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Un saggio monografico su uno degli ex autori prodigio della (new new new) Hollywood esplosa tra gli anni 90 e il nuovo millennio. Il sottotitolo del volume dice tutto: un solo cineasta, molteplici significati e forme di uno sguardo cinematografico capace di riflettere tanto sulla macchina cinema quanto sulla contemporaneità dell'Occidente

Partiamo da un presupposto imprescindibile: un volume di critica cinematografica non costituisce l'occasione migliore per i consueti apprezzamenti e le solite considerazioni sul livello "gerarchico" in cui collocare questo o quel film all'interno di una carriera. In altre parole, una disamina analitica come ad esempio è "David Fincher - La polisemia dello sguardo", a cura di Antonio Pettierre ed edito da Mimesis, non ha le caratteristiche per soddisfare quel pubblico che, semplicemente, vuole capire se il titolo X è soddisfacente, se il titolo Y è un capolavoro, se il titolo Z surclassa i precedenti in un'ipotetica scala di voti. Per queste curiosità esistono altri spazi. In un lavoro del genere, invece, ciò su cui bisogna concentrarsi è il tentativo di dare a un'intera produzione cinematografica un ordine generale, fornendo al lettore degli strumenti per inquadrare in modo organico ogni singolo tassello di un percorso artistico. Nel caso di David Fincher, e del libro in oggetto, il sottotitolo scelto è già un grande aiuto. Quella polisemia dello sguardo, quella molteplicità di segni e significati che è possibile rinvenire in ogni film dell'autore diventa allora il tratto peculiare di questa indagine critica. David Fincher, undici lungometraggi in quasi trent'anni di attività, è un cineasta che ha fatto della moltitudine di interpretazioni e di piani di lettura l'elemento cardine del suo cinema. Ogni saggio contenuto in questo volume non fa altro che aprire degli squarci su questi numerosi indizi interpretativi.

Chi scrive, che ha appena finito di leggere il lavoro frutto dell'impegno di diversi colleghi ispirati, ha sempre considerato ogni pezzo della fimografia fincheriana utile a costruire un unico affresco strutturato su quattro piani differenti. Quattro angolature diverse cui guardare l'opera e il suo risultato finale. In primo luogo c'è lo sguardo antropologico di un grande osservatore dell'uomo contemporaneo e della sua costante e inesorabile anomalia rispetto al mondo circostante; costantemente fuori posto, fuori tempo, fuori spazio, l'uomo medio rappresentato da Fincher è in costante lotta per la ricerca di un'affermazione riconoscibile. Poi c'è uno sguardo che si allarga sulla realtà del nostro tempo e, anche quando la pellicola guarda ad epoche passate, è sempre teso a descrivere in modo completo la contemporaneità, fotografando le incongruenze dell'America a cavallo fra gli anni 90 e il nuovo millennio. Poi ci sono due piani più strettamente metalinguistici, che insistono sul concetto di film di genere e che su esso riflettono attraverso diverse declinazioni di stile narrativo. Il genere, allora, diventa strumento per raccontare il presente sotto una lente d'ingrandimento deformante e capace di amplificarne il grottesco esistente. E, infine, il genere è ancor di più occasione per un ragionamento sull'evoluzione delllo sguardo cinematografico stesso: attraverso le convenzioni che si evolvono, Fincher fotografa anche i cambiamenti nel modo di riprendere della macchina da presa.
Nel libro c'è tutto questo e molto altro. C'è l'origine dell'artista, innanzi tutto, con le sperimentazioni possibili nel mondo della pubblicità e, ancor di più del videoclip. Matteo Zucchi segue un sentiero che pare portare in modo del tutto naturale il regista di Denver ad approdare al grande schermo. E, in chiusura, c'è spazio per un ulteriore paradosso di Fincher: la polisemia del suo sguardo si arricchisce di un nuovo angolo di visuale, quello della tv on demand. Prima alla regia dei due episodi iniziali di "House of Cards - Gli intrighi del potere", poi la realizzazione di "Mindhunter", infine la regia di "Mank", film sul cinema che però depista la sala in favore del piccolo schermo. Giuseppe Gangi riflette su un corto circuito soltanto apparente, perché, e si torna al sottotitolo del volume, è parte dell'approccio fincheriano quello dell'aggiornamento delle molteplici possibilità verso cui orientare uno sguardo sull'oggetto da filmare. In mezzo, un'approfondita carrellata, titolo dopo titolo, alla ricerca di un senso che possa unire ogni opera all'altra come tanti punti su una linea retta.

Alcuni passaggi che colpiscono sul tema, velocemente. Rudi Capra, che si lancia in un'ardita analisi semiotica su "Zodiac" (indubbiamente la fatica di Fincher più adatta per un saggio critico del genere), conclude la sua disamina con un utile confronto con il suo antenato "Seven". Da una parte uno sguardo (ancora) su una realtà decadente e sporca fino al midollo, dall'altra uno più raggelato che ragiona sulla cronaca che si fa cinema in tempo reale. Evoluzione dei tempi, certo, ma anche del processo intellettuale dell'autore e del suo rapporto con la Settima arte. Rita Ricucci, cui spetta l'ingrato compito di trattare con una certa severità una delle pellicole indubbiamente più irrisolte, "Il curioso caso di Benjamin Button", si confronta, però, anche con il film che più di ogni altro esplicita uno di quei pilastri della poetica in continuo aggiornamento di Fincher. Si parlava in apertura dell'ossessione per l'uomo che non trova mai adeguato posto nel mondo. Ebbene, in questo caso il senso di questo ragionamento è portato alle estreme conseguenze, poiché l'impossibilità di incontrarsi tra età biologica ed età intellettuale rende il protagonista condannato a una continua lotta con se stesso, troppo giovane per assecondare grandi pensieri e troppo vecchio per seguire impetuosi slanci di azione. Lo stesso Antonio poi, occupandosi di "The Social Network", parla giustamente fin dal titolo di rivoluzione antropologica. Ancora una volta, infatti, l'indagatore umanista Fincher si sofferma sulle nuove emozioni e le nuove reazioni al nuovo strumento comunicativo. Ma, forse ancor di più, in questo caso ciò che interessa è l'abilità del cineasta americano di farsi grande narratore del suo Paese. Che il soggetto sia originale o un adattamento poco importa, i conflitti interiori dei suoi protagonisti diventano sempre occasione per aprire una riflessione sulla società in cambiamento, come quella che apre ai social media (o quella che, in futuro, aprirà alle nuove fruizioni del cinema in streaming).

Due altri saggi, firmati entrambi da Marcello Perucca si soffermano su altri due thriller, "Millennium - Uomini che odiano le donne", il sofferto risultato dell'incontro tra Fincher e il genio di Stieg Larsson, scrittore la cui capacità di dare profondità al mistero fra le pagine lo rende ancora adesso una fonte difficilissima da trasporre per immagini, e poi "Gone Girl - L'amore bugiardo", l'atteso e inevitabile confronto con la maestria di Alfred Hitchcock. Ancora una volta, c'è un apprezzabile tentativo di dare una forma coerente alle istanze del cinema fincheriano, nuovamente colto nella ricerca di molteplici obiettivi del proprio sguardo. E se "Millennium" diventa una nuova occasione per sfruttare le potenzialità del genere e guardare all'evoluzione di usi e costumi, utilizzando come cavia la società scandinava (ma il risultato di questa osservazione potrebbe adattarsi in pieno anche all'America contemporanea), in "Gone Girl" il centro del ragionamento si fa ulteriormente rarefatto e il thriller è l'escamotage attraverso cui la riflessione portata avanti è incentrata sullo sguardo stesso, sulla sua attendibilità, sulla difficoltà di cogliere il vero e il falso attraverso un racconto per immagini. Dopo aver letto il libro, una revisione di tutti i film è obbligatoria.