Ondacinema

Finzioni - Intervista kafkiana a Luigi Di Gianni

Tra le nebbie del Polesine, l'incontro con il maestro Luigi Di Gianni sul set del suo nuovo film. Tratto dall'omonimo racconto di Franz Kafka, "Nella colonia penale" sarà parte di un trittico dedicato all'amato autore praghese, comprendente anche un prologo documentario e il mediometraggio "Un medico di campagna".

Questa intervista era nata con l'intento di discutere del "Progetto Kafka", nuovo impegno registico di Luigi Di Gianni, finanziato da Fuori Orario, dalla Ethnos e con il contributo della Polesine Film Commission, ma si è ben presto trasformata in un'occasione più generale per riflettere sull'opera e sul personalissimo modo di intendere l'arte cinematografica di questo maestro del cinema italiano. Una poetica che in oltre cinquant'anni di attività ha saputo tradursi nelle più variegate forme espressive, dal documentario etnografico, alla pellicola di finzione, dallo sceneggiato televisivo al film d'inchiesta, dal cortometraggio al lungometraggio, seguendo un percorso che ha sempre privilegiato l'attenzione per l'uomo e il suo essere al mondo, nonché il valore di una ricerca estetica fondata sull'idea che manipolare la realtà sia l'unico modo per poterne restituire il senso più intimo e nascosto.

Incontro Luigi Di Gianni la sera, nell'atrio dell'albergo, in una penombra fredda, che sa di polvere e formalità. Mi chiede se vogliamo trasferirci altrove, ma rispondo di no, che per me va bene così. D'un tratto ho l'impressione che questa situazione sia la migliore per conversare con lui, come se negli ambienti burocratici, ufficiali la sua personalità, di norma così pacata e silenziosa, si ingigantisse per contrasto.
Ha il dono dell'affabulazione, te ne accorgi ascoltando la sua voce, garbata e sottile, mentre rievoca ricordi d'infanzia, gli inizi della carriera al Centro Sperimentale di Roma, le difficoltà delle prime pellicole e poi gli incontri con Blasetti, Visconti, Macchi. Mente Luigi Di Gianni, anche quando dice la verità. Nei dettagli, nelle finezze espressive di quei racconti si avverte chiara la scintilla dell'ispirazione, il barlume dell'invenzione narrativa. Mente come nei suoi documentari, costruiti e recitati, spesso sonorizzati a posteriori, in barba a qualsiasi pretesa di realismo cinematografico. Mente con la spontaneità di chi sa che dire significa sempre tradire e con l'impeto dell'umanista che rifiuta l'inconsistenza di un approccio frontale, volto a ripetere pedissequamente i segni, gli oggetti di un mondo che rimane impalpabile, inespresso. La sua macchina da presa si inserisce nelle crepe di una realtà molteplice e sfaccettata, scavalcando la storia, con i suoi dati inoppugnabili, i suoi robusti nessi causa-effetto, per cogliere, nella finzione della messa in scena, la natura senza tempo dell'uomo, viandante o, ancor più, naufrago in un mare di nebbia, consunto dall'ansia di smarrirsi e dallo sforzo di esistere. Nella cruda vitalità dei volti lucani, in quegli occhi sciupati, arresi alla miseria, eppure infuocati dall'impeto di un misticismo che mescola fede religiosa e ritualità pagane, Di Gianni trova il correlativo oggettivo di un'umanità precaria, gettata inconsapevolmente nel mondo e logorata dall'accidente di esistere.

E' il 1958 quando "Magia lucana", il suo primo documentario, vede la luce; siamo in piena stagione neorealista, ma i dettami del movimento mal si conciliano con le inclinazioni del giovane regista, ammaliato dal cinema tedesco, intriso di filosofia esistenzialista e succube di un amore smodato per le oniriche inquietudini di Kafka. La finzione lo incanta, predilige Dreyer, von Sternberg, Whale e al cinema documentario approda per caso o per necessità. Chi provi a cercare tracce di impegno civile nelle sue prime pellicole, spunti di passione progressista è destinato a rimanere deluso. Il suo interesse è per gli emarginati dell'esistenza, per coloro che si dibattono inutilmente nella rete di un destino che li sovrasta e ne strema di continuo la volontà di resistere. Non palpitano sogni di facili rivoluzioni oltre quella pietas esibita con intimo trasporto, non si alzano slogan di rivalsa dalle bocche di quegli ultimi, quei disperati che Di Gianni ama e ama ritrarre, mentre scalciano con forza tra gli spasimi della vita. La lezione di Kafka è arrivata in profondità, ha scavato solchi nell'anima atarassica di questo saggio sereno e indomito, che ha imparato a guardare oltre lo sventolio delle bandiere, sino a scorgere le tracce della nuova, squallida burocrazia pronta a sostituire la vecchia. E quando nel 1963 la denuncia sociale fa capolino dai fotogrammi de "La tragedia del Vajont", Di Gianni non resiste, la sua vena poetica è incontenibile e accanto a questo documentario civile ne realizza un altro, un breve segmento di dodici minuti che mostra i parenti, gli amici delle vittime in silenzioso raccoglimento sulle tombe il giorno di Natale.

Chiacchieriamo a lungo nella hall dell'albergo e il sapore è quello di una conversazione amichevole, con pensieri che partono da Kafka e terminano con le rivalità al centro sperimentale o le risate irrefrenabili di Alberto Sordi al Festival di Venezia.
A vederlo nelle foto, così serio ed elegante, col suo profilo classico da antico romano e gli occhiali penzolanti sulla giacca si direbbe il prototipo del professore inflessibile, un accademico severo e distaccato, ma dopo appena mezz'ora di colloquio già non riesco più a scacciare l'immagine di lui, studente, in macchina con Antonioni ("Un viaggio muto, non disse una parola") mentre si ficca le unghie nelle mani, cercando disperatamente di soffocare le risate per i frequenti tic del maestro.
A stare bene attenti si intuisce in Di Gianni una forza fisica non comune oltre la stanchezza imposta dall'anagrafe; si indovina nei lampi degli occhi, intelligenti e appassionati, nei gesti avvolgenti con cui accompagna i suoi racconti, attore su un invisibile palcoscenico. Gli piace molto recitare e lo dimostra anche sul set, dove lo incontro il giorno seguente.

luigidigianni_villaalba_03Arrivo nel dopopranzo, come da appuntamento, e subito ho l'impressione di aver sbagliato indirizzo. La villa a due piani che si mostra al termine di un viottolo melmoso ha il tipico aspetto di una casa padronale veneta, come tante qui nel Polesine. La sua facciata rigorosa, l'amore per la simmetria non sembrano avere molto a che fare con Kafka e il suo universo di livida disperazione. Nei dintorni, nessuno. Solo un fuocherello tra le braci del camino denuncia un'invisibile presenza umana. Mi aggiro un po' tra le rovine della villa, maledicendo la diffusa poltiglia fangosa che mi incolla a terra le scarpe, finché noto, sul retro, alcuni cavi serpeggiare lungo i mattoni a vista della parete. Mi viene in mente l'immagine di una vecchia centrale elettrica in rovina e in questa atmosfera lynchiana da degrado post-industriale quasi mi aspetto, svoltato l'angolo, di trovare un demiurgo scarnito riverso su un infernale marchingegno a leve. Invece trovo Di Gianni, imbacuccato come una cipolla sotto strati di abiti e con la testa incorniciata da un passamontagna che appena gli lascia liberi occhi, naso e bocca. Mi saluta con la consueta affabilità, anche se ha appena finito di rimproverare i tecnici: pare che le luci non vadano bene, si dovrà tornare a girare più tardi. "Per che ora saremo pronti?" Le quattro, senza dubbio. Rimango lì, mentre i tecnici modificano il set e la troupe torna in albergo. Vengono le quattro, ma del cast neanche l'ombra; poi le cinque, le cinque e mezza, ma del regista neanche la voce. Verso le sei arrivano le prime comparse e io non sento più le dita dei piedi. Il set è finalmente allestito, ma al momento di girare si rimane senza energia elettrica, la scena piomba nell'oscurità. "Kafka è qui, altro che sul set", mi confida un intabarrato Renato Scarpa.

Quando si conclude la giornata di riprese è mezzanotte passata, ma Di Gianni non ha ancora finito di lavorare, mancano i primi piani. In piedi dietro la telecamera mima i gesti agli attori, ne dirige lo sguardo spostandosi a zigzag, allarga le braccia, scuote le mani e per un attimo si ha l'impressione che la macchina da presa sia fissa su di lui. Alla fine si appoggia alla sedia, sfiancato dalla giornata di lavoro. Ci sono delle rughe sul suo volto e tiene le palpebre leggermente abbassate, eppure anche adesso non resiste, scherza con gli attori, racconta aneddoti e cita "L'angelo sterminatore"; tra le mani stringe i lirici greci tradotti da Quasimodo. Il bastone con cui si accompagna è il solo indizio che concede all'età, ma non sembra preoccuparsene più di tanto: lo accetta stoicamente. Da buon lettore di Kafka sa bene che anche il tempo ha le sue burocrazie e a non voler accettare verdetti inappellabili, si rischia di fare la fine di K.

Per cominciare vorrei parlare del suo nuovo progetto dedicato a Kafka. Da dove nasce il profondo legame che lei ha con questo autore?
Glielo dico subito. E' uno dei primi amori e i primi amori sono indimenticabili. Io l'ho letto per la prima volta all'età di vent'anni e ho pianto per la felicità per tre notti di seguito. Da allora è rimasto un amore che mi ha accompagnato per tutta la vita, portandomi, certe volte, pure ad esagerare. Quando ci fu una grossa delusione, perché dovevo fare "Il Castello" e ci tenevo moltissimo, un dirigente della Rai, che non aveva il coraggio di parlare con me, mentre si allontanava kafkianamente, stanco si sentirmi continuamente parlare del progetto che era stato rifiutato, mi urlò "Rinnovati!" e io gli risposi "Io non mi voglio rinnovare!". (ride)

Kafka ha lasciato un segno tangibile in tutta la sua opera e, a quanto pare, anche nella sua vita. Forse la modernità dell'autore praghese risiede anche nella capacità della sua letteratura di esser universale, svincolata da legami storici. Lei pensa che abbia ancora qualcosa da dirci?
Secondo me, è un profeta. Capì tutto del Novecento e, credo, anche del Duemila. Ha capito assolutamente tutto. Non so come abbia fatto in quarantuno anni di vita, ma ha capito tutto.

luigidigianni_3Nonostante questa natura "profetica" della sua opera, Kafka rimane un autore poco frequentato dal cinema e leggendolo si può capire il perché. Immagino che la scrittura allegorica e il tono fiabesco di molti passaggi narrativi pongano notevoli problemi dal punto di vista della messa in scena.

Sì, guardi, le dico subito. Prima di Orson Welles se si parlava di fare Kafka al cinema inorridivano addirittura, ti guardavano con un senso di sgomento, come a dire "questo è matto!". Difatti al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma quando io proposi come diploma di regia il primo capitolo de "Il Processo", "L'arresto", i docenti erano poco propensi ad accettarlo. All'epoca, poi, dominava il Neorealismo, anche se il grande cinema neorealista era già pronto a trasformarsi nel "Neorealismo rosa", sul quale.. non ho molti commenti da fare (ride). La mia fortuna fu di avere a mio favore il direttore del Centro Sperimentale, che era un Cattolico Esistenzialista abbastanza aperto ad un cinema che non fosse strettamente Neorealista. Le difficoltà erano considerate notevoli e al centro sperimentale temevano che io volessi fare una cosa troppo velleitaria, astratta, astrusa. Allora Alessandro Blasetti, che insegnava regia ed era un uomo geniale, mi sottopose ad un severo interrogatorio alla presenza di tutti gli allievi delle varie sezioni del Centro Sperimentale; tra gli altri c'era anche la moglie di Modugno, Franca Gandolfi. Quindi Blasetti mi disse "Tu vuoi fare Kafka? Benissimo: recita". Io gli chiesi cosa dovevo recitare. "Tutto! Tu hai questo primo capitolo. Se passa un gatto fai anche la parte del gatto, fai la parte degli uomini, delle donne, dei bambini, dei gatti, tutto, devi recitare tutto!". E io recitai tutto con molta veemenza e anche con una certa carnosità. Lui di fronte alla concretezza della recitazione si convinse e dette l'assenso e, insieme con lui, anche gli altri docenti si convinsero a farmi fare questo primo capitolo de "Il Processo", che poi ebbe un certo successo, perché fu mandato a Venezia dal Centro Sperimentale come premio e fu proiettato in una saletta dove c'era anche Visconti.

Non male come inizio. E a Visconti piacque il film?
Fu molto gentile con me. Mi disse: "Argomento difficile, ma mano felice". Poi anni dopo mi raccontarono, anche se io all'epoca non mi accorsi di nulla, che in platea c'era anche Albero Sordi, che rideva come un pazzo durante la proiezione e Visconti ad un certo punto gli disse "Ti prego Alberto, c'è il regista in sala!" (ride).
Questo fu un primo esperimento. Poi travasai le mie tentazioni kafkiane in Rai, perché nel '55 ebbi l'occasione di essere tra i cosiddetti "quaranta immortali", che vinsero questo famoso concorso per entrare a lavorare nel servizio pubblico, al quale partecipò anche Umberto Eco. Scelsi la via realizzativa e non quella funzional-dirigenziale, perché non mi interessava per niente essere dirigente della Rai. Lì dovetti un po' barcamenarmi, perché a quei tempi la Rai era legata a schemi radiofonici, mentre io volevo fare cinema. Però riuscii, dopo otto anni dalla proposta, a vedere accettato "Il Processo" e così lo realizzai nello studio più grande di Torino.

Insomma, nel 1978 lei riuscì a portare Kafka in Rai. Un'impresa che ha dell'incredibile se pensiamo al palinsesto odierno, ma l'opera fu anche molto apprezzata, non è vero?
Sì, piacque molto, infatti, sulla scia del successo che "Il Processo" riscosse, avrei dovuto realizzare, sempre per la Rai "Il Castello". Erano d'accordissimo non solo il direttore della seconda rete Fichera, ma anche il presidente della Rai, che in quei tempi era Paolo Grassi, il fondatore, insieme con Strehler, del Piccolo Teatro di Milano, il quale era entusiasta, anzi cercava di aiutarmi personalmente. Scrissi la sceneggiatura, ma, una volta finita, erano cambiati i dirigenti della rai per vicende politiche, come succede spesso, e quindi il progetto, assieme ad altri, saltò per aria. Io naturalmente ci rimasi molto, molto male.
Poi, verso l'Ottantatre o Ottantacinque ripresi i temi kafkiani con "Un medico di campagna"; scrissi una sceneggiatura e la presentai alla Rai di Bolzano. Si dimostrarono molto aperti, anche perché io volevo fare una doppia edizione italiana e tedesca. Sennonché, dopo aver fatto una serie di sopralluoghi molto interessanti ed essere andati in giro dappertutto, ad un certo punto non avevano più a disposizione i mezzi necessari e mi offrirono solo un numero minimo di collaboratori, con i quali era impossibile realizzare il progetto e allora rimandai. Finché l'anno scorso, con contributo di "Fuori Orario", che è la sezione illuminata della Rai, riuscii ad avere un apporto finanziario che, però, purtroppo non bastava e dovetti impegnarmi in prima persona. Alla fine riuscii a realizzarlo tra vicende abbastanza difficili.
Poi, sulla base di "Un medico di campagna" pensai alla possibilità di realizzare un "Progetto Kafka". Ne parlai con gli amici della "Ethnos", tra cui Marco Mensa, che avevo chiamato in extremis, come salvatore della patria, per curare la fotografia di "Un medico di campagna", ed era stato bravissimo. Parlai anche con Elisa Mereghetti, che conoscevo da tanti anni, e assieme decidemmo di realizzare questa idea. In più, in occasione della nascita della Film Commission del Polesine io avevo subito lanciato l'ipotesi di una collaborazione e sulla base di questo suggerimento c'è stato poi il contributo della Film Commission Polesana. Alla fine stiamo affrontando tutti insieme la realizzazione di questo progetto, che è molto difficile, perché è un soggetto ancora più complesso dell'altro film.

Effettivamente leggendo i racconti ci si rende conto della difficoltà di trasporli al cinema. Forse "Un medico di campagna" per un certo tono allegorico, le frequenti allusioni a corpi e situazioni dal forte valore simbolico, ha una componente cinematografica più solida. "Nella colonia penale", sinceramente, faccio più fatica a immaginarlo in senso filmico.
Infatti è difficilissimo. Io ho cercato in parte di rielaborare, di inventare delle cose che, nel testo, rimangono semplicemente delle allusioni. Per esempio ho reinventato il personaggio del nuovo comandante e rivisto il ruolo delle figure femminili, le donne, verso le quali l'ufficiale rivela un atteggiamento estremamente misogino; queste signore che sventolano fazzoletti e accompagnano il nuovo potere. In questo senso ho cercato di destreggiarmi tra gli spunti offerti dal testo, però rimane, è chiaro, la difficoltà di un monologo sovrabbondante in bocca all'ufficiale, che in qualche modo, si dovrà sintetizzare. E' un esperimento molto difficile, al quale ho cercato di dare, con l'aiuto del Polesine, che è una terra molto particolare, un'atmosfera diversa, insolita, non più quella della colonia penale kafkiana in senso stretto. Quello che volevo fare era sostituire la tipica scenografia tropicale con un'ambientazione fosca e nebbiosa, che io amo molto. Naturalmente non siamo riusciti ad avere neanche un giorno di nebbia e la dovremo fare artificialmente.

luigidigianni_zuccherificio1_01A proposito di queste atmosfere fosche e nebbiose, va detto che nell'opera dello scrittore praghese persiste una componente cupa, tetra, che è molto evidente sia in "Un medico di campagna" che nella "Colonia penale". In quest'ultimo racconto, poi, l'atmosfera risulta quasi disturbante per l'ossessione chirurgica dei dettagli; sto pensando al momento in cui l'ufficiale descrive la macchina di tortura all'esploratore. L'orrore è suggerito proprio dall'attenzione data ai particolari.
Sì, è terribile, terrificante. Infatti c'è anche il problema della costruzione della macchina, che bisognerebbe far fare ad Hollywood (ride). Noi, invece, l'abbiamo fatta in famiglia, ma speriamo che attraverso le luci, attraverso alcuni dettagli che sono venuti abbastanza bene si crei una buona illusione. Per esempio abbiamo usato il plexiglas per rendere la trasparenza del vetro, ma, certo, molto rimane allusivo.

Il fascino evocativo dell'orrore, insomma.
Eh, la cupezza e l'angoscia mi piacciono, mi sono assolutamente congeniali.

Non è una conseguenza di Kafka?
No, no, è da sempre. Anzi una ragione per cui mi è piaciuto Kafka è probabilmente proprio questa. Io, poi, sono passato a Kafka attraverso Dostoevskij e in più ci sono le mie conoscenze, le frequentazioni, la filosofia dell'esistenza.. si tratta di modelli di pensiero non proprio allegri. Il concetto di nulla, il concetto dell'angoscia, l'uomo come sentinella del nulla, l'uomo gettato nel mondo e così via.

E anche al cinema si sente affascinato da queste atmosfere torbide, talvolta grottesche?
Io ho bisogno di questa componente.

Parlo non solo del cinema fatto, ma anche di quello vissuto da spettatore.
Beh, certo! Io andavo alla ricerca di un certo tipo di film. Ho cominciato da piccolo e mi sono subito innamorato di alcuni film non proprio da bambini. All'età di quattro anni ho visto "Il fantasma dell'opera" con Lon Chaney, muto, e, devo dire la verità, sono rimasto molto colpito. Poi a cinque anni ho visto, colpitissimo, l'opera di un autore che amo immensamente, "Il vampiro" di Carl Theodor Dreyer. La cosa strana è che sotto il fascismo c'erano delle libertà incredibili, c'era scritto che non potevano entrare i minori di diciotto anni, però alla fine, un po' di soppiatto, si riusciva a vedere il film senza troppi problemi.

Immagino che la scena della bara l'abbia perseguitata per notti, se la ricorda?
Un ricordo indelebile. Poi all'età di otto anni mi sono innamorato di un attore dell'orrore quale Boris Karloff. Quindi possiamo dire che c'è un passato molto solido (ride).

Il Progetto Kafka è diviso in tre parti: "Un medico di campagna", "Nella colonia penale" e poi c'è una parte introduttiva.
Sì, c'è una parte introduttiva, che io vorrei confezionare in questo modo: andare a Praga, nei luoghi kafkiani e, io personalmente, come attore, parlare di Kafka attraverso questi luoghi: la via degli alchimisti, dove ha concepito "Un medico di campagna", poi la casa paterna, la tomba, che ho fotografato ormai moltissime volte e così via. In più c'è l'ambizione di spingermi a Trieste, una città che a me piace molto, e di vedere con le Assicurazioni Generali se sia possibile avere un colloquio, così da trattare cinematograficamente l'aspetto della carriera impiegatizia di Kafka, il quale è stato impiegato nelle Assicurazioni Generali a Praga.

Quindi si metterebbe in gioco anche come attore?
Attore nel senso di parlare direttamente al pubblico. Ma io mi sono messo in gioco varie volte, mi piace moltissimo. Delle volte preferirei fare l'attore.

luigidigianni_1Immagino, quindi, che sul set sia molto fisico nel descrivere le scene agli interpreti.
Quando sono in forma posso farlo, purtroppo ultimamente ci sono sempre più impedimenti. L'età, ahimè, è quello che è e impedisce i salti che facevo prima. Prima saltavo da tutte le parti, adesso purtroppo non posso più e con i tempi ristretti sono costretto a tralasciare alcuni aspetti, che, altrimenti, curerei in modo assoluto, pezzetto per pezzetto.

A questo proposito, mi piacerebbe discutere un po' l'aspetto sonoro dei suoi lavori. Per questo film ha già un'idea di come organizzarlo?
Dunque, per "Un medico di campagna" devo dire che ho curato io direttamente le musiche, senza interventi di musicisti.

Personalmente?
Sì, con una scelta di autori a me congeniali, che io amo moltissimo, cioè la scuola viennese di Schoenberg. Più che Schoenberg, soprattutto Alban Berg e Anton Webern, che adoro.

A me era piaciuto molto, guardando "Il male di San Donato" il lavoro svolto sulla voce e il modo in cui si compenetrava con il commento musicale. Il compositore era Egisto Macchi, se non sbaglio.
Sì, sì, Egisto Macchi era un musicista che per me andava benissimo. A parte che poi siamo diventati amici e, infatti, quando è morto ne ho sofferto molto. Lui apparteneva alla musica contemporanea. Spesso nei documentari c'è questa cattiva abitudine di fare il commento sonoro non in senso di contributo espressivo, ma nel senso di accompagnamento. Uno piange e subito naa naa naa.

Violini.
Ecco, e questo mi dà il voltastomaco, quindi ho ripudiato questo tipo di musica, e mi sono rivolto ad alcuni musicisti interessanti, giovani, nel senso che avevano la mia età, tra i quali Egisto Macchi.

Collaborazione che ha dato dei risultati davvero notevoli. Penso anche al Vajont, con la scena iniziale della carrellata dall'alto al basso sull'albero di Natale e quando arriva alla base allarga sulle tombe; un'immagine di grandissimo impatto.
Sì. Quello, poi, l'ho girato in un giorno soltanto, il giorno di Natale, anche se i miei collaboratori volevano abbandonarmi per darsi alla pazza gioia (ride). Io li ho fatti rimanere a soffrire.

Questo film pone anche un netto legame, peraltro da lei sempre dichiarato, tra il cinema documentario e il cinema di finzione. In questo caso abbiamo prima l'introduzione in forma documentaria e poi la narrazione.
Guardi, le dico subito: per me il documentario è un nobile pretesto per fare del cinema. A me non interessa molto il rapporto diretto con la realtà, mi interessa un rapporto costruito e con una realtà da me scelta, a me congeniale. I contadini lucani io li amavo, con questi volti atroci, per la sofferenza, ma nobilissimi, che adesso non ci sono più. Quindi la scelta del tema è anche una scelta di congenialità, a parte alcune circostanze particolari, quali il fatto che io sia di origine lucana e sia tornato da bambino in quei paesi, dove mi colpirono ed emozionarono molto alcune cose, soprattutto un funerale, tanto per rimanere in tema, con lamento funebre cui assistetti. All'epoca non sapevo cosa fosse e rimasi davvero colpito.

Infatti ne dà una bellissima resa in "Magia lucana". E', forse, la scena più coinvolgente quella in cui le donne recitano il lamento attorno alla bara del defunto. A proposito dei volti, nel suo cinema ce ne sono tantissimi.
Ma molti volti sono banali, secondo me.

Nel complesso credo abbiano una grande forza espressiva, una grande intensità.
E' una cosa difficile, trovare i volti adatti. Per esempio, anche quando ho girato "Il tempo dell'inizio", che è il mio primo lungometraggio, io volevo andare in Jugoslavia, perché da quelle parti c'erano dei volti molto interessanti. Poi, però, non ebbi la possibilità di girare lì e tornai in Lucania, sul luogo del delitto. C'è sempre stata una grande ricerca di questi volti, che dovrebbero essere estremamente particolari, espressivi insomma. Ma espressivi in che senso? In realtà dipende da caso a caso. I belli non mi piacciono (ride), per invidia, probabilmente, essendo io brutto. Però i belli si possono imbruttire.

Una cosa interessante che si vede in molti suoi film e documentari è come i suoi personaggi sembrino sempre in balia di qualcosa che è più grande di loro. Non fanno parte della vita, sono buttati nella vita.
Infatti è la mia filosofia, l'esistenzialismo. All'età di diciassette anni, mentre infuriava la guerra e cadevano le bombe, io avevo un vicino di casa, che era un professore di filosofia sui trentatré anni, eccitatissimo, con degli occhi da pazzo. Mi fu subito simpatico e proprio lui mi invitò a leggere "Studi sull'esistenzialismo" di Pareyson, un saggio sulla filosofia dell'esistenza e da allora mi innamorai, soprattutto di Martin Heidegger, tra i protagonisti del movimento, e anche un po' di certe suggestioni: l'essere gettato, il nulla, il rapporto con il nulla, l'angoscia.

Lei, dicevamo, ha cominciato come documentarista.

Sì, a parte "L'arresto", ma non volevo fare documentari, volevo fare un film di finzione dedicato ad un personaggio della cronaca di quel tempo che si chiamava Cannarozzo. Cannarozzo era un maresciallo di finanza siciliano che viveva in un tugurio con la famiglia ad Ancona e cercava disperatamente una casa. In quel seminterrato non c'era nemmeno luce, era una cosa terribile e forse in famiglia lo rimproveravano, anche, per questo. Lui ha cominciato a scrivere memoriali, a mandare lettere, ma nessuno ha mai fatto niente. Ad un certo punto è impazzito. E' andato a casa, si è vestito con l'uniforme ufficiale da cerimonia, ha preso delle bombe, è andato in un cinema di Roma, dove proiettavano un film allegro "Pane amore e fantasia". Ha ammazzato varie persone, poi si è dato alla fuga e si è suicidato. E quella figura mi appassionava moltissimo, avevo anche scritto un soggetto, che, peraltro, è stato in parte pubblicato nel numero di Dicembre di Fimcritica.

Quindi è stato un esordio un po' forzato quello nel documentario.
Sì, un po' è stato forzato, perché al centro sperimentale avevamo visto centinaia di film e io ero innamorato dell'espressionismo tedesco, di Dreyer e queste cose qua. Anzi ero in polemica con i miei compagni di scuola.

Legati al neorealismo, immagino.
Ovviamente, tutti. Infatti un mio collega, molto intelligente, intendiamoci, anche se si dava un po' di ariette, mi disse mentre guardavamo "L'angelo azzurro" di von Sternberg (film che avrò visto trentaquattro volte): "Ma non senti che manda un cattivo odore?" - Io dissi: "Ma no, non sento nessun odore" - E lui: "Sei proprio un decadente!" Al che gli risposi: "eh beh, è peccato mortale essere decadenti?" (ride). C'era un bel conflitto e infatti ero piuttosto isolato al centro sperimentale.

luigidigianni_4_01Ecco se, per esempio, un giovane volesse cominciare oggi ad occuparsi di documentario etnografico, lei pensa che possa avere senso?
Sì, ha senso, poi bisogna vedere come si affronta questa materia. E' chiaro che io, in un secondo momento, non essendo riuscito a realizzare il film su Cannarozzo, ho sfruttato l'occasione che mi si è presentata. Avevo letto sul giornale che Ernesto De Martino si stava occupando di magia in Lucania e siccome sono di origine lucana e avevo ricordi emozionanti di quella terra, incominciai ad informarmi e a frequentare De Martino, con il quale nacque una grande amicizia. Sulla spinta di queste cose realizzai "Magia Lucana", anche lì con difficoltà, visto che alla Documento Film volevano i soldi in contanti, perché, mi dissero, non potevano rischiare tutto per un esordiente. Alla fine mia madre, che era una donna di grande fantasia ed inventiva riuscì a trovarli, per fortuna, e con questi soldi si fece il film. Dopo "Magia Lucana", che fu l'esordio, fui conquistato dal mondo del documentario! Non è che abbia lavorato controvoglia in questo settore, ho sempre lavorato con grande amore e grande passione, ma si tratta di un documentario di ispirazione antropologica, pur fatto a modo mio, cioè costruito il più possibile, come se fosse finzione, curando soprattutto certe atmosfere cupe, magiche, negative, che a me sono congeniali. Una volta mi hanno detto: "Ma perché tu scegli sempre le case nere? Ci sono anche le case grigie, quelle bianche, anche rosse" - "No, perché le altre non mi piacciono, le voglio nere", è tanto semplice. Una volta un illustre personaggio del cinema mi domandò a proposito di una scena di "Nascita e morte nel meridione": "Ma come mai i tuoi contadini non si soffiano mai il naso?" Io gli ho risposto: "Perché non hanno il raffreddore". (ride). Il mio modo d fare cinema documentario è un po' stilizzato, un po' costruito, come dire, ricreo le atmosfere in cui mi sento a mio agio. Non posso fare una cosa che mi è estranea, se non sento un soggetto è meglio che non me ne occupi, rischierei di fare una porcheria.

Poi, come diceva, erano progetti che spesso venivano girati anche in un giorno.
Sì, molti documentari li ho girati in un giorno, due giorni, e con mezzi minimi, perché le produzioni non davano di più.

Quindi non c'era sceneggiatura?
No, c'era un soggetto e poi sul luogo inventavo. Al massimo si poteva avere una scaletta. E poi c'erano collaboratori minimi a disposizione; alcuni documentari, per esempio "Il culto delle pietre", l'abbiamo fatto in tre: io, l'operatore e l'aiuto operatore. Per altri documentari potevano esserci al massimo cinque persone, perché si aggiungevano l'elettricista ed eventualmente il fonico. In un primo momento ho evitato proprio il fonico. Per esempio, in "Magia Lucana" il suono è tutto costruito a posteriori. Perché io privilegiavo l'immagine e impegnavo tutti i soldi che avevo in quella direzione. Mi portai piuttosto il carrello, che amo moltissimo. Fu un po' una pazzia e non girai il sonoro, visto che avevo trascurato la parte fonica. Dopo, a Roma, ricostruii il sonoro grazie ad un famoso rumorista, che si chiamava Caciottolo e che era un mago degli effetti sonori.

Oggi nel panorama del documentario è emerso il fenomeno della docufiction, grazie ad alcuni nomi che stanno ricevendo un notevole successo e una diffusione, un'attenzione anche superiore a quella tributata, all'epoca, ai suoi primi documentari, forse a causa del neorealismo imperante. Penso, per esempio, a Frammartino. Le piace?
Frammartino è bravissimo, "Le quattro volte" è bello, caspita. Ma ci sono, infatti, delle persone notevoli, però vorrei osservare una cosa, così, con distacco e senza cattiveria: purtroppo l'invasione delle televisioni e del mezzo elettronico hanno portato a debordare i limiti dell'accettabile dal punto di vista della durata. Ci sono questi documentari di tre ore, che molto spesso sono assolutamente ingiustificati, dove si ripetono sempre le stesse cose e questo è venuto fuori con la moda imperante della televisione e dell'inchiesta televisiva e poi con il mezzo elettronico, che consente di girare tranquillamente. Con il mezzo cinematografico si girava al massimo mille metri di pellicola, eravamo costretti a fare una sintesi a priori.

Si arrivava sul luogo sapendo già cosa si voleva.
In parte sapendo, in parte sapendo che, comunque, la pellicola era quella e se volevi inventare qualcosa ti dovevi attenere a quella pellicola, altrimenti diventava un problema. A me una volta mancavano trenta metri di pellicola e sono dovuto correre fino a Bari da Matera di notte per trovare un fotografo.

Maestro Di Gianni, la ringrazio molto per la disponibilità. Come ultima cosa, vorrei chiederle: visto che sembra esserci un rinnovato interesse nei confronti della sua opera - penso alla cineteca di Bologna che sta restaurando i suoi documentari o agli onori tributati dal Festival di Berlino, che nel 2003 ha proposto una retrospettiva sulla sua opera - lo vedremo mai "Il Castello"?
Eh... L'Eterno solo lo sa. La sceneggiatura è pronta e io lo farei con immensa felicità, ma dovrei trovare delle forze hollywoodiane, perché per fare "Il Castello" occorrono finanziamenti considerevoli. La Rai era l'unica che poteva realizzare un opera come questa, sennonché adesso il servizio pubblico segue strade diverse e quindi non vi si può contare. "Fuori Orario", che considero l'ultimo baluardo, ha dei budget troppo limitati. Due cose mi sono rimaste da fare: Cannarozzo e Il Castello. Poi, per quanto riguarda il resto, che posso dire? Purtroppo disponibilità dagli abbienti non c'è e io, comunque, non ne ho mai trovata molta. Esiste proprio un abisso tra me e gli abbienti (ride). Posso dire che se ci fosse la possibilità di fare "Il Castello", lascerei tutto e farei "Il Castello", ma, per adesso, c'è solo da sperare.





Finzioni - Intervista kafkiana a Luigi Di Gianni