingenuità rassicurante. Il riferimento più esplicito è quello alle favole politiche di Frank Capra, da "Accadde una notte" (It Happened One Night, 1934) a "È arrivata la felicità" (Mr. Deeds Goes to Town, 1936) e "Mr. Smith va a Washington" (Mr. Smith Goes to Washington, 1939). Per restituire lo spirito di quell'epoca e del suo cinema, Bogdanovich rinverdisce la tradizione dei "truffatori rispettabili" comune a tante scanzonate commedie del periodo, rende omaggio al carisma plateale di un'infanzia mitologica, geograficamente situata fra Jackie Cooper e Shirley Temple e, ancora, adotta come struttura narrativa il tema del viaggio, tòpos caro a larga parte della tradizione letteraria americana.
Naturalmente, come sempre nel suo cinema, la riproposizione del passato non vuole essere entusiastica, contemplativa o nostalgica, né potrebbe davvero esserlo dato che il regista non si esprime con l'emozione di chi ha vissuto bensì con la conoscenza di chi ha studiato. Bogdanovich opera dunque attraverso il procedimento del ricordo, inteso qui come ripensamento e mediazione di miti e stereotipi acquisiti. Questo approccio risulta evidente nel ritratto della bizzosa Addie, sorta di Shirley Temple al negativo, vezzosa e calcolatrice, cui la giovanissima Tatum O'Neal, premiata con l'Oscar per questo ruolo, dona malizia e simpatia. La sua Addie, spogliata delle abituali virtù di puritano perbenismo, è sottratta al limbo caramelloso cui sarebbe appartenuta la protagonista di una vera commedia anni 30. In questo modo, attraverso il suo personaggio, Bogdanovich riesce a tradurre in satira una certa mentalità che attribuisce al bambino sentimenti di ingenuità e di purezza: un discorso che allude direttamente all'America, nazione giovane, e al mito della sua falsa innocenza, approfondito poi in Daisy Miller (Id., 1974).

La caduta. Daisy Miller e Alla fine arrivò l'amore

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Visto il successo di Paper Moon, la Paramount offre a Bogdanovich la possibilità di girare il sequel della pellicola. Il regista declina e decide invece di architettare un perfetto veicolo divistico per l'attrice Cybill Sheperd, che dopo L'ultimo spettacolo è diventata la sua compagna di vita. La scelta ricade sul romanzo breve Daisy Miller, pubblicato da Henry James nel 1878, nel quale, attraverso la tragica parabola dell'omonima eroina, si descrive il contrasto tra la giovane e innocente America e la corrotta Europa. Il film viene letto come un segno di discontinuità nel progetto registico di Bogdanovich e i critici mal digeriscono il cambio di tono e di prospettiva del regista. Inoltre, pesa sul giudizio l'annoso contenzioso tra letteratura e cinema, tra fedeltà alla pagina scritta e originalità dell'adattamento.
Ma alla luce del percorso che Bogdanovich traccia, con chirurgica precisione, all'interno dei miti prodotti dalla cultura americana (e soprattutto dal cinema), Daisy Miller, opera anomala, trova la sua coerente collocazione nella filmografia del regista. La vicenda di Daisy, giovane americana anticonformista vittima dell'ipocrisia puritana dell'aristocrazia del vecchio continente, assurge infatti a simbolo del mito dell'innocenza originaria del "mondo nuovo", contaminata dalla civiltà malata della vecchia Europa. Un tema, quello della purezza giovanile, già presente in Paper Moon che qui, grazie a una nuova collocazione storica e geografica, diventa estensione del mito della frontiera affrontato ne L'ultimo spettacolo.
Con il suo atteggiamento sventato, la provinciale Daisy, ingenua e vivace, franca e capricciosa, si contrappone a un rigido sistema di codici etici e convenzioni formali che non le appartengono. Incarna altresì lo scontro tipicamente jamesiano tra volgarità e gusto, diventando essa stessa il simbolo della libertà individuale (che James ammira e condanna al tempo stesso) contro il conformismo della società.
La complessa struttura e soprattutto la messinscena di alto valore segnico del film autorizzano anche letture in diverse direzioni. Bogdanovich riprende infatti il suo discorso sul linguaggio-cinema con puntualità, abbandonando momentaneamente lo strumento usuale della citazione esplicita, per tendere a un ideale di perfezione formale che si risolve in un'autonomia espressiva più piena.
Opera incompresa e bistrattata, Daisy Miller segna un momento importante nel percorso registico di Bogdanovich. Attraverso essa, l'autore, oltre a proseguire nella sua opera di rovesciamento e decostruzione dei principali miti americani, riesce a coniugare con sublime equilibrio stile e contenuto, grazie a una struttura formale ferrea, firmando così, nonostante le apparenze, ancora un'opera sul cinema inteso come arte della riproduzione e della falsificazione, come produttore di "maschere" culturali dal grande potere evocativo e ingannatore.

Il progetto di rivisitazione dei generi torna preponderante l'anno seguente, quando con la commedia musicale Finalmente arrivò l'amore (At Long Last Love, 1975) il regista realizza la sua opera più referenziale: una rilettura parodistica dei musical anni 30, un genere popolarissimo negli Stati Uniti ed emblema dello spettacolo d'evasione tipico dell'industria hollywoodiana basata sull'entertainment. È esattamente il metalinguaggio la chiave di lettura attraverso la quale approcciare Finalmente arrivò l'amore, che altrimenti potrebbe risultare un film sterile e anacronistico. Bogdanovich imbastisce dunque una frivola pochade sulle vivaci scorribande sentimentali di tre coppie di amanti accompagnata dai più celebri brani di Cole Porter, il suo songwriter favorito, arrangiati con maestria dai compositori Artie Butler e Lionel Newman. Il risultato è a tutti gli effetti una sophisticated comedy ispirata a quelle prodotte a Hollywood negli anni 30, epoca in cui infatti è ambientata la pellicola.
L'autore ripensa alla lezione musicale del grande compositore francese Maurice Jaubert e alle straordinarie coreografie di Bubsy Bekerley e adotta i sofisticati motivi di Cole Porter come fossero la sola colonna sonora possibile per poter ri-vedere e ri-mettere in scena il cinema di Charles Vidor e di Charles Walters, di Norman Z. Leonard e di Gregory La Cava. Parte del merito della resa formale va anche all'accuratissima messinscena figurativa, quindi alla fotografia stilizzata color-as-black-and-white del fedele collaboratore Laszlo Kovacs.
Ma Bogdanovich, come sempre, non vuole far rivivere in maniera acritica e nostalgica il cinema del passato, bensì ne propone una rappresentazione mediata dalla freddezza e dalla distanza di uno sguardo critico, che permettono di vedere "oltre" la facciata scintillante e spettacolare, irrimediabilmente falsa, del genere. Per questo sceglie, contrariamente alla prassi in uso nella maggior parte dei musical, di registrare le performance degli attori "in diretta", senza ricorrere a playback o doppiatori, restituendo così il suono con tutte le imprecisioni e le sporcature del caso. Inoltre, adotta come obiettivo il panfocus di derivazione wellesiana, una soluzione tecnica ed espressiva che gli permette di mantenere a fuoco contemporaneamente tutti i livelli dell'inquadratura, impedendo così il naturale processo di identificazione tra spettatore e protagonista che avviene quando quest'ultimo appare in primo piano rispetto all'ambiente circostante. Queste scelte, tuttavia, non trovano una rispondenza calzante ed efficace nell'applicazione al musical, un genere che, in quanto artificio dichiarato, richiede la massima complicità da parte dello spettatore.

L'uscita del film, presentato in anteprima al Radio City Music Hall di New York nel marzo 1975, è accompagnata da un coro unanime di fischi e critiche devastanti. Paradossalmente, è proprio l'operazione metalinguistica di Bogdanovich, ormai sua vera e riconosciuta cifra stilistica, ad appesantire la pellicola, fino a renderla un pedante esercizio intellettualistico, negando ogni piacere della pur gradevole messinscena. Amareggiato dall'inaspettato fallimento, Bogdanovich taglia e rimonta il film diverse volte, inserendo nuovi numeri musicali, cambiando l'ordine di intere sequenze e stravolgendo completamente il ritmo del film. Ma nulla riuscirà a scongiurare la capitolazione: è un fiasco colossale, che metterà in discussione il valore del suo autore fino al ritrovato successo con Dietro la maschera (Mask, 1985).

Fine della
Vecchia America

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Nei primi anni 70 inizia ad affermarsi a Hollywood una nuova ondata di giovani autori. Il successo, clamoroso e inaspettato, di titoli come "L'esorcista" (The Exorcist, 1973), "Il braccio violento della legge" (The French Connection, 1971) e "Il padrino" (The Godfather, 1972) salva le principali compagnie dalla bancarotta e spinge i produttori a investire sempre più in pellicole d'impatto grandioso e sensazionalistico, di forte presa emozionale sul pubblico, sorrette da una distribuzione capillare e da un'intensa campagna pubblicitaria. Ciò porta conseguentemente a una radicale trasformazione delle strategie industriali delle major hollywoodiane. "Lo squalo" (Jaws, 1975) di Steven Spielberg e "Guerre stellari" (Star Wars, 1977) di George Lucas diventano l'emblema di questo cambiamento: gli straordinari e longevi  risultati al botteghino inaugurano una stagione inedita dell'industria hollywoodiana, quella dei corporate blockbuster, un nuovo modo di fare cinema.
Si assiste così alla sempre più massiccia introduzione sul mercato di produzioni colossali capaci di attirare l'interesse di una larga fascia di pubblico o ancora di prodotti serializzati, resi cioè facilmente riconoscibili (e quindi vendibili) tramite l'uso di rinate etichette di genere. A questo corrisponde una sorta di "restaurazione" stilistica che smorza la portata critica e contestataria insita nelle opere della prima e seconda wave degli autori della New Hollywood. Al tramonto degli anni 70, in definitiva, il cinema americano cessa di essere di controcultura.

In questo contesto di profondo cambiamento sociale e soprattutto culturale, il progetto di Bogdanovich viene percepito sempre più come un esercizio di stile sterile e anacronistico. Senza più il successo di cassetta di Ma papà ti manda sola? o di Paper Moon a sorreggerlo, l'autore subisce il marchio di "cineasta della nostalgia" come una condanna inappellabile, unita alla disaffezione del pubblico, attirato dalle nuove produzioni evasive e spettacolari.
Nonostante le condizioni sociali e commerciali avverse, Bogdanovich rimane fedele alla sua formazione e alla sua poetica e prosegue imperterrito il suo viaggio attraverso i miti e i generi del cinema classico hollywoodiano. Anzi, con Vecchia America (Nickelodeon, 1976) estremizza il suo discorso arrivando a parlare direttamente del cinema delle origini e del periodo che ha portato alla nascita di Hollywood e della sua industria. Sfortunatamente, reduce da due considerevoli fiaschi produttivi, Bogdanovich vede la sua autonomia decisionale significativamente ridimensionata dalle richieste dei nuovi finanziatori. Se il progetto di Bogdanovich era di girare in bianco e nero e senza attori famosi, per dare un senso di maggiore autenticità, i produttori gli impongono l'uso del colore e la presenza di due divi quali Ryan O'Neal e Burt Reynolds come protagonisti. Anche il tono generale del soggetto originale viene considerevolmente addolcito e alleggerito, tanto che l'opera si risolve in una veloce farsa dal carattere parodistico.
Privato della sua esigenza di verità, anche storica, Vecchia America risente drammaticamente dello scarto fra intenzioni e risultati. Il film, che alterna dramma e comicità slapstick, storia e romanticismo, si struttura in due parti distinte. Nella prima Bogdanovich omaggia il cinema dei pionieri e il loro incessante lavoro per la ricerca di felici soluzione espressive e processi tecnici efficaci in un momento in cui la settima arte era ancora priva di codici e professionalità. È il cinema di Porter e Ince, di Olcott e Dawley, che Bogdanovich conosce bene grazie anche al volume Allan Dwan: The Last Pioneer scritto durante gli anni della sua attività critica. Ogni scelta stilistica è frutto di una puntuale cura filologica e soprattutto di una precisa volontà espressiva: è il trionfo dei two reels, dello slapstick, del burlesque, degli slow brun e del vaudeville, degli scivoloni, degli inseguimenti e delle torte in faccia, un'ilarità vitalistica esasperata che attinge a piene mani dal repertorio di Sennet, Roach, Keaton.
Nella seconda parte della pellicola, dominata dalla lunga, solenne sequenza della prima cinematografica del capolavoro griffithiano "Nascita di una nazione" (The Birth of a Nation, 1915), Bogdanovich fotografa il passaggio dal corto al lungometraggio, dalle ragioni del commercio a quelle dell'arte. È ora che, simbolicamente, Bogdanovich fa coincidere l'emergere di un'inedita coscienza d'autore e la rivendicazione di uno statuto artistico del cinema. Da questo momento Vecchia America si trasforma in un inno al prolifico regista di "Giglio infranto" (Broken Blossoms, 1919) e "Intolerance" (Id., 1916),  padre del cinema americano e soprattutto del suo primo vocabolario. Bogdanovich riesce così a chiudere il cerchio, coniugando le due anime della pellicola. Infatti, attraverso il tributo a Griffith, "inventore" dei codici e delle figure che hanno determinato la formazione di un linguaggio cinematografico compiuto, l'autore celebra tutti i cineasti delle origini, quei pionieri, più o meno noti, che hanno fondato, tra tentativi felici e amari fallimenti, le regole e i segreti della settima arte.
In questo modo Vecchia America trova posto pertinentemente all'interno della filmografia di Bogdanovich. Alla sua uscita, però, il film viene violentemente attaccato dalla critica e sostanzialmente ignorato dal pubblico. La maggior parte dei critici lamenta carenze stilistiche e mancanze di ritmo, etichettando Vecchia America come un'opera sterile e nostalgica per la sua compiaciuta esibizione di citazioni colte e rimandi cinefili. Curiosamente si continua a rimproverare a Bogdanovich proprio il suo intento autoriale: fare cinema sul cinema e con il cinema.
Per Bogdanovich è un punto di non ritorno. È la fine di un capitolo.

Senza compromessi: i fallimenti al botteghino


Deluso, provato nel corpo e nella mente dal flop commerciale e critico delle sue ultime tre pellicole, Bogdanovich decide di prendersi un po' più tempo per la stesura del suo nuovo film, che arriverà solo nel 1979. L'idea di Saint Jack parte dall'amico Orson Welles che suggerisce al regista di leggere il romanzo omonimo di Paul Theroux. Ambientato a Singapore, il film è incentrato sul personaggio di Jack Flowers (Ben Gazzarra), bizzarro e generoso gestore di una casa di tolleranza, alle prese con le violenze della mafia locale, e un viscido agente della Cia (interpretato dallo stesso Bogdanovich) che chiede all'uomo delle fotografie scottanti per poter ricattare un funzionario del governo inglese (ad interpretarlo, l'ex-007 George Lazenby).
Saint Jack si traduce nell'esperienza sul set più difficile per il regista: interamente girato a Singapore negli stessi luoghi in cui è ambientato, il film è finanziato in totale indipendenza (tra i produttori figurano l'amico Roger Corman e addirittura il magnate della rivista Playboy Hugh Hefner) e con un budget ristrettissimo. Il cast, se si escludono i protagonisti, è totalmente composto da attori non professionisti, abitanti del luogo che interpretano loro "stessi". Per ottenere dalle severe autorità locali il nulla osta per le riprese Bogdanovich si inventa un plot fasullo e innocuo, totalmente estraneo alle tematiche toccate nella sua pellicola. Che è anche la sua opera (sinora) più morale, coraggiosa, autobiografica: c'è molto di Bogdanovich in Jack Flowers, un personaggio sconfitto dalla vita che ritrova la dignità e la forza di dire "no", di compiere la scelta che gli permetta di rimanere l'uomo che è sempre stato, e che forse non è poi così male. Nella sequenza finale di Jack che si rifiuta di dare le foto compromettenti all'agente della Cia, gettandole nel fiume e urlando "non lo faccio!" c'è tutta la dignità di un regista che ha scelto di non venire a compromessi con l'industria, continuando a girare i film che ha sempre voluto fare, incurante di ciò che gli sta attorno.
Il protagonista di Saint Jack è quello che compie il percorso più circolare e completo tra quelli della filmografia di Bogdanovich, il suo è un vero e proprio percorso di rinascita e riscoperta, a partire da quella dell'amicizia, rappresentata dall'incontro con un simpatico ispettore della finanza inglese (interpretato da Denholm Elliott), fatalmente malato di cuore, che trascorrerà con Jack gli ultimi giorni della sua esistenza, condividendo con lui sogni e rimpianti.
Questo (bel) film inaugura una nuova fase creativa nella carriera di Bogdanovich, all'insegna di una ritrovata libertà. Purtroppo, nonostante la buona accoglienza critica e il brillante esordio alla Mostra del cinema di Venezia (dove ottiene il premio del pubblico e quello al miglior attore per Ben Gazzarra) la pellicola ha una pessima distribuzione e viene quasi ignorato dal pubblico.

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Dopo aver esplorato una realtà a lui sconosciuta ed esotica, per il suo progetto successivo Peter Bogdanovich sceglie di tornare "a casa", con una commedia romantica ambientata a New York, che prende il titolo da un brano di George e Ira Gershwin ...E tutti risero (They All Laughed, 1981). Difficile riassumere il plot di questa sarabanda di pedinamenti e gelosie, che non è altro che un elogio della magia dell'innamorarsi. I protagonisti sono quattro uomini (Ben Gazzarra, John Ritter, Blaine Novak e George Morfogen) che lavorano per un'agenzia investigativa privata, la Odissey, e che passano le giornata, principalmente, a pedinare donne sposate e a fare rapporti ai mariti gelosi. Gazzarra, il donnaiolo del branco (oltre che divorziato con due figlie) si innamora di una donna matura, ricca e sposata (una sfavillante Audrey Hepburn), tra loro scatta la scintilla, ma non potrà esserci futuro (nel bellissimo finale lei si alza nel cielo di New York a bordo di un elicottero, salutandosi con il suo amante con una serie di silenziosi primi piani più esplicativi di mille parole).
Sorta di commistione tra le comiche slapstick e la sophisticated comedy, E tutti risero è una pellicola deliziosamente incosciente e inconsistente, ambientata in una New York calda e accogliente, molto distante dagli inferni urbani messi in scena da Scorsese e altri registi in quegli anni, ben fotografata dal wendersiano Robby Muller (già al lavoro con Bogdanovich in Saint Jack). Una giostra di amori che sbocciano e finiscono che vorrebbe trasportarci nelle montagne russe emotive che sono i primi amori, e che punta i riflettori su una combriccola di otto personaggi composta da due coppie giovani e due un po' meno giovani che si affacciano all'amore con la sorpresa e l'emozione di un adolescente.
La pellicola, leggera e dolce, solo apparentemente superficiale, nasconde un'anima struggente e malinconica, probabilmente conseguente alla tragica e improvvisa scomparsa dell'attrice Dorothy Stratten. Durante le riprese Bogdanovich (nel frattempo separatosi dalla moglie Cybill Sheperd) si innamora, ricambiato, della giovane attrice; è forse l'inizio di una grande storia d'amore, che però viene brutalmente stroncata sul nascere dal follemente geloso marito della Stratten, che la uccide il 14 agosto del 1980, per poi togliersi la vita. Il mondo del cinema, ma soprattutto lo stesso Bogdanovich, è sconvolto da questo evento, che lo porta ad allontanarsi dal cinema per quattro lunghi anni, e a intraprendere la stesura di un romanzo dedicato alla memoria di Dorothy, e intitolato The Killing on the Unicorn: Dorothy Stratten 1960-1980, che è un sentito e ambizioso studio sulla violenza subita dalle donne nel corso della storia dell'umanità.

Tornando a They All Laughed, le sfortune non si esauriscono qui, poiché, dopo essere stata presentata a Venezia nel 1981, la pellicola non viene distribuita nelle sale a causa della crisi finanziaria della società di produzione. L'anno successivo Bogdanovich crea una piccola società di produzione, la Moon Pictures, per riscattare i diritti del film e distribuirlo sull'intero territorio nazionale, ma ancora una volta i risultati sono insoddisfacenti e il film è ignorato dagli spettatori. Di nuovo un duro colpo per il regista che sceglie di dedicarsi totalmente alla stesura del libro incentrato sulla povera Dorothy.

foto_10Sul finire del 1984 Bogdanovich decide di tornare al cinema, e lo fa in maniera inaspettata, su suggerimento del produttore Martin Starger che gli sottopone la sceneggiatura di Dietro la maschera (Mask, 1985), un film piuttosto lontano dalla visione del regista, ma che, anche alla luce dei tragici avvenimenti sul set di E tutti risero, fa breccia nel suo cuore. La pellicola è ispirata alla storia vera del giovane Rocky Dennis, un ragazzo afflitto da leontiasi, una rarissima malattia che modifica la struttura ossea del cranio, trasformando il volto in una maschera deforme. La pellicola, che si chiude con la triste morte fuori campo del povero Rocky, è un "The Elephant Man" spogliato dalle crudeltà e dagli impeti estetici di David Lynch, un inno alla gioia di vivere e al combattere per il diritto alla felicità e all'integrazione.
Rocky (Eric Stoltz), che vive assieme alla combattente madre Rusty (la interpreta la cantante Cher), è un ragazzo coraggioso, maturo, intelligente, che ha fatto dell'ironia un'arma per difendersi dalle prese in giro del mondo esterno. Molto spesso i ruoli genitori-figlio vengono invertiti: Rusty, infatti, cade dalle braccia di un uomo all'altro, e frequenta una banda di rudi motociclisti che spesso la spingono verso l'uso di droghe e alcol. Questa strampalata combriccola finisce per diventare la famiglia allargata di Rocky, un gruppo di dropout e freak rifiutati dalla società, che si stringe attorno al ragazzo, lo protegge dai bulli, lo aiuta, lo accompagna a scuola in motocicletta. Rocky lotta per la disintossicazione della madre, la vorrebbe innamorata e fedele al gentile Gar (Sam Elliot) forse l'unico uomo che è stato simile a un padre per lui. Il ragazzo scopre la passione per la cultura (la musica: Beatles e Springsteen, l'arte, vorrebbe viaggiare in Europa) l'amicizia, l'amore (ricambiato, dalla non vedente Diana-Laura Dern), ma poi, in seguito a una serie di brucianti delusioni (il migliore amico si trasferisce in un'altra città, la famiglia di Diana è inorridita alla vista del viso del ragazzo) amareggiato, si spegne, tranquillo, nel sonno.

Il ritorno al successo


La pellicola, girata da Bogdanovich con onestà e uno stile autentica e quotidiana da docufiction che la allontana dalle faziosità hollywoodiane, è un racconto morale come lo era Saint Jack, permeato da un enorme sentimento di orgoglio e rispettabilità. Un film che insegna che ognuno in sé può essere grande, anche un ragazzino di sedici anni, molto più intelligente e maturo del mondo di adulti che lo circonda, proprio per questo straordinario ed eccezionale, non per la deformità che ne segna il viso. Nella sequenza più bella, Rocky al luna park vede la propria immagine riflessa in uno specchio deformante, e per la prima volta osserva come sarebbe il suo volto se fosse normale, e in questa immagine c'è tutto il significato del film e forse dell'intero Cinema di Peter Bogdanovich: la Verità e la Bellezza si trovano solo nell'immagine di uno specchio, un riflesso, uno specchio. Il cinema.
Sincero e commovente, il film ottiene un enorme successo di pubblico e critica: presentato al festival del cinema di Cannes, fa ottenere a Cher il premio come miglior attrice e vince l'Oscar per il miglior make-up. Finalmente il regista riassapora il meritato successo e il suo nome torna di peso tra quello dei registi più interessanti di Hollywood.

Con il consueto coraggio, ma anche con piglio masochista, Peter Bogdanovich, per il suo film seguente, si tuffa però in un progetto che già in partenza suona come una scommessa persa, ovvero Illegalmente tuo (Illegaly Yours, 1988). Tra la miriade di progetti che gli piovono addosso dopo il successo di Mask, la scelta del regista finisce per cadere su una strampalata sceneggiatura firmata da Michael Kaplan e John Levenstein, una commedia romantica contemporanea, inutilmente ingarbugliata e privia del brio e del mordente di precedenti prove come Ma papà ti manda sola?.
Il protagonista è un giovane Rob Lowe, degno erede dei personaggi interpretati da Ryan O'Neal e John Ritter nelle commedie di Bogdanovich, che interpreta un giurato, deluso in amore, che riconosce nell'imputata un sua vecchia fiamma, e decide di provarne l'innocenza, cercando il vero colpevole di un tentato omicidio. La commistione tra romanticismo, screwball comedy e una sottotrama “gialla” è un terreno congeniale al regista, che ben maneggia l'intricato script pieno di improbabili colpi di scena, ma nonostante i soliti tocchi da vecchio cinefilo come la presenza Harry Carey Jr., caratterista di John Ford, l'insieme non ingrana, e stavolta la scelta del regista di dedicarsi a un cinema fuori dal tempo e da ogni moda, per quanto coerente con la sua opera, appare stanca, ridondante e inutile. Il rischio è quello di non attirare l'interesse di nessuno, e difatti la pellicola non ottiene una distribuzione in sala, ma viene fatta circolare nel solo circuito home video e della pay-tv. E anche la critica, per l'ennesima volta, è crudele nei confronti del regista e certifica Illegalmente tuo come il progetto meno riuscito (sinora) nella carriera di Bogdanovich.

Guardando al passato: Texasville


foto_11Per Bogdanovich l'unica maniera per riprendersi da questa cocente sconfitta è ritornare al passato, e dimostrare alle nuove generazioni di che cinema fosse capace qualche decennio precedente. A sorpresa, allora, il regista decide di tornare ad Anarene e ai personaggi de L'ultimo spettacolo, con una specie di sequel o rifacimento (reboot si direbbe oggi, non è strettamente necessario aver visto il prototipo per entrare nella vicenda) ambientato trent'anni dopo, negli stessi luoghi e con gli stessi attori (gran parte di essi): Texasville (Id., 1991).
La vicenda, proprio come The Last Picture Show, non ha un vero e proprio svolgimento narrativo, ma è una sorta di coinvolgente "commedia umana", in cui scopriamo che nella Anarene dell'estate 1984 non è cambiato poi molto rispetto al 1951: Duane (Jeff Bridges) ha ottenuto un insperato successo come impresario petrolifero, ha una moglie con cui conduce una stanca relazione (entrambi si tradiscono alla luce del sole), e quattro figli con cui intrattiene rapporti conflittuali, a partire da quello con il maggiore, Dickie, che addirittura soffia le amanti al padre e si fa rinchiudere in prigione per spaccio di droga. Ad aiutare Duane con la contabilità è l'ormai anziana Ruth (Cloris Leacheman), ex-moglie dell'insegnante di pallacanestro della scuola di Anarene ed ex-amante amante di Sonny. Quest'ultimo è diventato il sindaco della città, ha preso in gestione il locale un tempo appartentente a Sam il Leone, ma sprofonda velocemente in una dolce follia, dove tra le rovine del vecchio cinema della città, il Royal, immagina film proiettati nel cielo. A interrompere la monotonia e il torpore degli abitanti di Anarene, penserà il ritorno di Jacy (Cybill Sheperd), un tempo amata da Sonny, e mai dimenticata da Duane, che dopo aver tentato senza molto successo la carriera d'attrice, arriva nella città natale nel lutto, ha appena perso il marito e un figlio in un tragico incidente.
Benché illuminato dall'avvolgente e calda fotografia di Nicholas Josef Von Sternberg (figlio del noto regista), che fa da contraltare al gelido b/n della prima pellicola, questo sequel torna e insiste su temi e luoghi già affrontati in precedenza, dal fallimento privato e collettivo, al tema del loser, la fine del Mito, la morte del cinema. Li irrobustisce con una sana dose di ironia e qualche ambiguità in più rispetto a L'ultimo spettacolo.
Non c'è nessun segno di malinconia in questo sequel, così come non ve n'è traccia in tutto il cinema del regista americano. Dice Duane rivolgendosi a Jacy: "Non cambia mai niente qui". E lei risponde: "Ho la sensazione che l'esistenza ci abbia lasciato indietro. E' che siamo invecchiati senza crescere, come in quella vecchia foto". Bogdanovich non è (ancora) in grado di guardare al passato con la malinconia o la saggezza dei grandi vecchi, ma lo ricorda perfettamente, ed è consapevole di non poter più fare nulla per modificare il suo presente. Così lo ripete, ritornando agli stessi personaggi, così uguali a ieri, eppure così diversi. Se in The Last Picture Show si celebrava l'addio al Cinema, in Texasville ne vengono contemplate le spoglie, il cinema non esiste più, ha lasciato un vuoto incolmabile, che la televisione non può di certo riempire (non viene mai mostrato che cosa viene trasmesso in tv). Non esistono più punti di riferimento per le nuove generazioni, non c'è più un Sam il Leone, non ci sono più idoli o immagini significanti. E, non è un caso che il solo a immaginare, a vedere film proiettati in quella sconfinata sala che è la volta celeste sia il mezzo rintronato Sonny, che "la testa l'ha lasciata nel passato".
Tutto sembra già morto e in decomposizione ad Anarene, e anche il ritorno di Jacy, inizialmente salutato col sorriso, è segnato dalla tragedia (la perdita dei familiari) e non fa altro che riaccendere passioni, gelosie e promesse non mantenute nascoste nel passato. E se il non-finale, con il salvataggio di Sonny da parte degli amici, pare chiudere il tutto all'insegna di una ritrovata serenità, tutto appare atrocemente uguale a prima, immobile, e Bogdanovich sembra rispecchiarsi solamente nel personaggio di Sonny, l'unico che può capire, immaginare, "vedere".
Texasville
suona come un rifiuto del contemporaneo, del cinema del presente, è il meno referenziale tra i film del regista, forse il più chiuso e spietato, proprio per questo inaccessibile a chi già non fosse fan del precedente film o del romanzo a cui è ispirato, di Larry McMurtry. Proprio per questo, nonostante una buona accoglienza critica, il film è ignorato dal pubblico. L'ennesima batosta per Bogdanovich, che aveva impiegato tre lunghi anni per ottenere i finanziamenti per il progetto e per riuscire a riassemblare il cast originale, che ora conta su diverse star di Hollywood. Ma, se non altro, il film segna un'importante tappa nel percorso umano del regista, all'insegna di una rinnovata maturità stilistica e filosofica.

La trilogia dello spettacolo

Alle prese con il suo film successivo, Peter Bogdanovich orienta la sua scelta su un testo teatrale dell'inglese Michael Frayn, Rumori fuori scena (Noises Off, 1992), una farsa comica portata al successo a Londra oltre un decennio prima. La pellicola segue le gesta di una compagnia teatrale capitanata dal rigoroso regista Lloyd Fellowes (Michael Caine) alle prese con la messa in scena della commedia comica "Nothing On", a base di tradimenti, sesso, inseguimenti e colpi di scena. Lloyd è terrorizzato all'idea della prima a New York della commedia, sinora tutto quello che poteva andar male è andato malissimo. Se il testo della commedia è da par suo complicato e movimentato, gli attori che devono portarlo in scena sono altrettanto incasinati. Tutti hanno relazioni con tutti, le invidie e gelosie non si contano, e una considerevole dose di alcol non può di certo aiutare. Ecco allora che vicende private e finzione si mescolano senza continuità, ed è impossibile distinguere ciò che sta accadendo sul palco dall'anarchia dietro le quinte, nello sconforto totale del regista che si rifiuta di assistere al disastro annunciato la sera della prima. Ma ecco il miracolo: Lloyd, verso la fine dello spettacolo, sbircia all'interno della sala, e il pubblico è in estasi, pronto a lanciarsi in un travolgente applauso. Insomma, tutto è andato per il meglio, "Nothing On" è un successo, e il regista scopre addirittura di stare per diventare padre.
In definitiva, una parentesi più leggera e meno personale per Bogdanovich dopo aver dimostrato di saper lavorare anche sulla propria opera come in Texasville. Tuttavia, il regista non si limita a fare del teatro filmato. Oltre a trasportare l'azione dall'Inghilterra alla sua New York, Bogdanovich pur parlando di un'arte a lui estranea, non può non farla sua con la forza della settima arte. Rumori fuori scena è infatti compresso in una tecnica puramente cinematografica come quella del flashback (l'intero film è narrato a ritroso dal punto di vista del regista Michael Caine), ed è tutto fuorché una pellicola statica e “teatrale”: panoramiche, carrellate hitchcockiane, entrate e uscite di scena degne di Lubitsch, tutto l'armamentario della settima arte è messo al servizio di questa sarabanda di equivoci e innamoramenti.
Divertente, sottilmente crudele, e coreografato con la stessa perfezione di un balletto, Rumori fuori scena rappresenta una parentesi anomala e convincente nell'opera di Bogdanovich, che per una volta (complice anche la produzione della Amblin di Steven Spielberg) lo rimette in sintonia con i gusti delle platee. Anche se l'impressione è quella di un gioco sin troppo consapevole e fine a sé stesso che non lascia molto alla memoria.

foto_12Bogdanovich non si lascia tentare dalla maniera, e dopo due delle prove più curiose della sua carriera, si lascia alle spalle il passato e per il suo nuovo film affronta di petto un'altra arte a lui estranea, la musica (country), chiudendo una sorta di ideale trilogia dello “spettacolo” inaugurata con Nickelodeon (il cinema) e proseguita con Noises Off (il teatro). Il risultato è The Thing Called Love (anche questo titolo viene da una canzone, stavolta di Johnny Cash), Quella cosa chiamata amore (1993), commedia adolescenziale dolce-amara, che ha come sfondo la capitale della country-music, Nashville.
Lontano dal maledettismo di pellicole tematicamente affini, Quella cosa chiamata amore ha per protagonista il personaggio di Miranda Presley (interpretata da Samantha Mathis), giovane cantautrice che si trasferisce a Nashville in cerca di successo. Arrivata in ritardo al primo provino al Bluebird Bar (la storia musicale di Nashville è stata recentemente ben documentata anche nella serie di documentari Hbo "Sonic Highways" diretta da Dave Grohl dei Foo Fighters), punto di riferimento di tutta la musica country del paese, si vede respinta dall'autoritaria proprietaria Lucy. Conosce un ragazzo, anche lui cantautore, James (interpretato da River Phoenix, morto per overdose poco dopo la fine delle riprese, un'altra volta un film di Bogdanovich funestato dalla tragedia) con cui, dopo gli screzi iniziali, finirà per ritrovarsi sposata. Fa amicizia con la bella Linda Lue (Sandra Bullock) e il suo amico Kyle (Dermot Mulroney) che si innamora di Miranda e la contende all'amico-rivale James. Nel frattempo, mentre queste due coppie si conoscono meglio, Miranda è continuamente respinta da Lucy, e, dopo aver litigato con James, decide di tornarsene a New York. Sul bus inzia a scrivere una nuova canzone, dettata dallo stato d'animo del momento, e torna a Nashville per sottoporre il pezzo all'attenzione di Lucy. Stavolta funziona, verrà scelta, e assieme a lei anche Kyle. Nel locale si ritrovano i quattro amici: James capisce di non poter star lontano da Miranda e di amarla, Kyle e James fanno pace, Linda Lue programma un viaggio a New York per studiare recitazione. All'insegna di una ritrovata amicizia e serenità i tre musicisti se ne vanno assieme pensando a un progetto musicale da realizzare assieme.

Per la prima volta in un film del regista la musica diventa un elemento fondamentale del racconto, di importanza pari a quella dei protagonisti. La musica (talvolta country) che spesso nei film di Bogdanovich aveva rivestito ruoli extra diegetici qui assurge ad elemento che lega tra di loro i personaggi in carne e ossa. La Nashville rappresentata dal regista ha poco in comunque con quella raccontata da altri registi (Altman, Eastwood), così come il tema dello show business è lontanissimo dal binomio genio-sregolatezza a cui ci hanno abituato tante storie simili. La città e l'umanità che Bogdanovich sceglie di riprendere sono mosse da fiducia e buona volontà, e nemmeno nella competizione c'è slealtà o cattiveria. Miranda, così come gli altri personaggi, è chiamata a dare il meglio di sé per emergere, finché non comporrà una canzone ispirata a sentimenti reali non potrà essere accettata nel locale gestito da Lucy. La Nashville di Bogdanovich è simile a un luogo magico e utopico, gigantesca metafora del Sogno Americano, dove se ci si impegna è possibile realizzare le proprie aspirazioni. E la musica country è il genere musicale perfetto per esprimere questi sinceri e altisonanti sentimenti che non ammettono cinismo. Insomma, il capovolgimento ideale della Anarene di The Last Picture Show e Texasville, dove i sogni delle giovani generazioni possono ancora concretizzarsi, basta crederci davvero, e impegnarsi.
Quella cosa chiamata amore
è un film incredibilmente classico, fuori dal tempo, fordiano, narrato da Bogdanovich con la partecipazione e la sincerità di un esordiente. E anche qui il cinema ritorna a far capolino, facendo da contraltare ai sogni dei protagonisti: in un drive-in si proietta "L'uomo che uccise Liberty Valance" di John Ford, capolavoro che anticipò una nuova, disincantata epoca. The Thing Called Love è tra le opere più favolistiche e indifese di Peter Bogdanovich, una specie di L'ultimo spettacolo virato in rosa, sicuramente imperfetto, quasi commovente nella sua sincerità spiazzante.

Addio al cinema. Gli anni 90 e la televisione

Ovviamente, anche Quella cosa chiamata amore ottiene successo nullo ai botteghini internazionali, obbligando Bogdanovich a chiudere una fase della sua vita e a riconsiderare totalmente la sua carriera. Siamo agli inizi degli anni 90, e la televisione, in particolar modo negli Stati Uniti, non è sicuramente il mass media che era negli anni Sessanta e Settanta (ma non è nemmeno quella dalle infinite possibilità dei Duemila, dove alcuni prodotti possono tranquillamente rivaleggiare in scrittura e messa in scena con film distribuiti in sala). E' a questo medium che Bogdanovich, forse amareggiato dal sistema degli studios attuale, sceglie di dedicare le proprie energie per tutto il corso del decennio. Con piglio quasi rosseliniano, Bogdanovich si dedica alla televisione con intenti didattici ed educativi. Nel mezzo televisivo il regista ritrova l'entusiasmo degli esordi, è alle prese con tempi di lavorazione molto più brevi, budget più esili, nessuna infiltrazione da parte della produzione, meno pressioni. Certo, resta il lavoro di un grande autore alle prese con progetti su commissione, nulla di davvero imperdibile, ma comunque superiore alla media di ciò che veniva realizzato ai tempi.

Bogdanovich collabora prima con la Cbs per cui dirige gli episodi A Dime a Dance della serie "Fallen Angels" e Song of Songs della serie "Picture Windows". Nel 1996, sempre per la Cbs, dirige The Price of Heaven ("Il prezzo del cielo"), dove un reduce della guerra di Corea trova lavoro come esattore delle rate che gli anziani neri pagano per assicurarsi il funerale, ma poi si intenerisce e decide di coprire da sé i loro ritardi. Il classico racconto a sfondo consolatorio, in cui nemmeno la professionalità del regista riesce a nascondere la melassa.
Sempre nel medesimo anno Bogdanovich gira To Sir With Love II, sequel di un film diretto nel 1967 da James Clavell ("La scuola della violenza"), interpretato da Sidney Poitier.
Nel 1997, su richiesta dell'amica Barbra Streisand, il regista accetta di dirigere due episodi della serie "Rescuers: Stories of Courage" ("Il prezzo del coraggio"), prodotta dalla stessa diva per Showtime e Paramount Network Television. Trattasi di una serie che vorrebbe celebrare il coraggio di persone comuni non ebree che hanno rischiato la loro vita per aiutare e proteggere gli ebrei durante la seconda guerra mondiale.
Nel 1998 Bogdanovich gira Naked City: A Killer Christmas, dove una coppia di sbirri camuffata da babbi natale per le strade di New York si trova improvvisamente a dover gestire le indagini su serial-killer mosso da motivazioni tutt'altro che scontate (ammazza solamente persone che si sono macchiate di omicidio poichè al volante in stato di ebrezza). Nel 1999 il regista dirige A Saintly Switch (Incantesimo in soffitta), classica commedia favolistica in cui due coppie si scambiano anime e corpi con esiti esilaranti (sulla carta). Un espediente alla Frank Capra più volte imitato nel corso della storia del cinema a cui nemmeno il tocco cinefilo di Bogdanovich riesce a donare nerbo o interesse.
Infine, nel 2004, il regista dirige un episodio dell'acclamata serie tv "I Soprano" (Sentimental Education), dove è comparso anche come attore nei panni dello psicanalista Elliot Kupferberg. Lo stesso anno Bogdanovich firma il biografico Il mistero di Natalie Wood, che narra ascesa e caduta della celebre e sfortunata attrice scomparsa all'età di quarantatré anni. Nonostante ambizioni e durata smisurata, il biopic è svogliato e mal interpretato da un cast di sconosciuti alle prese con volti iconici.

Ritorno al cinema e progetti futuri

foto_13Prima dei "Soprano" e Il mistero di Natalie Wood, nel 2001, Bogdanovich sceglie però di fare un'altra breve incursione nelle sale cinematografiche. Lo fa con The Cat's Meow (che in gergo sta a significare il "non plus ultra"), distribuito da noi con estremo ritardo, e nel solo circuito home video, con il ridicolo titolo Hollywood Confidential. Il regista torna al cinema, come s'è detto, e lo fa, ovviamente, parlando ancora della settima arte. Tratto da un dramma teatrale di Steven Peros, il film racconta la storia che (in linea teorica) sta dietro alla scomparsa del produttore e regista Thomas H. Ince, assassinato nel 1924 mentre si trovava a bordo dello yatch appartenente al magnate dei media William Randolph Hearst. Durante quella crociera erano presenti molti altri personaggi famosi e attori dell'epoca, a partire da Charlie Chaplin e Marion Davies. Il film ipotizza proprio che quest'ultima (interpretata da una Kirsten Dunst allora agli albori della carriera) stesse tradendo il "vecchio" Hearst con Chaplin, e che il primo, roso dalla gelosia, abbia sparato un colpo di pistola uccidendo per sbaglio Ince anziché Chaplin. Una vicenda spinosa, che fu raccontata a Bogdanovich in passato dall'amico Orson Welles, che aveva modellato il personaggio di Charles Foster Kane (di "Quarto potere") proprio su quello del magnate W.R. Hearst (non senza polemiche e ritorsioni).
Rispetto al passato lo sguardo di Bogdanovich si è fatto più duro nei confronti del cinema e dei suoi miti, il delitto di Dorothy Stratten deve essere ancora davanti ai suoi occhi. Bogdanovich ricrea questa vicenda con tono asciutto e senza orpelli, consegnandoci dei personaggi arroganti e sgradevoli, per cui è molto difficile patteggiare, tanto più che a uscirne in modo migliore è il ricco Hearst, instabile ma mosso da sentimenti sinceri, al contrario degli avvoltoi che lo circondano. Il film, diretto con grande perizia e con un'ottima ricostruzione d'epoca quale permette un cinefilo doc come Bogdanovich, è tuttavia molto accademico, privo dell'energia del passato e fatica a collocarsi all'interno del panorama del cinema contemporaneo. Non a caso, dopo una buona accoglienza al festival di Locarno nel 2001 e un riscontro  tutto sommato favorevole da parte della critica americana, stenta a trovare un pubblico e ottiene una distribuzione limitatissima.

Non c'è più posto a Hollywood per il vecchio Bogdanovich, che da allora si affaccia sporadicamente dietro la macchina da presa (un altro tv-movie nel 2004, lo sportivo Hustle, un colossale documentario dedicato alla leggenda del rock Tom Petty Runnin' Down a Dream nel 2007, inedito da noi), comparendo più spesso in veste d'attore in piccole produzioni indipendenti (tra le varie, "Infamous" sulla vita di Truman Capote, "Broken English", o "Dedication") o in serial televisivi. Uno iato terminato solo nel 2014, con la produzione di una nuova commedia brillante dal cast illustre (tra gli altri, Jennifer Aniston, Owen Wilson, Rhys Ifans, Imogen Poots, Cybill Sheperd e Quentin Tarantino): Tutto può accadere a Broadway, presentata con successo fuori concorso a Venezia 71. 

Si tratta di un raffinato meccanismo a orologeria che inanella con garbo e spigliatezza battute e citazioni, gag e  colpi di scena: un divertissement raffinatissimo che non ha paura di mostrare la sua natura squisitamente cinefila e metalinguistica. E non stupisce affatto se si considera il complesso dell'opera del suo autore.

Da una parte Bogdanovich cita esplicitamente icone come Lana Turner, opere miliari come "Colazione da Tiffany" e Maestri come Ernst Lubitsch, omaggiato con una battuta-chiave tratta da "Fra le tue braccia". Dall'altra si diverte anche a ripensare ai suoi stessi film, disseminando Tutto può accadere a Broadway di echi e ammiccamenti ai suoi passati successi. Guardando questa pochade dal ritmo indiavolato in cui tutti nascondono un segreto e ne ignorano un altro, è impossibile non pensare alla caotica allegria di Rumori fuori scena, agli irresistibili incroci di ... e tutti risero e persino alla magica atmosfera, molto Broadway, dell'imperfetto Alla fine arrivò l'amore. Ma il modello di riferimento più congeniale sembra essere senza dubbio Ma papà ti manda sola?: attraversato dalla stessa vena di frizzante follia e anarchica gaiezza, Tutto può accadere a Broadway funziona allo stesso modo, grazie soprattutto a una sceneggiatura ferrea e divertentissima, che non conosce mai cadute né di ritmo né di gusto. 

Con un'altra pellicola in cantiere (One Lucky Moon), non possiamo che augurarci che a settantacinque anni il grande, sottovalutato Peter Bogdanovich abbia ritrovato la forza e l'energia per tornare al suo amato cinema.

BIBLIOGRAFIA

Vittorio Giacci, Peter Bogdanovich, Milano, Editrice Il Castoro, 2002.
Thomas J. Harris, Bogdanovich's Picture Shows, Metuchen, N. J. & London, The Scarecrow Press, 1990.
Geoff King, New Hollywood. An Introduction, Londra, I.B. Tauris & Co., 2002; trad. it. (consultata) Id., La Nuova Hollywood, Torino, Einaudi, 2004.
Franco La Polla, Sogno e realtà Americana nel cinema di Hollywood, Roma-Bari, Editori Laterza, 1987.
Linda Myles, Michael Pye, The Movie Brats: How the Film Generation Took Over Hollywood, New York , Holt, Rinehart and Winston, 1979.
Andrew Yule, Picture Shows: The Life and Films of Peter Bogdanovich, New York, Limelight Editions, 1992.

NOTA

La prima parte della monografia, dagli esordi a "Vecchia America", è a cura di Stefano Guerini Rocco.
La seconda parte, da "Saint Jack" all'epilogo, è a cura di Alex Poltronieri.





Peter Bogdanovich